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Paesaggi della mente: l’immaginario, il bene culturale, il valore1
di Emma Giammattei
È consuetudine, nella dimensione mediatica, ad apertura dell’anno accademico con le iscrizioni, insistere sulla crisi delle facoltà di lettere e del modello conoscitivo e formativo di tipo umanistico. Giova forse ricordare la configurazione iniziale della facoltà di lettere e filosofia predisposta e teorizzata dal consigliere di stato Vincenzo Cuoco nel Rapporto a Re Murat, nel 1809, a Napoli. Il progetto, di rilevante portata pedagogica, nel senso di una tempestiva pedagogia della Nazione, metteva al centro della formazione la lingua e la letteratura italiana, e la relazione, valida per tutti i saperi, fra la retorica, non esornativa ma strumento della persuasione, e la realtà. Rispetto a quel primo brevetto di facoltà, un secolo dopo molto presente alla riflessione di Giovanni Gentile2, oggi la Facoltà di lettere si presenta certo, con sempre maggiore evidenza, come necessaria anamorfosi, che si delinea in una pluralità di approcci. Si tratta di farne, senza spirito rinunciatario e senza «piagnistei», con lucidità orgogliosa3, il luogo dell’intersezione di lingue e linguaggi, di mezzi e metodi della comunicazione: non solo di testi e immagini, ma di teorie e pratiche, di formazioni discorsive e non discorsive. Un siffatto sistema di competenze e discipline, un tempo individuato dallo schema assiologico delle humanae litterae ed oggi ampliato in modo reticolare e appunto, intersettivo, può trovare il suo compito preminente nella inventio di ciò che è bene culturale, nell’accezione più operativa e dinamica, come riconoscimento, uso, recupero, ridefinizione. Sullo sfondo l’umanesimo storico, che registrò una rivoluzione simile all’odierno universo del web, di scoperta e di ricodificazione del mondo, si manifesta come il vero carattere della cultura italiana, la sua «impresa» nel significato plenario, anche sotto il rispetto economico. Ben oltre gli stereotipi correnti, l’Umanesimo è stato il grande imprenditore di senso dell’età moderna, nel segno della capacità, ha scritto Francisco Rico, di prospettare e percorrere un’infinità di strade contemporaneamente, tra scientia e gramatica4.
Sotto questa luce favorevole ed anzi propiziatoria, si può bene intendere l’orientamento del mio discorso a proposito del più decisivo e fondativo dei beni immateriali della cultura: l’immaginario letterario, quel complesso di enunciati e di rappresentazioni che ha indotto Harald Weinrich, linguista e metaforologo eminente, ad indicare l’Europa come una riconoscibile «comunità di campi metaforici». In particolare, per ciò che concerne lo spazio italiano, non c’è neppure da rifletterci, tanto è indiscutibile il carattere assiologico e quindi il potere della letteratura, dal Trecento al Novecento, di costruire, accreditare, sostenere e ri-definire il vasto campo di quello che oggi si chiama bene culturale, paesaggio, città, monumento, opera d’arte che sia. E non ci si riferisce soltanto al dialogo e all’intreccio strutturale di linguaggi e di codici, di testi e di immagini, messo in evidenza da studiosi come Mario Praz e, di recente, in modo metodologicamente innovativo, da Lina Bolzoni. È un processo innervato in una antropologia storica dell’immaginario.
Vale la pena offrire una campionatura di casi, prelevati da un circoscritto ambito di ricerche e di esperienze critiche. Certamente la figura che in maniera affatto esemplare rappresenta la forza prestigiosa della parola letteraria nel costituire una storia e geografia della Nazione, un sistema smagliante di corrispondenze di luoghi reali e di loci, è quella del Carducci.
