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Umanesimi e scienze. Il caso del medico*
di Giuseppe Galasso

A Ortensio Zecchino,
“normanno-svevo”e“biogemico”



L’antitesi tra Umanesimo e Scienza o, meglio, tra discipline cosiddette umanistiche e discipline cosiddette scientifiche è – si può dire – una struttura portante della cultura occidentale fin da tempi remoti, e nel trattarne si sono prodigati molti dei maggiori ingegni di questa tradizione. Si può, anzi, dire che i termini della discussione, dopo secoli e secoli, non sono di molto variati rispetto alle loro formulazioni più antiche.
Un aspetto particolare della contrapposizione è dato dal fatto che alla scienza si rivendicava uno statuto di precisione e di esattezza, di cui le discipline umanistiche sarebbero state prive, perché vertevano su valori e concetti non misurabili e praticavano metodi lontani dalla verifica e dai calcoli sperimentali delle discipline scientifiche. Non per nulla la retorica e la matematica divennero molto per tempo le discipline profondamente esemplari e rappresentative dei due settori, ma basta pensare all’eloquenza, alla poesia, alla musica e alle arti figurative, da un lato, e alla geometria, all’ingegneria o alla medicina, da un altro alto, per rendersi più pienamente conto di come anche nell’immaginario di ogni epoca il contrasto fra i due campi disciplinari si rivestisse molto facilmente di referenze di immediata percezione. Né si possono trascurare i varii tipi di definizione dei due campi, per cui si parla di scienze morali e di scienze naturali, quasi che le altre siano, rispettivamente, immorali o innaturali, e di scienze esatte quasi che le altre, ossia quelle umanistiche, siano destinate per loro natura all’inesattezza.
Grande importanza storica ha avuto e ha, poi, il fatto che l’identificazione delle scienze morali come scienze dei valori ha portato alla convinzione che esse procurino non tanto “scienza” quanto “sapienza”, e si aggirino nel mondo di una sfera superiore per la sua valenza cognitiva e morale, laddove le scienze naturali stanno ferme alle apparenze e ai fenomeni di cui il mondo è fatto.
Uno scrittore significativo e del tutto consapevole dell’importanza di tale profonda diversità quale fuGiovanni Boccaccio, scriveva che «la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura». E su questo motivo intorno al 1350 il Petrarca aveva scritto addirittura tutta un’opera polemica, per lui, in certo qual modo, occasionale, le famose Invettive contro un certo medico. Il poeta vi fa valere appieno la diversità di senso fra logica, retorica, filosofia, etica, poesia e la medicina, arte puramente meccanica, che riguarda unicamente il corpo.
In realtà, la contrapposizione risale molto più indietro nel tempo, e la si ritrova, nei suoi termini più essenziali già nel “secolo di Pericle” e nella seguente età ellenistica, fino a ricorrere negli scritti di autori latini come Cicerone con una espressione destinata a restare in gran parte canonica. E, del resto, se posso addurre una modestissima testimonianza personale, non so quante volte mi sono sentito io stesso ripetere da colleghi delle facoltà scientifiche, anche di gran nome, specialmente medici, come cosa ovvia e da non potersi nemmeno discutere, che, in quanto storico e umanista, io facevo cultura, diversamente da loro, che si consideravano semplici operatori e gestori delle materie della scienza.
Naturalmente, è appena il caso di dire che a ciò ha sempre corrisposto l’orgoglio dello scienziato, che si considera assiso al centro della ricerca della verità, nel regno del concreto e del realmente utile, laddove dall’altra parte non vi sono che vane nuvole di immaginazione e di astratte speculazioni o, nel migliore dei casi, le belle e geniali invenzioni e fantasie degli artisti.
Drastica bipartizione e contrapposizione dei saperi, dunque. Rispetto ad essa, neppure il fatto che, per fare ancora un esempio, le dimensioni quantitative erano e sono presenti in tante attività umanistiche – si pensi alla relazione tra aritmetica e musica, o tra architettura geometria e matematica, o al fondamento metrico della poesia o ad altri possibili casi dello stesso genere facilmente esemplificabili – è mai valso ad attenuare il dualismo, che è poi contrapposizione, tra umanesimo e scienza, nonostante che, ad esempio, la relazione tra matematica e musica sia stata molte volte oggetto di suggestive esplorazioni, a cominciare da quella di citazione addirittura elementare di Pitagora e dei pitagorici.
