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Comincia l’era Renzi?
di G. G.
In termini sportivi si direbbe che Matteo Renzi ha compiuto quella che si definisce “un’impresa”: ha fatto, cioè, qualcosa che esce dall’ordinarietà dei tempi e dei modi della politica e ha conseguito obiettivi che era difficile mettere e conseguire insieme, e tutto ciò in un lasso di tempo piuttosto breve, non più di un paio di anni, in effetti, se si considera il vero e proprio periodo in cui la sua figura è emersa tra quelle con un più marcato ruolo di protagonista nel firmamento (si fa per dire) della politica italiana.
Il bilancio è stato che, in questo tempo davvero breve Renzi ha vinto le “primarie” (che sono diventate l’indiscutibile “nuovo rito” della politica italiana, ha vinto il congresso del suo partito, ha “rottamato”, almeno nell’immediato, la vecchia, stratificatissima, pertinace dirigenza del partito democratico, ha dato al partito una linea e un gruppo dirigente di marca del tutto sua, ha lanciato alcuni temi che nel dibattito politico italiano venivano continuamente agitati ma non precisati e portati a realizzazione, ha saltato ogni convenevole o conformismo o pregiudizio nei rapporti tra le forze politiche, ha stretto un accordo con Berlusconi sulle riforme (quella elettorale in testa) di ordine istituzionale, ha provocato la crisi del governo Letta, si è insediato lui alla presidenza del governo mantenendo l’ufficio di segretario del suo partito, ha avuto l’indispensabile voto di fiducia in Parlamento, ha composto un governo effettivamente di “nuovo modello” per la prassi italiana (uomini e donne in pari numero, età media più bassa delle precedenti consuetudini), ha annunciato un programma di governo in varii punti e ne ha preannunciato una tempistica piuttosto veloce).
Non è un caso, però, che tutto questo continui a sembrare assai poco credibile e apprezzabile nel mondo politico italiano e, per lo più, anche nel campo dell’informazione. Si è determinato, anzi, un molto inconsueto divario tra il credito, il prestigio e un filo di vero e proprio elemento carismatico che nell’opinione pubblica circondano largamente la figura di Renzi e gli opposti giudizi che su di lui tendono a prevalere in politica e nell’informazione. E, come sempre in simili casi, non è che questo divario resti senza conseguenze, che potrebbero diventare eventualmente anche gravi, sull’azione e sulla vita del governo e, quindi, anche sulle personali fortune politiche dei Renzi. Conseguenze che in qualche modo si sono, anzi, già manifestate.
Il governo doveva essere per Renzi di dodici ministri; ne ha dovuti fare sedici. I viceministri sembrava non dovessero più essere (e sarebbe stato meglio, considerata l’assoluta vaghezza di questa figura tra il sottosegretario e il ministro); e vi sono stati. I sottosegretari sembravano dover essere, a loro volta, di meno e anch’essi sono stati in numero senz’altro maggiore rispetto all’attesa. Proprio i sottosegretari hanno dato, inoltre, a Renzi le prime e, probabilmente evitabili, preoccupazioni sul terreno che è sempre il meno gradevole di tutti gli altri, ossia quello delle complicazioni giudiziarie personali, che hanno, però, riguardato anche qualche ministro.
La stessa fiducia che il Parlamento ha dato a Renzi odora davvero di vento e tempesta. Ad alta voce varii esponenti del suo partito dicono di averla data molto di più per disciplina di partito che per convinzione e partecipazione riguardo a ciò che Renzi ha fatto e detto.
Sono in molti, perciò, a vedere nel linguaggio dei compagni di partito di Renzi, qualcuno dei quali anche autorevole, l’annuncio di future (e forse neppure lontane) rese dei conti interne, non chiusi dall’affermazione di Renzi nelle primarie e nel congresso, e anzi acuiti dal suo piglio nella gestione del partito, e questa prospettiva è tanto evidente da far pensare che vi siano molte buone ragioni per ritenere che sia oggi proprio questo partito l’epicentro dei fattori di crisi della nostra vita politica.
Alle molte precedenti il discorso programmatico in Parlamento ha poi aggiunto, comunque, nuove e più aspre critiche a Renzi per quella che appare la sua vaghezza soprattutto nell’indicare i mezzi per realizzare i suoi non modesti obiettivi. Anche qualche giornale straniero ha definito perciò “fiacco” il suo discorso. E, invero, questo settore dell’economia e della finanza è effettivamente emerso come il punto più dubbio e più problematico nella prospettiva dell’azione di governo disegnata da Renzi nel discorso sul programma. Per giunta, i primi provvedimenti fiscali del nuovo governo sono sembrati anch’essi contrari alle aspettative.