Si parta dall’idea di se stesso e della sua opera, che egli si era formato e proponeva al lettore nel momento in cui cominciò, nel 1889, a organizzare per Zanichelli l’edizione nazionale degli scritti. Ebbene, nel volume inaugurale, accanto a saggi costitutivi della biografia intellettuale dello scrittore come Dello svolgimento della letteratura nazionale, o L’Opera di Dante, accanto ai saggi dedicati ai testi canonici della letteratura italiana, a partire dal suo Petrarca, l’ultima parte accoglieva le Relazioni di Storia patria per le province di Romagna lette dal giovane segretario Carducci nel periodo dal 1866 al 1873. E gli argomenti riguardavano insieme gli scavi archeologici e la topografia storica, cari al presidente, il conte Gozzadini, i monumenti da restaurare, spogli di archivi, note erudite. Alla scrittura di servizio, dall’apparenza modesta, Carducci apponeva la propria cifra d’autore – che varrebbe la pena recuperare alla lettura contemporanea – in quanto attribuiva grande valore al proprio compito ed alla funzione, all’indomani dell’Unità, delle Società di storia patria. E ad esempio, nel 1868, nell’adunanza generale di Piacenza, deplorava in questi termini sarcastici: «Cancelliamo, audaci nepoti, i vestigi dei nostri padri: l’effigie dei luoghi che tante cose videro disfiguriamo: a ristorare le cose gloriose ed utili non si pensa. Non per ciò la Deputazione venne meno al debito suo»5.
Non si può non rapportare questo versante ideologico militante del Carducci storico ed erudito alla dimensione poetica, e alla immaginazione attivatrice di mondi e di «fantasmagorie storiche», al ricambio di miti dall’antico al moderno che ne costituiscono il centro. In questo ambito, a Carducci si deve l’invenzione di un atlante nazionale, di una rete di siti, di panorami, di rovine, che rappresenta il diario di viaggio del poeta, del professore in missione scolastica, e insieme la mappa pubblica della memoria collettiva. Di solito si ricorda il carattere intimamente poetico e autobiografico di Davanti san Guido6, non si ricorda il dato che il poeta stesso volle sottolineare nella nota alla poesia nella edizione di Rime Nuove del 1887, vale a dire la messa in salvo dei cipressi di Bolgheri da parte del signore del territorio Walfredo della Gherardesca:
A illustrare, come si dice e forse qui è proprio, questi versi, ecco il tratto d’un libro di Leopoldo Barboni, intit. Giosuè Carducci e la Maremma (Livorno, Giusti, 1885), del qual libro vorrei dir bene se l’autore non dicesse troppo bene di me: a ogni modo gli sono grato pe ’l fedele amore onde ritrae i paesaggi maremmani. “Segregato, rimpiattato due miglia in dentro alla nostra destra, tra i rami sfrondati dei gàttici e dei pioppi, si cominciava a veder Bólgheri... Un quarto d’ora fermavamo all’oratorio di San Guido. Il qual oratorio e il magnifico vialone omonimo che dalla via regia si slancia fino a Bólgheri per tre chilometri in circa in un rettilineo perfetto determinato da due ale di cipressi, si presenta benissimo al viaggiatore che corre su la strada ferrata Pisa-Roma”. Narrando poi d’una visita al signore del luogo Walfredo conte della Gherardesca, scrive riferendone le parole: “Ella veda: di que’ cipressi ve ne ha che hanno sofferto, e ci sarebbe bisogno atterrarli tutti e fare una piantata novella. Ma il Carducci gli ama, e però io gli rispetto. Toglierò, via via, i malandati, rimpiazzandoli con piante giovini; e così il vialone serberà la sua vera fisionomia oramai celebrata”. Grazie, signor conte; non per la celebrità, ma per l’amore.

Qui è agevole cogliere in flagrante il dialogo vivo fra poesia e paesaggio e, in un mutuo ringraziamento, il titolare dell’ode e il titolare della proprietà terriera, ben conscio, quest’ultimo, del ‘valore aggiunto’ di una fisionomia celebrata.
Che cosa accade prima, ci si può chiedere a questo punto, il luogo reale o lo spazio dell’immaginario accreditato dalla letteratura, che stabilisce l’identità geografica, storica, naturalistica, di una nazione? E quand’è che abbiamo smesso di ascoltare la parola simbolica che è in emersione diretta dalle cose, ce le svela, ce le fa riconoscere, e ci siamo invece rassegnati ad accettare la parola parassitaria che duplica le cose e ce le occulta, la cicatrice che concresce e prende il posto della realtà?