Ugualmente, e fortemente, significativo di tali problematiche è poi certamente il caso della scienza economica, una disciplina moderna i cui imponenti sviluppi matematici e modellistici non sono valsi ad assicurare ad essa uno statuto scientifico paritetico rispetto alle scienze esatte, naturali, sperimentali o comunque si vogliano definire.
Il progresso scientifico dell’età moderna ha, peraltro, cambiato la nostra concezione della scienza, portandola, come si sa, dalle certezze granitiche e indiscutibili di un tempo alla convinzione di una natura di probabilità e di graduale approssimazione delle “verità” scientifiche, e, nello stesso tempo, dalla scienza fondata sul dogma meccanicistico alla scienza del XX secolo fondata su un ben diverso presupposto, oltre che aliena da qualsiasi normativismo rigido e monotetico. Paradossalmente, questo mutamento così profondo nel concetto di scienza non ha, però, affatto mutato il quadro tradizionale della contrapposizione fra umanisti e scienziati, i primi, più o meno col naso in aria, i secondi con rigorosa osservazione dell’oggetto come, rispettivamente, Platone, con lo sguardo e il dito volto al cielo, e Aristotele, con lo sguardo e il dito volto verso terra, nel grande affresco di Raffaello in Vaticano.
Lo sviluppo dello specialismo in tutte le discipline, sia umanistiche che scientifiche, ha portato, inoltre, a quella crisi dell’unità del sapere che tutte le menti più pensose avvertono come un problema ormai di primario rilievo nella cultura contemporanea e che incide profondamente, come è facile intendere, anche nella concezione stessa della scienza e di ciò che si debba intendere per scientifico: problema che, peraltro, non si è prestato e non si presta a soluzioni mediatrici e concilianti di ordine puramente verbale o formulistico oppure di ordine sofisticatamente logico-retorico, o, ancora, di ordine puramente ipotetico. È chiaro che la distinzione tra i due campi di cui parliamo persiste ugualmente a fronte di questi ulteriori e relativamente più recenti sviluppi del pensiero e della metodologia scientifica. E si comprende, per ciò, che la tendenza corrente sia a riconoscere la complessiva e irriducibile specificità di ciascuno dei due campi, in una reciprocamente rispettosa distinzione che sostituisca l’abitudinaria contrapposizione fra loro e le loro rispettive e altrettanto tradizionali rivendicazioni di superiorità, e lasci aperto ogni spazio a loro incontri, cooperazioni e, magari, anche scontri metodologici e critici di reciproca utilità e fecondità.
Qui non mi fermo su questo problema dell’unità del sapere avendolo fatto altrove (Sapere e nuovi saperi: l’unità del sapere, in «Prospettive Settanta», 1990, fasc. 1-2, pp. 8-14; e L’unità del sapere, in «L’Acropoli», a. 10, 2009, pp. 124-141), anche in relazione al noto testo di Snow su Le due culture, che sembra, peraltro giungere, pur nella vivacità e nell’interesse del suo discorso, a quelle soluzioni di compromesso e di mediazioni che a noi non sembrano praticabili in questa materia. Mi limito solo ad aggiungere che quel problema di unità non è per nulla risolto rinunciando all’idea dell’unità del sapere, parlando di saperi anziché di sapere, e vedendo nella pluralità scientificamente collaborante dei saperi la soluzione del problema. E questo anche perché (come cerco di dimostrare nei miei scritti sopra citati, e anche nel mio libro Nient’altro che storia, Bologna, Il Mulino, 2000) il problema dell’unità del sapere vada risolto scorgendo e mettendo in evidenza l’unica natura, che è storica, della struttura del giudizio, cellula universale del nostro pensare e discorrere.
Vorrei, invece, fare qualche osservazione sul riferimento in generale a un contrasto tra umanesimo e scienza, intesi e usati entrambi, come solitamente suole accadere, al singolare. L’uso del singolare porta, invero, a contrapporre l’umanesimo e la scienza come due realtà univoche e, ciascuna di per sé, onnicomprensiva del proprio campo, quasi fossero due blocchi monolitici, due mondi unitariamente organizzati e internamente e univocamente coerenti, due universi cognitivi organici e separati, sostanzialmente eterogenei. È tipica l’espressione “edificio della scienza”, che ricorre in tante espressioni del parlare corrente e dello stesso linguaggio scientifico, così come, per quanto riguarda l’umanesimo, la sua rappresentazione ha finito col trascendere il riferimento storico alla cultura dei secoli XIV-XVI per cui esso è stato escogitato, e si è posto, invece, anch’esso come un edificio valoriale (e ci sono, perciò, alcuni che preferiscono usare il termine “umanismo”, per distinguerlo da quello di “umanesimo”, proprio per lo specifico riferimento storico in cui per lo più usiamo “umanesimo”).
