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Teoria e critica della democrazia tra Otto e Novecento
di Giovanni Carosotti
Alberto Burgio, autore negli anni di diversi interventi dedicati al filosofo ginevrino, li raccoglie e, in parte, modifica e amplia nel volume Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Otto e Novecento (Derive e Approdi, Roma, 2012). L’occasione, nel 2012, era data dal trecentesimo anniversario della nascita e dal 250° dalla pubblicazione di alcune opere tra le più importanti del filosofo ginevrino. In verità, l’anniversario puramente anagrafico non giustificherebbe, agli occhi di Burgio, la necessità di tornare a riflettere su Rousseau e, in particolare, sul suo pensiero politico e sul ruolo da questo giocato nel dispiegarsi della modernità. Per comprendere l’esigenza di Burgio di confrontarsi nuovamente con questo autore, bisogna fare riferimento al modo in cui lo studioso concepisce il ruolo dell’intellettuale, vicino – seppure praticato in maniera tutt’altro che dogmatica – all’idea di “intellettuale organico” teorizzata da Antonio Gramsci. Da questo punto di vista, tornare a riflettere su Rousseau è importante in quanto consente di focalizzare un nodo teorico alla base della crisi di una tradizione di pensiero significativa della sinistra politica, che risulta però altrettanto decisivo per chiunque voglia – senza pregiudizi ideologici – confrontarsi sul tema della democrazia e sulla evidente sottrazione di spazi democratici nella comunicazione, nella rappresentanza, nel confronto culturale che, a parere dell’Autore, si è verificata nelle società occidentali subito dopo la fine della guerra fredda.
Il pensiero politico di Rousseau prende di petto la questione che più divide i diversi approcci sistemici nella teoria politica, e risulta inattuale rispetto all’idea – oggi dominante – che non vi siano alternative a una democrazia formale che si riconosce in procedure sempre più orientate a decidere della rappresentanza attraverso sistemi elettorali di carattere uninominale, e che quindi sembra avere definitivamente rinunciato all’idea (utopica forse) di far coincidere l’azione del vertice politico dello Stato con l’espressione più autentica della volontà dell’insieme dei rappresentati.
Lo sguardo di Burgio, pur orientato da una precisa prospettiva politico-culturale, si dispiega, come consuetudine in questo studioso, con rigore filologico, attraverso un’analisi puntuale ed esaustiva dei testi e, nel contempo, con rispetto per le diverse opzioni storiografiche – anche quelle più distanti dalle proprie – sempre giustificate in quanto comprese come determinazioni significative di una particolare epoca storica.
Burgio non condivide quell’approccio storiografico fondato sulla demonizzazione di Rousseau o sulla sua acritica esaltazione; non lo ritiene però ingiustificato, in quanto tali opposte posizioni si ripresentano, periodicamente, dal XVIII secolo a
oggi. Diventano dunque non tanto e non solo impostazioni critiche di carattere parziale, quanto rivelative del carattere problematico della questione che Rousseau va a sollevare, e che lo stesso Rousseau – per la medesima ragione – affronta in modo incerto, a volte contraddittorio, pienamente consapevole delle aporie che spesso la sua riflessione esprime e del pericolo che le soluzioni prospettate possano risultare in contrasto con il principio morale che intende sostenere, ossia la perfetta realizzazione della libertà, contemporaneamente collettiva e individuale.
Il volume di Burgio si divide, di conseguenza, in due parti: nella prima lo studioso si concentra sul Contratto sociale, e svolge in modo puntuale l’analisi su come Rousseau intenda il principio della “sovranità popolare”, valutando le notevoli difficoltà da lui incontrate. Nella seconda parte, invece, ripercorre la storiografia su Rousseau, dagli anni della Rivoluzione francese a oggi, con l’intento sia di isolare i momenti “forti” di questa vicenda storiografica, cioè quelli che costituiscono ancora oggi un imprescindibile punto di riferimento critico (a cominciare dalle pagine di Kant); sia di individuare in questa lunga storia una costante, dalla quale si possono ricavare importanti informazioni sui periodi storici in cui esse sono state formulate e sull’evolversi della discussione sulla democrazia nella cultura occidentale. Operazione tanto più interessante se riferita al presente, giacché l’analisi di Burgio, come abbiamo ricordato, intende offrire un contributo al dibattito politico dei nostri tempi, e presentare una spiegazione in merito alla crisi del pensiero critico.