L’esempio più illuminante e fattuale del potere costruttivo della letteratura, che prelevo ancora dall’opera del Carducci poeta nazionale, riguarda un luogo simbolo dell’Italia italica, le fonti del Clitumno. L’ode Alle fonti del Clitumno7, anch’essa siglata, come Davanti san Guido, dal nuovo tipo di visione, quella trascorrente e veloce, dal treno, si sviluppa come un piccolo poema antiquario fra luoghi e loci classici, ed esempio compiuto di monumento dell’Italia unita divenuto tale grazie alla poesia carducciana. Fra Spoleto e Perugia furono installate lapidi a ricordo del passaggio taumaturgico del poeta, a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento. Nel 1910, per il cinquantenario dell’Unità, lo scultore Bistolfi realizzò una stele con una epigrafe scritta da Ugo Ojetti8. Nell’ambito del binomio paesaggio-storia, dal particolare versante della unitarietà della storia della itala gente, attestata da taluni luoghi sacri occultati dal tempo, risulta innegabile la centralità della poesia Alle fonti del Clitumno. Nel 1879 il filologo classico Wilamowitz, coetaneo e oppositore di Nietzsche, traduceva l’ode, insieme con altre due, Nella piazza di San Petronio e Dinanzi alle terme di Caracalla, in giocosa competizione con il suocero Theodor Mommsen, il quale da Firenze gli aveva inviato le Nuove poesie e le Odi barbare appena pubblicate9. Nel 1885 avrebbe illustrato quelle strofe in una conferenza a Berlino dove era sottolineato il valore del nesso organico instaurato da Carducci fra luogo, topografia letteraria e progetto ideologico nazionale. Notava con acume la singolarità dell’allocuzione diretta al genius loci: «L’ode non solo si presenta composta presso la fonte del Clitumno, ma si rivolge anche ad essa». Wilamowitz individuava le fonti classiche – Virgilio, Plinio, Properzio10 – e moderne, innanzi tutto il Gibbon, «il grande narratore della caduta e del tramonto dell’impero romano», il quale nell’organizzare il racconto inserisce la marcia di Alarico su Roma, lo fa fermare sul Clitumno, gli fa macellare il sacro bestiame, rappresentando con evidenza teatrale il contrasto fra l’antica grandezza di Roma e la barbarie. Inoltre descriveva con dovizia di particolari il sito e i dintorni, il lungo viaggio in treno che aveva intrapreso per giungervi, quasi a verificare con la puntualità del viaggiatore tedesco la Stimmung emanante dal paesaggio ed espressa nella poesia. In seguito, nel 1925 a Firenze avrebbe ripreso quella poesia, in un discorso sull’Italia preromana, prontamente tradotto in italiano da Gaetano De Sanctis col titolo di Storia italica11.
Tutto questo è storia in parte già nota. Invece, l’elemento meno conosciuto o affatto ignoto – elemento significativo anche per la lettura e interpretazione del testo – consiste nella relazione fra il paesaggio e la descrizione poetica, che va rovesciata.
Difatti, nel primo Novecento l’ispettore dell’agricoltura Francesco Francolini, un eminente agronomo e studioso di economia agraria, con particolare riferimento alla valle spoletina e alla conca ternana, dal 1910 al 1927 Direttore della Cattedra Ambulante dell’Agricoltura di Spoleto, aveva realizzato un rimboschimento armonioso in quello che all’origine era un luogo lacustre un po’ desolato, seguendo le indicazioni dell’ode carducciana, Alle fonti del Clitumno; impiantando dunque l’elice nera, il frassino dalla chioma ondeggiante, il vigile cipresso e lasciando però i salici, deplorati dal Carduccci come pianta poco virile, perché il Francolini aveva scoperto nel frattempo che essi provenivano dalle talee del salice che ombreggiava la tomba di Napoleone a Sant’Elena. Ecco come l’intreccio di storia leggenda letteratura e amore delle patrie memorie, fa esistere e rende vivo il patrimonio culturale12. Si vuol dire che il paesaggio visitato lungo tutto il Novecento da tante scolaresche, ha ispirato ‘in ideà il poeta, ma è stato esso stesso realizzato sulle tracce della poesia, la quale è da leggere non come sublime Baedaeker ma come fantasmagoria capace di istituire il mito e la memoria, di far riconoscere una immagine che prima non c’era.
