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Croce abruzzese e napoletano
di Giuseppe Galasso
Un luogo di nascita occasionale

Il 18 maggio 1948 Croce scriveva a Luigi Einaudi, dall’11 maggio nuovo presidente della Repubblica, per respingere l’idea di Enrico De Nicola, predecessore di Einaudi, di una sua nomina a senatore a vita. «Ho 83 anni» – diceva – e, se in futuro ancora «vivessi e fossi in grado di partecipare ai lavori del Senato, non dubito che qualche collegio di Napoli o degli Abruzzi, per un naturale sentimentalismo, mi eleggerebbe». Si deve credere, a nostro avviso, che qui il “naturale sentimentalismo”, riguardi proprio gli Abruzzi (Croce scrisse sempre così, al plurale, secondo l’uso geografico e amministrativo dominante fino a tempi più recenti); e, naturalmente, perché gli Abruzzi erano la sua regione di nascita.
Lì, infatti, egli era nato il 25 febbraio 1866, a Pescasseroli, paese della madre Luisa Sipari, che col marito, Pasquale Croce, vi si era rifugiata per sfuggire al colera allora in corso a Napoli, loro abituale dimora. Si trovò, dunque, in Abruzzo per una ragione puramente occasionale. Il padre stesso, dichiarandone la nascita allo Stato Civile, si definiva «domiciliato in Napoli, ed attualmente di passaggio per Pescasseroli». E, perciò, considerata, appunto, la casualità di quel luogo di nascita, la questione spesso agitata del Croce “abruzzese o napoletano” non avrebbe ragione di essere.


