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Novità per mafia
di Alberto Varvaro
Le parole italiane che negli ultimi cento anni si sono diffuse in tutto il mondo sono solo due: mafia e pizza. Se la storia timologica di pizza può lasciare qualche margine di dubbio, quella di mafia, ancora più fitta di interventi, è assai istruttiva per la metodologia della scienza etimologica. Comincio con il ricordare che mafia appare nei vocabolari dialettali siciliani solo nel 1868 con la definizione: «neologismo per indicare azione, parole o altro di chi vuol fare il bravo, sbraceria o braveria; sicurtà d’animo, baldanza; atto o detto di persona che vuol mostrare più di ciò che è, pottata; insolenza, arroganza».
La definizione rimane così insoddisfacente che nel 1902 il filologo romanzo Francesco D’Ovidio, allievo di Ascoli, chiede chiarimenti a chi allora appariva come il miglior conoscitore del siciliano, il notigiano Corrado Avolio, che gli risponde: «È un vocabolo senza storia1». La definizione che l’Avolio estrae dal suo incompleto ed inedito (e mai pubblicato più tardi) vocabolario siciliano è: «Il farsi ragione con la forza, l’essere prepotente, soverchiatore: Prepotenza».
Giova notare che queste definizioni non includono il significato di “associazione criminale”, che nei lessici non è registrato se non in anni recenti. Anche per l’aggettivo e sostantivo mafiusu la definizione di Avolio, come degli altri, rimane sul piano degli atteggiamenti:
«Chi pretende di soverchiare e provoca e minaccia questo e quello, a ostentazione di forza: Bravaccio, Bravaccione, Bravazzone». C’è poi, riferito secondo Avolio solo a cosa (lavoro, cappello, vestito), un senso positivo: «Buona, Benfatta, Come va, Come si deve».

Quanto alla storia, Avolio pensava che la voce fosse forse da collegare ad un cognome notigiano De Maffia del sec. XVI (che peraltro non trovo nel repertorio di Caracausi e di cui resta indecidibile l’accento)2; mafia sarebbe risalita, come Avolio aveva scritto vent’anni prima3, all’ar. mahias ‘spacconeria’, sarebbe venuta dalla Spagna e era appartenuta al gergo delle carceri siciliane.
Questa etimologia è rimasta canonica fino ad oggi, anche se sempre accompagnata da dubbi. Si dava anche il caso che l’aggettivo mafiusu fosse apparso qualche anno prima, nel 1863, quando due scrittorucoli palermitani, Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, avevano messo in scena a Palermo, con grande successo, un dramma dialettale intitolato I mafiusi di la Vicaria, che rappresentava i comportamenti ed i valori di un gruppo, appunto, di mafiosi rinchiusi nel carcere di Palermo, sotto il dominio di tale Gioacchino Funciazza, personaggio ricalcato su Gioacchino D’Angelo, informatore di Rizzotto in quanto egli stesso autorevole mafioso. L’impressione fu che gli autori giustificassero e celebrassero i mafiosi, idealizzandoli; l’opera diventò un caso letterario e morale assai più che un’informativa criminale. Il che probabilmente fu un errore. Bisogna comunque distinguere tra la storia linguistica della parola, da un lato, e quella della organizzazione che essa denomina, e in particolare dell’associazione criminale, dall’altro.
Preciso subito che il mio scopo è quello di gettare luce sulla storia linguistica, anche se penso che così si illumini meglio il lato più oscuro del problema. Ripeto che l’etimologia più comunemente diffusa è ancora oggi quella di Avolio, anche se essa ha sempre convinto poco i linguisti, per la dubbia e scarsa diffusione della base araba addotta, per qualche difficoltà formale4 e semantica. I linguisti si sono sforzati dunque di trovare altre spiegazioni, che sono risultate sempre lambiccate ed insoddisfacenti. Non parliamo dei dilettanti: non è passato molto tempo dall’uscita di un libro di Pasquale Natella, intitolato La parola mafia (Firenze, Olschki, 2002), che mette insieme tutte le parole con m ed f che egli ha reperito (di seconda mano) in un gran numero di lingue del mondo, dallo swahili a quella dell’isola di Tonga, ed alla fine non si capisce cosa voglia sostenere. Ma se qui abbiamo a che fare con un benintenzionato senza preparazione linguistica visibile, diverso è il caso del glottologo Mario Alinei, che ritiene di poter affermare con sicurezza che la parola, così come camorra e ndrangheta, risalga alla civiltà silvo-pastorale della preistoria e nel caso specifico ad una base osco-umbra da lui appositamente coniata, un po’ paradossalmente, su quella del latino AMARE5.