Nel rapporto fra immaginario letterario e bene culturale, il caso più semplice e verificabile sarà costituito nel 1897 dall’ode saffica La chiesa di Polenta, raccolta in Rime e ritmi13. La riedificazione della chiesa che stava andando in rovina per mancanza di fondi fu infatti resa possibile grazie al Carducci che aveva devoluto a beneficio del monumento i diritti d’autore dell’ode, in una circolarità effettiva fra rappresentazione letteraria e difesa del patrimonio culturale14, e finalmente, fra poesia e azione, come aveva sognato da giovane, sebbene non nei termini eroici di allora, ma in quelli propri e concreti della salvaguardia dei beni culturali e territoriali dell’Italia unita.
Si può affermare che Carducci riassuma in sé, come poeta e come intellettuale l’integralità della cultura in quanto sistema di beni materiali e immateriali dalla funzione fondativa e non accessoria. Ed è per questo verso un unicum: prima di lui solo Dante ha marchiato cose persone e luoghi dell’Italia in modo organico e capillare.
E rimane significativo, forse, che alla rete di corrispondenze e relazioni fin qui esemplificate sfugga il territorio meridionale, di solito convocato, da un certo momento in poi, come frangia della mitologia classica, ovvero come immagine di una immagine. In tal senso, il Platone in Italia, il romanzo di Cuoco, tentò di ribaltare in positiva identità la rovina, lo scavo, il recupero archeologico di una icona italica antecedente l’Italia moderna: ma fu operazione minoritaria quanto splendidamente edificante, che non si affermò al di là di pochi entusiasti lettori d’eccezione.
Retrospettivamente, la forza ora conoscitiva ora sostitutiva dell’immaginario si manifesta in tutta la sua vitale connessione con la realtà, nel momento in cui la parola letteraria anticipa paesaggi non ancora disvelati dal progresso scientifico e dalla descrizione puntuale.
Così la città sepolta, Pompei, è esistita, assai prima che nella scoperta entusiasmante degli scavi e poi nelle scritture degli archeologi e nelle testimonianze del grand Tour, nell’immagine potente e divinatrice che ne offrì il Sannazaro nell’Arcadia con alcuni secoli di anticipo, all’interno di una rubrica di testi che fa capo, ovviamente, all’archetipo pliniano. Nell’ultima prosa, la duodecima, guidato dalla Ninfa delle acque il protagonista viene condotto in una discesa nel mondo sotterraneo, nelle vicinanze del suo desiderato Sebeto, e sotto il gran Vesevo può sentire gli spaventevoli mugiti del Gigante Alcioneo.
Tempo ben fu – gli dice la Ninfa – che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme, e con cenere coperse i circostanti paesi, siccome ancora i sassi liquefatti, ed arsi testificano chiaramente a chi gli vede; sotto ai quali chi sarà mai che creda, che e popoli, e ville, e città nobilissime siano sepolte; come veramente si sono, non solo quelle, che dalle arse pomici, e dalla ruina del monte furon coperte, ma questa che dianzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo neí tuoi paesi, chiamata Pompei, ed irrigata dalle onde del freddissimo Sarno, fu per subito terremoto inghiottita dalla terra, mancandole, credo, sotto aÏ piedi il firmamento, ove fondata era. Strana per certo, ed orrenda maniera di morte; le genti vive vedersi in un punto torre dal numero deí vivi, se non che finalmente sempre si arriva ad un termine, né più in là, che alla morte si puote andare: e già in queste parole eramo presso alla città, che ella dicea, dalla quale e le torri, e le case, e i teatri, e i tempj, si poteano quasi integri discernere15.

Si potrebbero offrire molti altri esempi della permanente interazione, a doppio senso, tra i codici –linguaggi ed azioni – fra quello che si vede e quello che se ne dice, e tra gli enunciati e le pratiche reali.