Nessuno, peraltro, si è chiesto se per caso la lamentata vaghezza non sia un modo accorto di lasciarsi le mani libere sulle vie da percorrere, e su una definizione progressiva e realistica dei suoi obiettivi. Furbizia politica? L’astuzia non è mai stata estranea alla politica. Piuttosto, impone un costo a chi la pratica, e si tratta poi di vedere se valeva la pena di pagarlo.
Un rilievo particolare ha spiegabilmente ha avuto pure la carenza, nel discorso programmatico di Renzi, di ogni accenno al Sud. Egli ha poi recuperato affermando che “la nazione è una”, ma il rappezzo è quasi peggio dello strappo da ricucire. Se fosse stato davvero chiaro il senso operativo, non retorico, di tale affermazione nell’azione del governo, saremmo, comunque, ancora dinanzi a qualcosa di positivo, ma bisogna, appunto, dimostrarlo coi fatti. Oggi tutti parlano contro la Coesione e tutti chiedono politiche specifiche, cabine di regia, nuove agenzie, particolari agevolazioni e incentivi per il Sud. Eppure, l’esperienza mostra che quel termine (Coesione), come non furono in molti a rilevare, non era nato per caso e aveva un suo senso, anche se ne è stata molto insoddisfacente la traduzione nei fatti. Né c’è nessuno a ricordare che era accaduto lo stesso e anche peggio con le misure adottate ed esaltate negli anni precedenti.
Aspettiamo, dunque, il governo, anche per il Sud, alla prova dei fatti. Non si tratta di essere indulgenti con Renzi o di credere ai miracoli e ai taumaturghi o di prendere fischi (le parole) per fiaschi (le cose). Il suo tentativo, se abbiamo ben capito, tende a ridare fiducia alla politica; a stabilire un normale regime di fisiologica alternanza delle forze in lotta per il governo del paese; a uscire da formule di schieramento e da contrapposizioni ormai politicamente paralizzanti; a un funzionale riordinamento dello Stato. Ove riuscisse, anche solo in parte, sarebbe un risultato straordinario (e il Sud, oggi in gran fermento di discussioni, per lo più non felici né concludenti, sul brillante avvenire che da 150 anni starebbe alle sue spalle per colpa dei “piemontesi” e sulle sue prospettive, potrebbe meglio calibrare, in un quadro di normalità e stabilità nazionale, i discorsi che lo riguardano).
Beninteso, questi sono solo alcuni dei temi posti dall’avvento di Renzi tra i protagonisti del dibattito e della lotta politica in Italia e, ancor più, al governo. Il caso ucraino ne ha subito ampliato l’elenco, ponendo questioni di una complessità e difficoltà di straordinario rilievo. È ormai di pubblico dominio l’impressione che ci sia una forte sezione dell’opinione pubblica che punta spregiudicatamente su un fallimento di Renzi, e anche a breve termine. È pure subito cominciato contro di lui il gioco in parte derisorio che in mano a giornalisti e commentatori di idee, costumi e fatti è parte del loro mestiere e ufficio, anche se troppo spesso resta lontano dalla misura e dall’opportunità desiderabili, e in altre mani, invece, è anche calunnioso (calomniez, calomniez, quelque chose restera). Un gioco che certamente non giova a Renzi, ma non giova neppure a una migliore comprensione di ciò che egli dice, fa o si propone, e segna, comunque, un deterioramento della qualità e della potenziale fecondità del dibattito e del commento politico, con conseguente disinformazione e sviamento dell’opinione pubblica.
È tutto ancora da vedere, perciò, se sia cominciata davvero una “era Renzi”. Dovrebbe essere, però, già chiaro che si può essere avversari o nemici di Renzi e desiderarne, per buone o per cattive ragioni, un clamoroso e rapido insuccesso, ma desiderare e fare in modo che si abbia un suo fallimento politico in tempi brevi, in modi disdicevoli per lui e rovinoso per ciò che egli cerca di fare e per i suoi sostenitori, è un’altra cosa, che non dovrebbe trovare solidarietà presso coloro che hanno della politica in regime liberaldemocratico tutta un’altra idea. Il che vale non solo per quelle parti dello schieramento politico nazionale che, con Grillo, danno sempre più l’impressione di puntare allo sfascio per lo sfascio (ché, tanto, poi vanno loro al governo e mettono tutto a posto), ma anche per coloro che a Renzi dovrebbero essere vicini almeno nei limiti segnati dalle inderogabili esigenze prescritte dall’interesse di partito (molti pensano che un fallimento clamoroso di Renzi segnerebbe una crisi gravissima e irreversibile innanzitutto per il suo partito).
La lotta può, e molte volte deve, essere dura e può contemplare di procedere senza esclusione di colpi, ma solo se si tratta di una lotta che abbia fini costruttivi e che sia di partito e non di fazione o di setta. La positività dei fini dovrebbe davvero essere, infatti, l’articolo primo di ogni buon codice politico in un regime di libertà.
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