Sarebbe stato elementare porsi alcuni problemi. In primo luogo: quale è il significato originale della parola? o, più prudentemente, sono attestati altri significati di mafia? Una risposta l’aveva data il grande folclorista palermitano Giuseppe Pitrè, ma il suo fu giudicato un ingenuo tentativo di minimizzare, come ci si poteva attendere da un convinto sicilianista quale egli era. Nel 1889 Pitrè6 affermò esplicitamente «la esistenza della nostra voce nel primo sessantennio di questo secolo in un rione di Palermo, il Borgo», che era poi dove lui stesso abitava; ma
al Borgo la voce … valse e vale sempre bellezza, graziosità, perfezione, eccellenza nel suo genere. Una ragazza bellina, che apparisca a noi cosciente di esser tale, che sia ben assettata (zizza), e nell’insieme abbia un non so che di superiore e di elevato, ha della mafia, ed è mafiusa, mafiusedda. Una casetta di popolani ben messa, pulita, ordinata, e che piaccia, è una casa mafiusedda, ammafiata, come è anche ‘nticchiata. Un oggetto di uso domestico, di qualità così buona che s’imponga alla vista, è mafiusu: e quante volte non abbiam tutti sentito gridare per le vie frutta, stoviglie mafiusi, e perfino le scope: Haju scupi d’‘a mafia! Haju chiddi mafiusi veru! All’idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior significato della parola.

Per lo studioso l’omissione dai lessici dialettali è dovuta solo alla loro disattenzione (a dire il vero indiscutibile) per la lingua popolare. Ricordo che la lessicografia siciliana ha una ricca tradizione, che risale al 1348, ma quasi sempre essa si è interessata al siciliano comune e letterario (a volte alla pretesa ‘lingua’ siciliana), senza attenzione, fino a poco tempo fa, per gli usi popolari, per la cultura materiale e per la localizzazione delle parole.
Se è ammissibile che Pitrè intendesse difendere la reputazione della sua isola, non è pensabile che scrivesse falsità. Che egli dunque negasse, o meglio attenuasse, il senso criminale del termine non toglie peso alla sua affermazione che mafia avesse anche un altro significato, per quanto esso sia documentato solo sporadicamente nell’isola. In effetti la definizione che Avolio dà dell’aggettivo (cosa «Buona, Benfatta, Come va, Come si deve») conferma l’esistenza di un valore positivo ed i recenti vocabolari di Pantelleria e di Vittoria (Ragusa)7 nonché le informazioni di mia suocera, nata e cresciuta a S. Stefano di Camastra (Messina), permettono di stabilire che in punti marginali ed estremi della Sicilia la parola ha ancora il senso di cui parlava Pitrè. Il recente grande Vocabolario siciliano di G. Piccitto permette di aggiungere Capizzi e Villadoro (non lontano da S. Stefano di Camastra) e Scicli (non lontano da Vittoria)8.
Ciò non solo assicura che la sua informazione è corretta ma che la diffusione di questo significato coinvolge (o almeno coinvolgeva) tutta l’isola. Il quadro che risulta dalla cartina seguente permette di affermare che l’informazione di Pitrè è corretta e investe non solo il Borgo di Palermo ma tutta l’isola.



Secondo punto: non dovrebbe chi fa etimologia chiedersi sempre quale sia (e sia stata) l’area di diffusione della parola? Si è dato troppo per scontato che mafia fosse parola intrinsecamente siciliana, diffusa solo dalla terribile fama del crimine organizzato. Il primo a guardare fuori della Sicilia fu, un sessantennio fa, Angelico Prati, scovando nei vocabolari un improbabile settecentesco fiorentino “maffia miseria” (ma senza controllarne la vitalità), e il secondo, pochi anni fa, proprio Mario Alinei, per mettere una pezza a sostegno dell’origine osco-umbra della parola, ma fermandosi inspiegabilmente a sud della linea La Spezia-Rimini. A cercare bene, invece, la documentazione è amplissima (e certamente incrementabile)9: i dialetti di una sessantina di località hanno il sostantivo e/o l’aggettivo con significati diversi da quello criminale, che naturalmente qua e là è registrato, certo per influsso relativamente recente dell’italiano10. Una cartina che dà una chiara idea della situazione.