Ci si sposti ad esempio nella Napoli di secondo Ottocento, in uno degli ambienti più fervidi della cultura del realismo, nella stagione che in Italia e in Europa stabilisce il principio artistico del valore-verità, il primato da attribuire alla realtà e alla natura. E si consideri il testo della canzone Marechiaro, di Salvatore Di Giacomo, la canzone del 1884 dedicata ad un luogo suggestivo divenuto simbolo e oleografia. È lo stesso Di Giacomo a raccontare la storia della celebre canzone, nata da un passo dell’opera buffa del Cerlone e nella totale ignoranza del luogo reale. Soprattutto, questo estremo risultato letterario, debitore della felice coloritura ambientale, urbana e piscatoria conseguita dalla commedia settecentesca napoletana e perfettamente individuata dal Folena come «iperrealismo in Arcadia», ebbe una risposta così intensa dal pubblico da promuovere esso stesso realtà, nei termini del dispositivo turistico. Visitando dieci anni dopo Marechiaro, Di Giacomo – si legge nel racconto del 1894 – ha infatti la sorpresa di ritrovare «vivo e vero» il locus amoenus che aveva evocato e la medesima situazione risolta in quadretto – finestra, vaso di garofani, fanciulla di nome Carolina – e un oste il quale senza riconoscerlo gli assicura: «Un giorno il poeta venne qui a colazione […]. Vide la finestra, vide i garofani, vide Carolina e mise tutto nella canzone». Ma il processo era stato esattamente inverso, e Di Giacomo aveva finito anzi col detestare quella popolarità sentendosi sopraffatto e frainteso da una ricezione deviata16.
Si tratta, è chiaro, di un caso limite, che intanto registra una soglia e rappresenta un modello, nell’ambito del discorso che si sta qui sviluppando. L’irruzione dei generi letterari di consumo, l’avanzata dell’industria culturale, che ebbe a Napoli una delle sue capitali europee, proprio sul versante della canzone, modifica e complica lo statuto dell’immagine letteraria, portandolo ad un livello diverso, di abbassamento e nello stesso tempo di ampliamento del raggio d’azione. L’immagine accredita e veicola nella dimensione socio-antropologica ciò che forma, «figure e paesi», per dirla ancora con Di Giacomo; farà ancora il suo lavoro e, nella discesa agli inferi del mercato, risulterà ancora collegata, per gran parte del Novecento, ai piani alti e prestigiosi della letteratura e quindi del mito. Ma è un processo, come si sa, di progressivo assottigliamento del potere e del potenziale dell’aura.
La Cultura e le arti, con i settori pertinenti, costituirono in effetti fino ad allora un sistema integrato di spazi comunicanti, dove il privilegio attribuito alla parola, rispetto alle arti non verbali, rinviava al centro, alla funzione di illustrazione, comunicazione e di orientamento ideologico del Valore. La specializzazione delle singole arti e connesse discipline e pertinenze istituzionali, verificatasi a partire dalla prima metà del secolo scorso, ha implicato una separazione interna e un indebolimento del modello che per secoli si era manifestato, ed era stato, flessibile ma compatto, nella circolarità del «girotondo delle Muse». In seguito, la definizione stessa, di matrice economica, del «bene culturale» indicherà ormai, nel secondo dopoguerra, una frammentazione del bene Cultura. Bisogna, in particolare, risalire alla formulazione difensiva di bene culturale della Convenzione dell’Aia, del 1954, dove si stabilì l’elenco di ciò che va protetto e salvaguardato in caso di conflitto armato, ciò che deve sopravvivere, dopo l’esperienza di quanto era andato distrutto. Si sa, quando si fanno elenchi e gerarchie del salvabile vuol dire che qualcosa di grave è già accaduto. Quando si deve rendere esplicito in dettaglio quel che esisteva implicitamente di per sé, è facile ripetere col pessimismo di Adorno: «Parlare della cultura – è contro la cultura». Di più, scriveva drasticamente il filosofo: «L’idea che, dopo questa guerra, la vita potrà riprendere ‘normalmente’ o la cultura essere ‘ricostruita’ – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione – è semplicemente idiota»17.