La parentesi abruzzese della vita di Croce

In quel paese natale, come avrebbe scritto a Giovanni Gentile il 19 agosto 1910, quando era ormai giunto ai quarantaquattro anni, egli non era più tornato. Quella che potremmo pressappoco considerare la “parentesi abruzzese” della sua vita si era, infatti, consumata pressoché per intero in quegli anni, fra il 1908 e il 1913, in cui egli aveva villeggiato a Raiano, non lontano da Sulmona, dove risiedeva la sua cugina Teresa Petroni vedova Rossi, ospite di lei e del suo genero Camillo Sagaria. Della Petroni questi aveva sposato la figlia Diomira, cara anche al Croce, che nella primavera del 1906, poco tempo dopo la nascita di un suo figlioletto, si era, però, precocemente spenta a Napoli (onde Giovanni Laterza, il fido editore di Croce, avrebbe poi parlato della Petroni «dall’occhio dolorante di Niobe», per la perdita mai dimenticata di quell’unica figlia). Può darsi che sia stato proprio questo increscioso accidente, coi sensi di condivisione del dolore e di partecipe solidarietà familiare consueti in tali occasioni, a far sì che il Croce (il quale era stato, come scrisse al Prezzolini, «in molta ambascia» per la mortale e dolorosa infermità di quella giovane) intensificasse i rapporti con la cugina e si orientasse a quella villeggiatura abruzzese, a Raiano.
Fino ad allora egli aveva villeggiato, di preferenza, a Perugia, e così fece anche in quel 1906, dal 12 settembre al 17 ottobre, «al solito albergo delle Belle Arti», come scriveva nel suo diario. Nel seguente anno 1907 lo vediamo, addirittura «ricevuto dalla banda musicale», arrivare il 22 agosto «la sera a Raiano presso Teresina e Camillo», dove si trattenne fino al 2 settembre. Fu, per così dire, un assaggio. Dall’anno seguente la villeggiatura a Raiano divenne la norma: nel 1908 dal 3 settembre al 18 ottobre; nel 1909, dopo un viaggio e soggiorno fra il 3 e il 20 maggio, intervallato da un viaggio a Roma fra il 14 e il 17 di quel mese, dal 3 settembre al 18 ottobre; nel 1910 dal 17 al 26 marzo, poco dopo la sua nomina a senatore il 26 gennaio, poi dal 10 agosto al 25 settembre, e ancora dal 30 settembre al 25 ottobre; nel 1911 dal 20 agosto al 30 settembre; nel 1912 dal 15 agosto al 6 ottobre; e, infine, nel 1913 dal 1° al 30 settembre.
La successione di queste date sembra indicare che il breve soggiorno di una diecina di giorni dal 22 agosto al 2 settembre del 1907 valse a persuadere Croce delle attrazioni e della convenienza di villeggiare, come dall’anno seguente regolarmente fece, presso la cugina e il Sagaria. Né soltanto lui, ma anche, e forse più decisivamente, Angelina Zampanelli – la «donna di imperiale bellezza» (come la definisce il Prezzolini), «più alta di lui, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale, con occhi che parevano trafiggere chi la guardava» – che, da lui conosciuta nel 1893, con lui conviveva more uxorio da almeno una dozzina di anni: evidente dimostrazione di una larghezza e spregiudicatezza di vedute del tutto inconsueta a quel tempo e nella società tradizionale che era quella del Croce. La Zampanelli partecipava, infatti, appieno a tutta senza eccezioni la vita anche sociale e pubblica del suo compagno, e tutte le notizie che ce ne rimangono attestano che ella era universalmente considerata, a tutti gli effetti, come la signora Croce.
Perché Croce non la sposasse è difficile dire, e anche ipotizzare. La risposta più probabile è forse quella più semplice, e cioè che né lui, né la sua compagna sentirono il bisogno di formalizzare quel rapporto, che proseguì forte e senza oscillazioni fino al giorno della precoce morte di lei, e si incise profondamente nello spirito del Croce e in tutta la sua vita intima e affettiva. La Zampanelli era di più di quattro anni più giovane di lui, essendo nata il 12 dicembre 1870; era romagnola, di Savignano, frutto riconosciuto di una relazione fra la madre Seconda Bartoli e un possidente del luogo, Marino Zampanelli, presso il quale la Bartoli lavorava come domestica e che, tuttavia, nel 1872 finì effettivamente con lo sposarla, ma il 3 agosto dello stesso anno rimase assassinato da ignoti e per ignoti motivi. Orfana, la bambina aveva ricevuto le cure soprattutto della zia Lucia Bartoli, direttrice dell’asilo infantile di Savignano. Si trovava a Salerno, presso lo zio Nicolò Bartoli, che colà aveva fatto una molto modesta fortuna, quando conobbe Croce. Oscure le circostanze della conoscenza, oscuro se la Angela esercitasse una qualche attività, e quale. Di sicuro è solo che dopo un paio di anni dalla loro conoscenza i due si unirono in un mènage strettissimo e felice, che durò fino alla di lei morte.
Alla cugina di Croce, figlia dell’unica sorella del di lui padre, e al suo genero Sagaria, Angelina (più familiarmente Nella) riuscì ospite più che gradita, e ne abbiamo continue attestazioni. Quelle villeggiature non erano lunghe e inoperose residenze di riposo o di interruzione della normale, intensissima, attività di Croce. Egli portava con sé una gran quantità di libri e di carte; attendeva ai lavori che, secondo il suo ordinatissimo costume a questo riguardo, aveva programmato per l’estate (vi scrisse, fra l’altro, il volume sulla filosofia di Giambattista Vico, e vi elaborò l’idea e preparò lo schema di Teoria e storia della storiografia), correggeva bozze, preparava altre sue pubblicazioni, nonché i successivi fascicoli de «La Critica»; inviava articoli ai giornali cui collaborava (essenzialmente «Il Giornale d’Italia»); curava la sua sempre fitta corrispondenza; ideava o definiva nuove iniziative culturali ed editoriali; riceveva visite di amici e di varie personalità, che venivano anche di lontano, oltre che da Napoli, a trovarlo.