Non è possibile, secondo Burgio, evitare il confronto con il pensiero politico di Rousseau: egli, infatti, coglie con lucidità i limiti della concezione liberale (capace di rappresentare gli interessi solo di una parte della comunità civile) ma, nello stesso tempo, non si nasconde le aporie e le difficoltà di una democrazia concepita in modo «totale», identificata nel concetto di “volontà generale”.
La teoria politica del Contrat suscitò dibattiti e sollevò diffidenze già ai suoi tempi, in quanto non si limitava a contrastare il particolarismo dell’Ancien Regime –un obiettivo polemico che fa del saggio di Rousseau un lavoro tra i più significativi della modernità –, già combattuto e sconfitto dalle rivoluzioni borghesi. Rousseau invece va a sollecitare due nervi scoperti sui quali la dottrina liberale tende a sorvolare: le questioni cruciali dell’«accumulazione originaria» e della «proprietà privata», processi storico-economici che hanno compromesso la realizzazione autentica dei principi di eguaglianza pure esaltati dalle rivoluzioni borghesi. Burgio non si nasconde tutte le difficoltà insite nell’idea di volontà generale che, nel progetto di società elaborato da Rousseau, gode di un’assoluta superiorità verso i poteri legislativo ed esecutivo. Com’è noto, la “volontà generale” non può identificarsi con la volontà della maggioranza e nemmeno con la «volonté des tous», qualora questa risultasse in contraddizione con i principi più evidenti che tutelano gli interessi generali. La possibilità che si verifichi tale contrasto dipende dal fatto che non sempre gli individui sono consapevoli di ciò che è bene per loro e, di conseguenza, potrebbero impedire alla “volontà generale”, che pure rappresenta i loro interessi più autentici, di affermare i suoi valori.
Il Contrat escogita tutta una serie di soluzioni per superare questa immane difficoltà, nel tentativo di creare un modello sociale caratterizzato dalla piena consapevolezza dei singoli sul fatto che il loro interesse coincide con quello comunitario, e che gli eventuali interventi limitativi o sanzionatori del potere in realtà rispecchiano il proprio volere, anche quando esplicitamente avversati.
Di un fatto Burgio è assolutamente convinto, confortato da passi significativi del testo: Rousseau è, di fronte a tali difficoltà, assolutamente ostile a scorciatoie autocratiche, nonostante quanto sostenuto negli anni da una parte della letteratura critica. Mai in lui prevale l’idea che, di fronte all’evidenza razionale delle proprie soluzioni di giustizia, la volontà generale le possa far valere senza tenere conto dell’approvazione da parte dell’assemblea popolare; soluzione che invece sembrerà legittima ai giacobini, e che segna una distanza rilevante tra loro e la visione politica del Contrat, che pure indubbiamente li attrasse.
Rousseau semmai auspica, da parte del potere pubblico, il massimo sforzo per creare idonee condizioni di tipo pedagogico, laddove lo Stato ha la responsabilità di promuovere l’acculturazione della cittadinanza, in modo che diventi consapevole del carattere giusto dei principi della volontà generale e li faccia coincidere con i propri interessi individuali.
Rousseau, con questa proposta, auspica – e nel contempo si ripromette di realizzare – un’autentica svolta antropologica; è necessario cambiare la natura umana per estirpare da essa ogni tendenza al particolarismo. Tale mutamento però – e il testo di Rousseau in questo senso è chiarissimo – deve verificarsi non attraverso la facile soluzione repressiva, ma cercando di comprendere le ragioni profonde dell’egoismo irrazionale. La trasformazione antropologica è quindi frutto
di un atto di conoscenza e di consapevolezza, che si traduce immediatamente in comportamenti conformi ai più alti principi morali.
Sulla base di queste considerazioni, Burgio interpreta anche l’equivoca figura del «legislatore». L’Autore ammette l’ambiguità di tale figura istituzionale, nel momento in cui «il legislatore si direbbe incarnare l’impossibilità stessa del contratto quale momento di auto costituzione del “corpo politico”» (pag. 35). Questa impossibilità deriva dal fatto che il legislatore «costituisce il “corpo politico” che, lungi dall’essere il risultato di una libera convenzione fra i loro membri, si rivela frutto dell’opera demiurgica di un soggetto esterno. […] L’autonomia del “corpo politico” appare qui negata sin nel suo incipit» (pag. 37).