Ma si riprenda a questo punto il discorso iniziale, circa l’umanesimo, la Facoltà di Lettere, il modello culturale organico alla storia d’Italia e dell’Europa. C’è un dialogo, fra due rappresentanti della cultura occidentale, Benedetto Croce e lo storico e critico d’arte Bernard Berenson, che val la pena convocare. Sin dagli anni Trenta, come si evince dal piccolo prezioso carteggio, ancora inedito, i due avevano collaborato, rispettivamente da Napoli e dall’enclave harvardiana della villa di Settignano I Tatti, nel mettere in salvo le vite e gli studi di intellettuali ebrei in fuga dalla Germania e dall’Italia. Si trattava ora di salvare monumenti e opere d’arte. Il 16 agosto 1943 Croce scriveva infatti a Berenson:
Caro amico Berenson,
Penso allo strazio e all’orrore che anche Lei prova per la quotidiana distruzione dei monumenti d’arte italiana. In Napoli è stato distrutto di fronte alla mia casa, Santa Chiara, il museo storico della dinastia angioina. Ricordo un suo motto d’altri tempi: che lo sportismo moderno, penetrando nell’aviazione di guerra, sarebbe stato capace di esercitarsi allegramente sulla cupola di San Pietro. Si aggiunga a ciò la credenza che, fuori di Roma, Firenze, Venezia, in Italia si abbiano monumenti artisticamente secondari.
Credo che un suo discorso alla radio potrebbe opportunamente ammonire e richiamare in proposito gli inglesi e gli americani, e aiutare a salvare un mirabile patrimonio che non è già italiano, ma di tutto il mondo civile18.

Bisogna tenere presente il contesto e la situazione per intendere la richiesta di Croce e la risposta di Berenson. Dopo l’invasione della Sicilia e il bombardamento di Roma, dopo il 25 luglio, il segretario del partito fascista aveva lanciato un appello alla radio affinché l’Italia e le sue città simbolo fossero risparmiate. Il 27 luglio, nel suo messaggio a Radio Londra rivolto ai tedeschi Thomas Mann aveva commentato la caduta del fascismo, aveva ammonito i connazionali a non essere stupidi («non troppo più stupidi degli italiani») e a cogliere il paradosso della difesa, certo strumentale, dei «patrimoni sacri» della tradizione e della cultura, proprio da parte di coloro i quali li avevano trascinati nel fango:
Il duce e la sua banda sono arrestati, anche quel signor Scorza, caporione degli squadristi con la bottiglia dell’olio di ricino, uno dei peggiori boia ed assassini, il quale all’ultimo momento improvvisamente divenne lirico e supplicò gli ascoltatori alla radio di salvare la meravigliosa opera di Dio, la sacra Italia, mentre si trattava esclusivamente della salvezza della sua propria pelle.
Come udirete presto, Tedeschi, anche voi queste note! Io sento già Goebbels e i suoi decantare con voce tremolante l’eterna Germania con la sua musica, la sua profondità, le sue sacre sedi di cultura; per la quale voi tutti, siate o non siate del partito, dovete far fronte comune per salvarla dalla più terribile crisi della sua storia19.

Berenson rispondeva dunque a Croce, in una lettera con traduzione in italiano, come risposta ufficiale, di non ritenere possibile un suo intervento alla radio alleata: «La guerra non viene fatta a metà e i civili non ci possono mettere bocca». Partecipava alla sofferenza per le perdite di vite umane e per la distruzione di «edifici sacri e cari ai nostri cuori». Ma, aggiungeva:
Io temo che una parola mia in proposito non avrebbe nessun effetto. Anzi, potrebbe dare l’impressione che io sia stato forzato a dirla. Un simile sospetto potrebbe nuocere in seguito alla possibilità che potrei avere di creare una migliore intesa fra Italiani e Anglosassoni e di trattare con questi ultimi come Lei ed io si vorrebbe. Per questa e per varie ragioni mi rincresce infinitamente che non si possa discorrere Lei ed io a quattro occhi uno di questi giorni20.

Dallo scambio epistolare tra i due amici emerge con evidenza, nella dimensione latitudinaria della Res publica litterarum che presuppone la funzione-guida degli intellettuali, quel nesso fra cultura, umanesimo, valore, che identifica i singoli fattori come una medesima totalità. Da questo punto di vista il bene culturale può essere ridefinito, dopo la seconda guerra mondiale, nel pericolo e nella perdita, come «ciò che può essere infinitamente distrutto»; pure, quel che resta è ancora valore, finché resteranno in azione coloro che lo riconoscono consensualmente, in quanto essenza storica, continuamente da ridefinire sulla parola, secondo il disciplinare originario dell’umanesimo.