Da Trecchina (Potenza) fino alla Valle Antrona, alla Val Leventina e alla Valtellina si delinea nei vocabolari dialettali una vastissima area di maf(f)ia e cui definizioni vanno da “eleganza compiaciuta e ostentata” a “boria, superbia” a “prepotenza, sbruffoneria”111. La Valtellina, che con la Sicilia ha poco in




comune, è assai ben rappresentata: i vocabolari di Grosio, di Villa di Chiavenna, di Livigno definiscono mafia come “superbia, spocchia, vanto, ostentazione; ingiustizia, prepotenza; teppa, combriccola di giovinastri, cattiva compagnia”. Inutile dire che per mafioso c’è un’area analoga e analoghi significati, con le stesse sfumature dal positivo al moderatamente negativo. Peraltro era già noto12 che la locuzione fare (la) maffia nel senso di “esibire eleganza” si era diffusa nel gergo militare durante la prima guerra mondiale ed è stata usata in riferimento all’ambiente militare da alcuni scrittori come Jahier e Gadda; ma nessuno aveva dato peso alla notizia: credo si fosse pensato che l’uso dovesse risalire ai soldati siciliani, ma la diffusione larghissima nei dialetti della penisola rende non necessaria questa spiegazione.
Dalla risposta alla nostra seconda domanda discende qualche conclusione. 1° Una simile area di diffusione permette di escludere con sicurezza l’ipotesi di una origine araba della parola: nessuno dei moltissimi arabismi delle nostre parlate ha questa area, a meno che non sia stato mediato dall’italiano, che invece non conosce mafia in senso positivo. 2° Non può esserci dubbio che il significato originale della parola fosse quello più diffuso, e quindi non quello criminale; del resto il passaggio dal significato più positivo a quello più negativo, attraverso sfumature intermedie, si spiega assai bene, mentre il percorso inverso sarebbe inspiegabile. 3° L’affermazione del significato propriamente criminale sembra essere avvenuta proprio in Sicilia, con buona pace di Pitrè (e di parecchi altri).
Del tutto improbabile è che, come scrive Traina, negli anni 1860 mafia fosse in Sicilia un neologismo nel senso di “prepotenza” o “comportamento da malvivente”, in quanto questi significati affiorano anche nella penisola (e non direi che siano condizionati dalla diffusione moderna del significato criminale). Qui Pitrè aveva certamente ragione. La novità, semmai, poteva essere il significato “associazione criminale”, che però linguisti e intellettuali siciliani pudicamente non menzionano mai.
Si può provare però che l’associazione criminale esisteva già almeno dagli anni 1860 (e molto probabilmente da prima) e che Gioacchino D’Angelo aveva raccontato a Rizzotto e a Mosca solo una parte della verità. Le autorità avevano del resto le idee ben chiare. La parola mafia, che non pare ci fosse nel testo del dramma del 1863, ci risulta per la prima volta nell’aprile 1865 quando il prefetto di Palermo Filippo Gualterio (orvietano, senatore e poco dopo egli stesso ministro degli Interni) scrive al ministro degli Interni (il futuro presidente del Consiglio G. Lanza):
«Altra cosa certa è che non solo il malandrinaggio esiste ma è organizzato. La mafia esiste. Il nome solo dice associazione. Questa associazione di malfattori è numerosa, è piaga vecchia e quando si rivela è segno che alcuno la commuove»13.

Del resto il quadro non è diverso da quello, relativo al 1838, del procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa14. Tralascio altre citazioni significative. Nel 1876 Sonnino scriveva della Conca d’Oro palermitana: «è questo il regno della mafia» e considerava ciò «condizioni speciali»15.
Resta così dimostrato che, pochi anni dopo l’opera teatrale di Rizzotto, mafia aveva ambedue i sensi negativi, che non erano considerati affatto nuovi. Il primo, “atteggiamento e comportamento da prepotente”, era certamente uno sviluppo, diciamo un decadimento, di quello “ostentazione di eleganza” e poi “boria” ed era probabilmente già abbastanza negativo da avere fatto sì che grandi lessicografi, come Michele del Bono, Michele Pasqualino e Vincenzo Mortillaro non avessero incluso la parola nei loro vocabolari siciliani.