Burgio fa notare come Rousseau, consapevole dei rischi autocratici, riduca il più possibile le competenze del legislatore una «figura platonica», «antitesi vivente della partecipazione democratica» (pag. 58), vincolandolo al principio di maggioranza espresso dall’Assemblea generale. Queste precisazioni, però, più che rassicurare, fanno comprendere come il problema di coniugare la libertà individuale nella partecipazione alla vita politica con la realizzazione perfetta dei principi della volontà generale il filosofo ginevrino non sia riuscito a risolverlo.
Ciò non diminuisce l’importanza dell’opera di Rousseau, per il fatto stesso che tale problema si mantiene decisivo nella storia politica dell’Occidente: «Rousseau vede (precocemente) il dilemma-base (storicamente determinato) della democrazia moderna (borghese); intuisce (sta qui […] il nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione storica degli interessi particolari) sarà possibile produrre una forma politica effettivamente (non solo formalisticamente) democratica (cioè con una partecipazione effettiva e non solo apparente)» (pag.59).
In realtà, ritiene Burgio, la posizione di Rousseau è una posizione di tipo “costituzionalista”, dove si teorizza una cornice di diritto generale entro cui giustificare l’azione autonoma del potere legislativo, le cui decisioni – inevitabilmente condizionate dal principio di maggioranza, per forza di cose elitario – non possono derogare da una serie di valori fondamentali miranti a garantire la priorità dell’interesse comune. L’Autore è consapevole del fatto che la sua lettura, se si rimanesse all’ambito circoscritto del Contrat, potrebbe apparire azzardata da un punto di vista propriamente filologico. Se però le pagine del Contrat vengono poste a confronto con altri due scritti (Progetto di Costituzione per la Corsica – 1768 – e Considerazioni sul governo di Polonia – 1782), la lettura costituzionalistica non appare affatto azzardata. In queste due opere Rousseau si mostra perfettamente consapevole dell’impraticabilità di una democrazia diretta al di fuori dei nuclei urbani; ed altrettanto chiaramente il filosofo ginevrino esalta le istituzioni rappresentative, non limitandone in nulla i poteri di intervento nella decisione politica. Non solo, ma Rousseau in quelle pagine prende chiaramente le distanze da una legislazione in “astratto”, che prescinda cioè dalla conoscenza delle caratteristiche storiche specifiche della nazione. Diventa allora molto più plausibile vedere nella “volontà generale” un riferimento a quei principi razionali fondamento di ogni comunità civile che voglia stabilire tra i suoi membri rapporti fondati sull’eguaglianza dei diritti, al di là del fatto che tali principi vadano poi coniugati con le particolari condizioni storico-ambientali; sono questi, in effetti le «idee direttrici» proprie di qualsivoglia «prospettiva costituzionalistica» e che si ritrovano anche al centro del Contrat.
Rimane il fatto che tale soluzione interpretativa non riuscì a far superare a Rousseau un atteggiamento di sostanziale pessimismo e di amarezza, nella consapevolezza che gli ostacoli a tale processo di maturazione dell’umanità si presentassero insuperabili e che fosse sempre presente il rischio di una degenerazione autoritaria. Tanto da considerare il Contrat «un livre à refaire» (pag. 59). Il risultato sembra una resa incondizionata. E infatti Rousseau si domanda come «una moltitudine cieca, che spesso ignora ciò che vuole poiché raramente sa che cosa è per lei bene» possa «compiere da sé un’impresa tanto grande e difficile come un sistema di legislazione» (pag. 67).
Anche in questo cedimento umano Burgio coglie l’emergere di uno dei tratti essenziali della modernità, ovvero il fenomeno della «coscienza infelice». Un’apparente sconfitta, che però ha fatto sì che la preziosa opera di Rousseau fosse continuamente oggetto d’analisi nei secoli successivi e costituisse uno stimolo imprescindibile per l’evoluzione della filosofia politica.