Sono, tutte queste, riflessioni che, nella prospettiva dell’Università, e di una Università del Mezzogiorno, e a Napoli, possono assumere una particolare, forse un po’ atra coloritura. Si pensa naturalmente a Pompei, tra rovine e macerie, a palazzi crollati non ad opera dell’aviazione alleata, allo scempio di biblioteche non da addebitare ai tedeschi in ritirata rapace. Pure, proprio il dialogo tra Croce e Berenson, così estremo, ma volto al recupero di quel che resta, possiede una profonda energia pedagogica, di rilancio e rimessa in gioco. Croce fa riferimento al patrimonio, che non appartiene solo all’Italia ma è di tutto il mondo civile, annodando strettamente il destino di monumenti archivi città al carattere stesso della civiltà occidentale, alla sua immagine. Ove si tenga presente l’accezione estensiva che nelle facoltà umanistiche francesi sta prendendo la definizione di artisan du patrimoine, dai mestieri pratici alla gestione culturale e alla conoscenza storica21, e l’intreccio sempre più stretto fra materiale e immateriale, si può parlare della formazione del cittadino come bene culturale primario e come luogo mentale. Solo a partire da esso, divenuto habitat e orizzonte, si potrà cominciare a intravedere quel «paesaggio della ricchezza futura» che è stato indicato, di recente, dall’osservatorio istituzionale più alto della Nazione22.








NOTE
1 Le considerazioni e riflessioni che seguono sono state enunciate sinteticamente in occasione del convegno su La cultura come risorsa, organizzato da Giuseppe Galasso e tenuto nell’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa nel giugno 2013 (La cultura come risorsa. Turismo e beni culturali, nell’ambito dei ‘Sabato delle Idee’, 22 giugno 2013, alla presenza del Ministro Massimo Bray). Ho sentito l’esigenza di svolgere in modo articolato il discorso, che affrontava dal punto di vista della letteratura il tema essenziale delle ragioni resistenti dell’Umanesimo contemporaneo e del suo spazio istituzionale di pertinenza, la Facoltà di Lettere. Per i termini e il generale impianto storico-ideologico del mio intervento si rinvia ai due libri, fondativi e pionieristici, di G. Galasso, Beni e mali culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 1996, e La tutela del paesaggio in Italia (1984-2005), Napoli, Editoriale Scientifica, 2007. Si vedano inoltre i molti recenti interventi di Salvatore Settis: almeno, per le implicazioni complessive, Contro il degrado civile. Paesaggio e democrazia, Torino, Einaudi, 2012.^
2 Cfr. G. Gentile, Il figlio di G.B. Vico e gl’inizi dell’insegnamento di Letteratura Italiana nella R. Università di Napoli. Con documenti inediti, Napoli, Pierro, 1905; poi in Id., Studi vichiani, Firenze, Sansoni, 1958.^
3 Cfr. C. Giunta, Piagnistei. Sull’educazione, la globalizzazione le tecnologie, in «Italianieuropei», 3/2012, pp. 30-37.^
4 F. Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Torino, Einaudi, 1998.^
5 G. Carducci, Opere, I, Discorsi letterari e storici, Bologna, Zanichelli, 1889, pp. 343-439.^
6 Rime nuove, V, LXXII, in G. Carducci, Prose e Poesie, a cura di E. Giammattei, tomo II, Collezione Ricciardi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2011.^
7 Ivi, Odi barbare, I, VI.^
8 Cfr. L. Gentili, Spoleto 1910: Ojetti, Bistolfi e la stele al Carducci alle Fonti del Clitunno, in «Spoletium», 39, 1998, pp. 101-106.^
9 Cfr. G. Ugolini, Wilamowitz e Carducci, in U. von Wilamowitz-Moellendorff, Alle fonti del Clitumno, a cura di G. Ugolini, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2011, pp. 5-12.^