Su questa base, falliti o risultati insoddisfacenti e non duraturi, come si è detto, i tentativi di mediazione o di connubio tra i due concetti e i loro campi di studio e di riflessione, la cultura moderna ha, però, preso nel frattempo sia nell’uno che nell’altro campo tutt’altra strada, che è appunto quel che qui vorremmo mettere in rilievo: la già accennata strada, cioè, della specializzazione, che ha portato a una dilagante moltiplicazione delle discipline. Si tratta di una spinta così forte che chi oggi volesse paradossalmente sostenere che, in realtà, ogni ricerca è una disciplina a sé riuscirebbe meno paradossale di quanto si possa supporre.
Di conseguenza, la contrapposizione unitaria, frontale e totalizzante di “umanesimo” e ”scienza” non è più praticabile secondo il modulo tradizionale strettamente e generalmente alternativo. La moltiplicazione disciplinare ha progressivamente tolto senso a questo modulo tradizionale rigidamente bipartito, per cui appare assolutamente necessario parlare di umanesimi e scienze al plurale, come, peraltro, in realtà, sarebbe stato, però, necessario fin da principio.
Sempre, infatti, la pluralità delle esperienze e delle elaborazioni in cui sono stati vissuti e declinati ciò che si è inteso per umanesimo e ciò che si è inteso per scienza ha configurato una pluralità di significati e di indirizzi che avrebbe dovuto rendere fin dall’inizio impraticabile la riduzione schematicamente dualistica della contrapposizione che si voleva mettere in evidenza. Fin dall’inizio furono molteplici gli umanesimi e molteplici le scienze. L’uso e abuso della semplice bipartizione ha costantemente prevalso su questo indubitabile dato di fatto: talmente indubitabile che la sopravvenuta moltiplicazione disciplinare ha aggiunto soltanto un’ulteriore serie di ragioni alla già sussistente, anzi originaria, diversità di posizioni e, soprattutto, di ispirazioni che si riscontrava in ciascuno dei due campi contrapposti. Ragioni ulteriori, ma, ovviamente, non superflue, anzi essenziali, per una più piena presa di coscienza del problema di una criteriosa impostazione dei termini e dei concetti quando parliamo di umanesimo e di umanesimi o di scienza e di scienze,
La conversione pluralistica dell’antica contrapposizione bipartita fra umanesimo e scienza offre anche la possibilità non solo di un chiarimento indispensabile sulla storia e sulla natura di quella contrapposizione,ma anche di un avvio a intendere e valutare meglio la posizione e la condizione delle molte figure intellettuali e professionali di cui l’uno e l’altro campo sono fatti; e da questo punto di vista è fuor di dubbio che il caso delmedico offra lemaggiori emigliori sollecitazioni, interessanti in sé e, inoltre, anche di più generale valore. Ciò è altrettanto certamente dovuto anche al fatto che la medicina è stata ed è sempre rimasta una disciplina di frontiera, e ben al di là della contrapposizione della scienza all’umanesimo. Non per nulla, si è non di rado intesa la medicina come una componente indispensabile dell’antropologia, ossia come antropologia fisica, come la sezione corporea della scienza dell’uomo.
Questa condizione di frontiera ha anche favorito – si può dire – fin da tempi remoti una retorica particolare, la retorica della missione del medico, del suo dovere, che è diverso da quello di ogni altro operatore scientifico in quanto il medico è custode e garante della vita fisica dell’uomo. Il giuramento di Ippocrate è stato, forse, il principale veicolo di mantenimento e di trasmissione di tale retorica. Il che viene detto qui non per una qualsiasi sottovalutazione del significato e dello spirito di quel giuramento, bensì per una sua considerazione, diremmo, più realistica e più moderna. Quel giuramento appare, infatti, bisognevole, per quanto riguarda almeno la nostra epoca, di una vera e propria vanificazione (il termine non appaia troppo forte) della concezione sacrale della condizione e della professione medica: professione e condizione che non vengono fuori da un voto religioso o sacerdotale, come poteva accadere quando il medico aveva tutt’altra fisionomia e mansione, nel quadro di società in cui il medico e il sacerdote erano la stessa persona ed era indistinta la cumulazione di rito e di terapia, poiché la congiunzione fra medicina e i culti più varii era assai forte. Oggi la professione e la condizione del medico si inquadrano nel contesto di società fortemente laicizzate, in cui la laicità delle professioni, in quanto rispondenti a particolari paradigmi e protocolli scientifici e tecnici, è considerata un dato di fatto scontato anche dai fedeli e dai praticanti delle più varie religioni. E questo perché nel medico come in ogni altro professionista il profilo tecnico-scientifico è venuto, non per caso, a prevalere su ogni altro aspetto o dimensione della sua attività (e basterebbe pensare, del resto, anche soltanto al sempre più ampio ricorso a indagini e dati strumentali come mezzo preliminare e condizionante dell’esercizio della funzione medica, per rendersi conto dell’importanza assunta dall’elemento tecnico e scientifico rispetto a quello clinico e personale, pur restando irrinunciabile per il medico anche questo livello).