È questo il motivo per cui l’Autore dedica la seconda parte del volume a una minuziosa ricostruzione della storiografia roussouiana. Nell’impossibilità di renderne conto per intero, segnaliamo i momenti che ci sembrano più significativi, quelli che più intendono confortare la lettura “costituzionalista”. Alcune delle pagine esaminate non sono, per Burgio, semplici interpretazioni dei testi di Rousseau, ma contributi che riescono a chiarire la sua opera meglio degli scritti originali, e che dunque devono essere intesi come una naturale prosecuzione delle riflessioni del filosofo ginevrino. Esempio eclatante a questo proposito sono le pagine dedicate a Rousseau da Kant. Burgio valorizza soprattutto la lettura di Erich Weil, in contrapposizione a quella di Norberto Bobbio il quale, nel tentativo di inserire la concezione politica kantiana in un orizzonte moderato e liberale, riteneva solo apparenti le convergenze con Rousseau, rispetto a quelle, più solide, con Hobbes e Locke. Non c’è dubbio – e Burgio lo riconosce – che in Kant vi sia una visione più complessa dei rapporti umani, in quanto a suo parere l’uomo ha sì «una propensione ad associarsi», ma «anche una forte tendenza a isolarsi, poiché ha in sé altresì la qualità insocievole di voler tutto piegare esclusivamente al proprio volere» (pag. 103).
Kant, inoltre, mostra maggiore propensione per la dimensione individuale della libertà, ma anch’egli, nella Antropologia pragmatica «critica severamente il secolo per la smodata propensione al lusso e per l’incivilimento esteriore delle arti e delle scienze» (pag. 109). Quest’ultima presa di posizione è particolarmente interessante; da qui si può partire per affermare, con Weil: «ai suoi occhi, Kant concepisce la ragione in modo molto simile – se non identico – a Rousseau. Non solo. La sua idea di ragione è tratta da Rousseau, al punto che si può sostenere che la ragione di Kant è stata scoperta da Rousseau – salvo aggiungere subito che, qualora non fosse sopravvenuto Kant, con la sua lucidità e potenza sistematica, questa scoperta sarebbe rimasta (in Rousseau) allo stato di pura potenzialità» (pag. 101). Kant, in altre parole, avrebbe compreso meglio di Rousseau stesso il valore della “volontà generale”, individuando in essa una nuova idea di “ragione”: non la ragione formale dei giuristi, non la ragione cartesiana, una ragione cioè «che cerca solo la coerenza del ragionamento, l’avanzamento della conoscenza scientifica e l’efficacia della tecnica, ma anche il valore morale delle intenzioni e delle azioni, e quindi riposa sulla purezza del cuore». L’abbandono della pura dimensione utilitaristica fa comprendere, secondo Burgio, come Rousseau – ed evidentemente Kant con lui – sia al di fuori del modello contrattualistico, e abbia inaugurato quel «circolo virtuoso di ragione e coscienza», l’unità di ragione e morale che introduce pienamente alla modernità. Burgio si sofferma su alcune pagine di Kant in cui è evidente il valore attribuito al conflitto, ed emerge la consapevolezza del contrasto tra la pura norma e le condizioni concrete di esistenza; e nonostante Kant si opponga al diritto di resistenza o, forse, proprio per questo, ribadisce sempre il valore universale della “ragionevolontà generale”, superiore a quello di qualsiasi altro potere costituito, secondo il modello “regolativo” o costituzionalista” cui abbiamo fatto cenno.
L’analisi appena richiamata consente un’ulteriore e preziosa acquisizione storiografica; nell’orizzonte “costituzionalista” della volontà generale, Burgio inserisce anche Hegel. Qui la difficoltà sembra enorme, perché, pur riconoscendo alcuni significativi meriti a Rousseau, il filosofo idealista critica severamente il pensiero del ginevrino. Secondo Burgio, però, trattasi di un colossale fraintendimento, laddove le posizioni dei due autori gli sembrano quasi coincidenti. Hegel, infatti, commette l’errore di considerare Rousseau alla stregua di un contrattualista, quindi espressione di una concezione atomistica della società, dove il fondamento del progetto politico risiede sempre nella volontà dell’individuo singolo. Tutto l’opposto di Hegel, che definisce lo Stato come «luogo di realizzazione della volontà razionale della collettività». Hegel non si accorge però che l’intento teorico del Contrat è proprio «il superamento della dimensione privatistica del contrattualismo moderno, per mezzo di una fondazione oggettiva e per ciò stesso autenticamente generale della sovranità. Cioè, in una parola: la dissoluzione dall’interno dell’ipotesi contrattualistica» (pag. 151). Si tratta dunque, come fa notare Burgio, dello stesso principio sulla base del quale Hegel definisce lo Stato [«mentre respinge l’autore del Contrat con una mano, con l’altra Hegel lo accoglie» (pag. 152)].