10 Di questi precedenti discuteva Carducci in una lettera a Lidia da Spoleto, del 12 giugno 1876, proponendosi di andare a visitare la sorgente, escludendo di potervi trovare ispirazione: «Io non ho più il potere di evocare né meno un misero topo. E pure questi luoghi sono così belli e così pieni dell’Italia antica. Qui si capisce qualche cosa dell’Italia anche pre-romana» (G. Carducci, Lettere, X, 1875-1876, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 175-176).^
11 Nella «Rivista di Filologia e di Istruzione classica», 56, 1926, pp. 1-18; cfr. Ugolini, Wilamowitz e Carducci, cit., p. 12, nota 12.^
12 F. Francolini, I Salici del Clitunno, Spoleto, Edizioni dell’Accademia Spoletina, 1942. Intervistato dal conte Giulio Loccatelli su «Il Giornale d’Italia» il Francolini avrebbe raccontato: «Fu, seguendo la guida stessa del Carducci, che la scelta delle piante, da far vivere in così incabtevole quadro, cadde di preferenza su quelle da lui invocate a custodia del fiume sacro: l’elice nera, il frassino dalla chioma ondeggiante, il vigile cipresso».^
13 Cfr. M. Veglia, Introduzione a G. Carducci, Rime e ritmi, Roma, Carocci, 2011; e sulla Chiesa di Polenta cfr. F. Bausi, «Ella è volata fuori de la veduta mia». Per una rilettura di ‘Rime e ritmi’, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, Atti del Convegno tenuto a Bologna nel 2007, a cura di E. Pasquini e V. Roda, Bologna, Bononia University Press, 2009, pp. 225-254.^
14 La chiesa sarebbe poi stata nuovamente salvata dall’intervento di Benedetto Croce, nel 1921 Ministro della pubblica istruzione. Cfr. in proposito il Carteggio Croce-Ricci, a cura di C. Bertoni, Napoli-Bologna, il Mulino, 2009, pp. 473-475.^
15 J. Sannazzaro, Arcadia, a cura di E. Carrara, Torino, UTET, 1951, p. 199.^
16 Su tutta la vicenda cfr. E. Giammattei, Domanda e risposta nella lirica digiacomiana, in «Strumenti critici», 12 (1998), 2, pp. 295-314, poi in Il romanzo di Napoli. Geografia e storia letteraria nei secoli XIX e XX, Napoli, Guida, 2003.^
17 T. Adorno, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1954, p. 45 sgg.^
18 Con parole quasi identiche Croce annotava nei Taccuini alla data del 5 agosto 1943, a Sorrento:«Nel pomeriggio, avevo ripreso la rielaborazione del Blanch, quando amici venuti da Napoli ci hanno informati delle orribili distruzioni di ieri per grosse bombe gittate da un capo all’altro della città. Di fronte alla nostra casa di Napoli è stata rovinata, e in gran parte si è poi bruciata, la chiesa di Santa Chiara, museo della dinastia angioina, e sono periti tutti o quasi i suoi monumenti»: Taccuini di lavoro, 1937-1943, Napoli, Arte Tipografica, 1987 (ma 1989), tomo IV, p. 438. E il 13 agosto: «La distruzione delle città italiane e dei loro monumenti d’arte mi rende inconsolabile» (ibidem).^
19 In Moniti all’Europa, Milano, Mondadori, 1947, al Cap. Attenzione, Tedeschi! Cinquantacinque radiomessaggi alla Germania (1940-1945), alle pp. 291-292.^
20 Archivio della Biblioteca Benedetto Croce. Ringrazio Marta Herling, Segretario Generale dell’Istituto di Studi storici e Piero Craveri, Presidente della Fondazione B. Croce, per avermi permesso la consultazione e citazione dal carteggio.^
21 Cfr. il Rapport del 2011 presentato al Ministro F. Mitterand: Françoise Benhamou et David Thesmar, Valoriser le patrimoine culturel de la France, Direction de l’information légale et administrative, Paris, 2011. E si veda come in Università pilota, quali Paris Sorbonne, i masters di gestione dei beni culturali siano centralizzati dall’insegnamento della storia, intesa come «professionalizzante».^
22 G. Napolitano, Il paesaggio della ricchezza futura, «Il Sole 24 ore», 25 marzo 2012.^
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