Resta la domanda se fosse un neologismo anche l’accezione “organizzazione criminale”, che ricaviamo non dai lessici ma dalle informative dei prefetti o dalle inchieste di Franchetti e Sonnino. Premesso che nessuno dice, e probabilmente nessuno sa (come accade fino ad anni recenti) come i criminali chiamassero la loro organizzazione, a me non sembra assurdo che effettivamente in questo caso si trattasse di un neologismo. I prefetti e le persone più avvertite, rendendosi pienamente conto di non avere a che fare con quattro delinquenti isolati ed ignorando come essi denominassero la loro organizzazione, potrebbero aver usato un termine che già indicava un comportamento poco ortodosso.
Resta, e non si risolve, il problema etimologico. Da quanto abbiamo detto è accertato che l’area di diffusione della voce vada dalle Alpi al Canale di Sicilia e che il significato originale sia “ostentazione di eleganza”, con una deriva peggiorativa facilmente spiegabile. Ma ciò non ci dice quale sia l’origine della parola (ed è perfino dubbio se nasca prima mafia o mafioso). Esclusa la base araba, esclusa quella osco-umbra (altrettanto fantastica), senza peso quella onomatopeica (di che?) avanzata da Ottavio Lurati, credo che sia più onesto dire: «origine ignota». La conformazione dell’area di diffusione potrebbe suggerire un’origine longobarda (è significativa l’assenza in Calabria), ma non c’è nulla che lo confermi.
Rimane un’ultima, ma non trascurabile, considerazione: che forma aveva questa base sconosciuta? Il nesso interno –FFL- dà in Sicilia -š- e nel Mezzogiorno esiti simili, come si vede in SUFFLARE > sic. Ciusciari. Quindi va escluso. Il limite tra le forme del tipo mafia e quello maffia (e tra mafioso e maffioso), che nella mia cartina sono state colorate l’uno in rosso e l’altro in blu, corrisponde abbastanza bene alla linea La Spezia-Rimini, quella che divide le forme che conservano le consonanti doppie (a sud) da quelle che le scempiano (a nord). Aggiungiamo infatti alla cartina questa isoglossa:





C’è qualche eccezione (Ferentino, Castel Madama, Martina Franca, L’Aquila e Ancona avrebbero –f-, Villa di Chiavenna –ff-) che si può spiegare con il forte influsso che da un secolo e mezzo hanno le forme dell’italiano colto, a volte con la semplice, a volte con la doppia. Se osserviamo gli esiti di CUFIA ‘cuffia’ sulla carta relativa dell’AIS (8, 1571), essi si adeguano altrettanto bene all’isoglossa che limita la lenizione (o indebolimento) delle consonanti lunghe, vale a dire alla stessa linea che va approssimativamente da La Spezia a Rimini: il tipo scufia a nord della linea, quello scuffia a sud; così appunto mafia e maffia16. Le grammatiche storiche, quando si occupano della lenizione, fanno menzione del fatto che –F- intervocalica passa a –v- ma tacciono sulla sorte di –FF-, che è molto raro in italiano. Ma non c’è nulla di strano che, come la semplice, si lenisca anche la doppia e che ai manuali di grammatica storica vada aggiunto un altro paragrafo.
Balza allora agli occhi che per mafia e mafioso la Sicilia, che non dovrebbe lenire, ha lenito. Se a questo argomento possiamo dare peso, mafia è dunque una parola che nell’isola è giunta, come molte altre, dall’Italia settentrionale, o per le migrazioni medievali da zone liguri e piemontesi (i cosiddetti lombardismi) o per altre vie.
Sarebbe uno dei tanti paradossi della storia: la parola che si è diffusa in tutto il pianeta per designare un fenomeno criminale tipicamente siciliano, sarebbe in Sicilia una parola di origine settentrionale. Ma sarebbe assurdo che i Siciliani se ne rallegrassero: non dimentichiamo che la storia delle parole non sempre coincide con quella delle cose che esse designano17.