Ampio spazio dedica poi Burgio alle analisi di Rousseau dopo la Rivoluzione francese, che ovviamente hanno avviato quella lettura dicotomica e parziale cui abbiamo fatto cenno. Momento conclusivo di questa disamina è la riflessione sui rapporti tra Marx e Rousseau. A Burgio le prospettive dei due filosofi appaiono molto simili: «Anche per lui ‘Rousseau’ l’organizzazione esistente della produzione comporta asservimento, eteronomia, alienazione dei produttori immediati; anche a suo giudizio l’emancipazione giuridica del lavoro (che distingue la formazione sociale capitalista dai suoi antecedenti storici) si risolve nella sottomissione reale, giusta la sostituzione della coazione militare extraeconomica) per mezzo della non meno efficiente – e anzi più pervasiva – coazione economica; e anche ai suoi occhi, in positivo, la liberazione del lavoro (quella che Rousseau chiama “indipendenza personale”) è il tratto fondamentale di una società giusta». È inutile sottolineare quanto tali osservazioni, agli occhi di Burgio, appaiano di urgente attualità, se proiettate sulle problematiche dei nostri tempi.
Più importante, in relazione ai fini che il volume di Burgio si propone, è la disamina degli studi su Rousseau da parte degli intellettuali comunisti del secondo dopoguerra, letta da Burgio quale cartina di tornasole della crisi di una cultura politica, a partire dall’annus horribilis 1956. Burgio recupera analisi di cui ammette tutta l’inattualità; gli interessa però notare il passaggio da un uso di Rousseau quale punto di riferimento per promuovere un’attuazione sempre più in senso socialista dei principi della Costituzione, a una lettura dei suoi testi finalizzata a un maggiore disincanto. Un percorso sofferto, dove si vedono intellettuali di spessore (Galvano Della volpe, Lucio Colletti, Valentino Gerratana) cambiare radicalmente posizione interpretativa in virtù degli accadimenti storici. Non è un caso che l’ultima posizione ricordata, quella di Gerratana a metà degli anni Settanta, si riferisca a Rousseau per esprimere un marcato scetticismo riguardo le prospettive del movimento rivoluzionario, con un tono disilluso che penso non sia arbitrario affermare l’Autore riferisca anche ai tempi presenti.
Anzi, a confermare questa lettura sono le ultime pagine del libro, dedicate agli studi su Rousseau di Eugenio Garin; di Garin il testo ricostruisce, seppure in breve, la storia intellettuale, collocando all’interno di questa l’importanza degli interventi su Rousseau. Ci limitiamo a ricordare le osservazioni conclusive; anche per Garin, le ultime riflessioni sul filosofo di Ginevra lasciano trasparire un sentimento pessimistico, improntato al disincanto e al nichilismo: «Di Rousseau – in un’ultima intervista degli anni Novanta – parrà allora decisiva “la scarsa fiducia nell’interpretazione progressiva della storia”, alla quale l’autore dei Discorsi approda sullo sfondo della “distruzione del mito del Rinascimento” e della consapevolezza che “la rinascita delle lettere e delle arti è stata un’apparenza”» (pag. 217).
Una valutazione che riconduce tutto il contenuto del volume alla contemporaneità; non pensiamo di forzare il pensiero dell’Autore quando accostiamo queste amare riflessioni conclusive a quanto egli stesso scrive nell’introduzione al volume, subito dopo avere richiamato il drammatico contesto storico attuale: «Ciò nonostante – o piuttosto proprio per questo, posto che il pensiero trae alimento dallo “spirito del tempo” – oggi la critica è alla macchia, sopravvive in forma di eresia. È di rado un’arma di resistenza, somigliando più spesso a una testimonianza. Ma non avrebbe senso, dinanzi a questo scenario, commiserarsi. Si tratta di pure e semplici constatazioni. A ciascuno è dato di vivere il proprio tempo (del quale è anche, in parte, responsabile): di proporsi – per dirla con i nostri maestri – di “restituirlo in forma di pensiero” per contribuire a “trasformare il mondo”. In questo quadro Rousseau offre, al pari di ogni grande classico, lenti preziose» (pag. 8).
Un tono amaro, che non intende però rinunciare alla speranza che, quanto di emancipativo si nasconde nella lezione dei maestri possa essere, secondo un’idea già di Ernst Bloch, ereditato e fatto nuovamente rivivere. Rimane un contributo prezioso capace di segnalare, a chi è interessato di studiare con senso critico il mondo, quali sono i nodi problematici che l’umanità si trova ad affrontare e dove può meglio trovare i contributi più preziosi per risolverli.
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