Il medico non fa e non può fare, dunque, eccezione. O, meglio, può fare eccezione solo per il fatto che egli ha a che fare con la carne viva e senziente dell’infermo, e che quella carne nelle mani del medico è un interlocutore quale a nessun fisico o chimico suole accadere di avere. Che è un particolare di straordinaria importanza, ma non altera il fondo logico della questione. Costituisce, invece, e questo conta, a sua volta, straordinariamente, una ragione per cui nel suo procedere il medico non può ritenere di avere a che fare solo con il corpo del suo paziente, con l’homme-machine – come lo definiva La Mettrie – o, in nessun caso, con una semplice cavia (e ciò anche a prescindere dal fatto che ora anche per le cavie si pongono i problemi che tutti conoscono). Tutti i medici sanno e ripetono quotidianamente a se a stessi, ai loro pazienti e ai relativi familiari che la dimensione psicologica e affettiva è essenziale in qualsiasi prescrizione o terapia o raccomandazione medica.
La stessa radice ha anche il fatto che il medico – essendo, senza forse, l’unica figura professionale del campo scientifico ad avere un tale rapporto, di tipo, a sua volta, fortemente psicologico ed emotivo, con i suoi interlocutori diretti e immediati (un po’ come avviene, nel suo campo, per l’avvocato) – si trova esposto, perciò, a contestazioni e accuse dirette e personali. In un’epistola del 13 marzo 1352 al papa, che era allora Clemente Vi, che diede origine a quelle sue Invettive contro un certo medico, che ho già ricordato, il Petrarca faceva una spiritosa quanto polemica illustrazione di questo aspetto della professione medica. «So – scriveva – che il tuo letto è assediato dai medici, e questa è la prima ragione del mio timore. Contrastanti fra loro sulle singole cure, vani di novità, si negoziano le nostre anime; sperimentano con le morti, come se dovessero non curare ma persuadere; intorno ai letticciuoli dei miseri disputano con gran boato; e, mentre quelli muoiono, mettono insieme ippocratici nodi con filo ciceroniano». Perciò, consigliava il Petrarca, «poiché non abbiamo il coraggio di vivere senza medici, sceglitene uno solo, non valente di chiacchiere, ma per scienza e fedeltà», memore del caso di quell’imperatore il cui epitaffio lo diceva morto «per la folla dei medici».
Sono più o meno, e con innumerevoli varianti, le accuse che da sempre si ripetono ai medici, e che danno luogo oggi ad altrettanto innumerevoli contenziosi. Ma non c’è da lamentarsene, né da rassegnarvisi, se si considera che la medicina, come abbiamo detto, è una disciplina di frontiera: la mobile e indefinibile frontiera che corre tra un’applicazione intensamente scientifica e tecnica e il mondo della vita vivente, che alla considerazione anonima e seriale propria della scienza rilutta con tutta l’energia insita nella vita, anche la più problematica e a rischio; la frontiera ancor più delicata e indefinibile che corre tra la vita fisica e quella psicologica ed emotiva.
Che meraviglia c’è, se, su queste basi, la medicina, come scienza e arte, dottrina e tecnica della salute, è già da tempo diventata anche un settore preminente nella politica sociale e ambientale dei nostri tempi? La meraviglia ha luogo quando di ciò non ci si rende pienamente conto in tutte le relative implicazioni; e questo – purtroppo – avviene assai spesso non solo per ragioni culturali, ma anche sotto la pressione di interessi e passioni nei cui confronti non si può avere indulgenza.








* Conversazone tenuta al convegno su Medicina e Umanesimo della Seconda Università di Napoli, il 24-2-2014.^
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