Bibliografia
- Alinei, Mario, 2007. «Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ’ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica», Quaderni di semantica XXVIII, pp. 247-286.
- Avolio, Corrado, 1882. Introduzione allo studio del dialetto siciliano, Noto.
- Caracausi, Girolamo, 1993. Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, CSFLS.
- Consolino, Giovanni, 1986. Vocabolario del dialetto di Vittoria, Pisa, Pacini.
- De Vecchi di Val Cismon, Cesare, 1936. Le carte di Giovanni Lanza, III, Torino, Miglietta ecc.
- Franchetti, Leopoldo - Sonnino, Sydney. 1876. Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, I, 1974 [MA 1876].
- Pitrè, Giuseppe, 1889. Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Pedone-Lauriel.
- Renzi, Lorenzo, 1966. «Parole di caserma», Lingua nostra, XXVII, pp. 87-94.
- Tessitore, Giovanni, 1996. Il nome e la cosa, Milano, Angeli.
- Tropea, Giovanni, 1988. Lessico del dialetto di Pantelleria, Palermo, CSFLS.
- Trovato, Salvatore, 1998. «Ancora su mafia», Atti del XXI congresso internazionale di Linguistica e filologia romanza, III, Tübingen, Niemeyer, pp. 918-925.









NOTE
1 Pubblicata in «Archivio storico siracusano», serie. III, 18 (2004), pp. 274-275.^
2 Mi riferisco a G. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, CSFLS, 1993.^
3 Cfr. C. Avolio, Introduzione allo studio del dialetto siciliano, Noto, 1882, p. 45.^
4 Ma Salvatore Trovato ha mostrato che h > f è possibile: cfr. S. Trovato, Ancora su mafia, in Atti del XXI congresso internazionale di Linguistica e filologia romanza, III, Tübingen, Niemeyer, 1998, pp. 918-925.^
5 Cfr. M. Alinei, Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica, in «Quaderni di semantica», 28 (2007), pp. 247-286, a 270 ss.^
6 Cfr. G. Pitrè, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Pedone-Lauriel, 1889, vol. 2, pp. 289-90.^
7 Cfr. G. Tropea, Lessico del dialetto di Pantelleria, Palermo, CSFLS, 1988, e G. CONSOLINO, Vocabolario del dialetto di Vittoria, Pisa, Pacini, 1986.^
8 Le cartine che seguono sono realizzate da Giovanni Abete e Valentina Retaro, che ringrazio.^
9 Devo una serie di integrazioni alla dottrina e all’amicizia di Tullio Telmon, dell’Università di Torino.^
10 Poiché questi vocabolari sono tutti di decenni piuttosto recenti e poiché la diffusione della denominazione criminale è stata grandissima, ho dovuto tentare di depurare i miei dati da ciò che è, evidentemente, un prestito spesso semantico, ma a volte anche formale, dall’italiano. Anche se questa operazione può essere a volte difficile, tanto più la presenza nei lessici di significati più o meno positivi è significativa.^
11 La documentazione analitica si troverà nella voce mafia del mio Vocabolario storico etimologico siciliano di prossima pubblicazione presso il Centro di studi filologici e linguistici siciliani di Palermo.^
12 Cfr. L. Renzi, Parole di caserma, in «Lingua nostra», 27(1966), pp. 87-94, a p. 93.^
13 Cfr. C. De Vecchi di Val Cismon, Le carte di Giovanni Lanza, III, Torino, Miglietta ecc., 1936, p. 203.^
14 Cit. da G. Tessitore, Il nome e la cosa, Milano, Angeli, 1996, p. 23; ma qui il fenomeno non ha un nome.^
15 Cfr. L. Franchetti, S. Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Firenze, Vallecchi, I, 1974 [ma 1876], pp. 68 e 71.^
16 Anche scufia, come mafia, giunge ad Ancona, più a sud della linea La Spezia-Rimini, che sul versante adriatico viene dunque spinta più a sud. Devo dire che in Sicilia scuffia è meno attestato di scufia, quale che ne sia la ragione. Devo il parallelo di cuffia a Francesco Bruni.^
17 Questo è il testo di una comunicazione al XXVII Congresso internazionale di linguistica e filologia romanza a Nancy nel luglio 2013 e che sarà pubblicato negli atti dello stesso.^
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