Un ricordo particolare merita, in materia, la visita al Croce, che lo aveva colà convocato, del suo fido editore Giovanni Laterza il 18 settembre 1909. Arrivato a Raiano quel pomeriggio, lì si sentì esporre da Croce – come Laterza stesso ricordava in un suo scritto del 15 luglio 1926 – la «prima idea intorno a una raccolta di “Scrittori d’Italia” di non oltre 200 volumi di circa 350 pagine ciascuno. Immediato fu l’entusiasmo dell’editore a una tale idea, tanto che, ospitato per la notte in quella stessa casa, stese «subito il piano economico della prima serie di dieci volumi». Croce, a sua volta, senza, come soleva, por tempo in mezzo, già il 28 settembre, in un articolo sul “Giornale d’Italia”, dava l’annuncio del varo di quella collana, destinata a un glorioso e ancora aperto avvenire. Dopo di che, può essere interessante il commento, per così dire, topografico di Laterza a quell’incontro: convocandolo a Raiano per indurlo «ad attuare una sua idea così importante per la cultura italiana», Croce doveva «aver tenuto presente che per disporre l’altrui mente a secondare le idee proprie occorre anche il concorso dell’ambiente, e Raiano e casa Rossi-Sagaria» avevano influito «per davvero» sul suo spirito.
È l’ambiente che dobbiamo avere a nostra volta presente a proposito delle villeggiature di Croce colà. Villeggiature non fatte tutte e solo di lavoro intellettuale. Frequenti erano gite e visite in altre parti degli Abruzzi. Egli ricorda quelle a L’Aquila per il congresso della Società Dante Alighieri, a Teramo, a Sulmona, a Corfinio, ossia l’antica Italica, capitale degli Italici nel bellum sociale contro Roma, sul Morrone, all’eremo di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, a Chieti. Nel 1910 e nel 1912 visitò pure il suo paese natale, nel quale non era mai stato in visita, e la prima volta poco dopo la sua nomina a senatore, come più avanti ricorderemo; la seconda volta per «l’inaugurazione della linea automobilistica Pescina-Pescasseroli-Alfedena». Ricordata in particolare è pure la gita del 27 settembre 1908, in compagnia del pittore Antonio Piccinni (che poi gli fece anche «un ritratto a lapis»), al romitorio dei santi Cosma e Damiano, posto «sopra una montagna assai faticosa a salire e a discendere», che richiese cinque ore di cammino, per cui Croce ne ritornò «molto stanco», recriminando di non aver «potuto far altro nel resto della giornata che leggiucchiare il volume dell’Oriani sulla lotta politica in Italia». Ma era una prova di fisica energia congeniale al Croce, per il quale le «lunghe passeggiate», ovunque si trovasse, erano una delle abitudini più ricorrenti. Né meno frequenti erano viaggi e gite altrove, che solo in parte erano dovute a ragioni di lavoro (come a Roma per partecipare alle riunioni del Senato), e in ben maggiore parte erano verso mete umbre, e soprattutto romagnole, seguendo le precedenti abitudini estive del filosofo, che colà aveva tanti suoi amici: pochi giorni, ma certo molto graditi a chi li viveva con grande partecipazione.
In questo stesso torno di tempo, nominato senatore, egli si era recato al Quirinale per far visita al re Vittorio Emanuele III per doverosa cortesia e per un implicito ringraziamento; e con lui si era trattenuto a parlare specificamente dell’Abruzzo.
«Ricordi – scriveva Croce nel suo diario – dell’Abruzzo, di cui sono nativo, e in particolare di Pescasseroli, dove il Re si è recato più volte, e della caccia dell’orso alla quale ha partecipato, non riuscendo a colpire il raro animale. Ancora ha parlato in genere delle montagne d’Abruzzo, dei monumenti medievali (specie di Leonessa), della vita comunale di quella regione e dei suoi rapporti col mezzogiorno d’Italia, ecc., facendo frequenti accenni alle questioni numismatiche che in ispecial modo l’interessano, e tra l’altro a una moneta trovata di recente col nome di S. Nicola di Bari, e della quale è oscura l’origine. A proposito dell’Abruzzo, la conversazione si è aggirata sull’Italia meridionale, sulla profonda trasformazione di essa dopo il 1860, sull’aspetto affatto cangiato della popolazione di Napoli».
È una dimostrazione, ci pare, interessante di come la sua nascita in quella regione lo facesse percepire come abruzzese e alimentasse una convinzione più che comprensibile, e, per questo verso, più che giustificata, destinata a durare senza alcun limite di tempo o rischio di revisione, stante il suo materiale e inconfutabile carattere di dato di fatto.
Nel 1913 Croce iniziò la villeggiatura l’8 agosto, recandosi a Firenze, e di lì, il 10, a Cesena. La Zampanelli da un po’ di tempo soffriva di cuore, benché sempre si riprendesse dagli inconvenienti che gliene venivano. Quell’estate dava maggiori preoccupazioni. Già a Cesena Croce notava: «umore nero» il 28 agosto; «continua depressione nervosa», il 29; «giornata assai triste» il 30; «continuata tristezza», il 31, e «non ho fatto nulla»: che era per lui il massimo possibile di effetto di un intimo travaglio.
Il 1° settembre i due si spostarono a Raiano, e qui subito le condizioni della Zampanelli si aggravarono, e il 25, dopo qualche parvenza di miglioramento, ne sopravvenne la fine. Nell’atto di morte del Comune di Raiano la si qualificava come «coniugata con Benedetto Croce». Di qui la supposizione che Croce l’abbia sposata in articulo mortis col rito religioso, che allora non aveva gli effetti civili poi stabiliti dal Concordato italo-vaticano del 1929, per cui Croce poté figurare come celibe quando poi effettivamente sposò a Torino il 7 marzo 1914 Adele Rossi. Oppure, altra ipotesi, quella qualificazione di coniugata è da ascrivere alla convinzione di tutti nel piccolo centro abruzzese, dai costumi fortemente tradizionali, che la defunta, appieno convivente con Croce, non ne potesse effettivamente essere che la moglie. La salma fu trasportata a Napoli, dove venne poi definitivamente tumulata col suo nome e con la data del 1915, che era quella, appunto della tumulazione, non già della morte.



Il distacco dall’Abruzzo

Il colpo fu per il Croce di una gravità eccezionale. Al Gentile annunciava che la sua compagna si era spenta alle 7 di quel giorno (in realtà, alle 6,15) e lo aveva «lasciato solo»: e il corsivo, non molto frequente in lui, dice davvero quel che per lui significava quell’evento luttuoso. Non per nulla, fu quello un momento in cui si riaffacciarono pensieri di morte quali aveva avuto, come dice nel Contributo alla critica di me stesso, soltanto nelle crisi della sua giovinezza di orfano disorientato e, spesso, abulico.
La lettera che il 6 ottobre scrisse a Renato Serra, rispondendo alle sue condoglianze, resta il documento forse più autentico e impressionante di quel che egli allora sentì e pensò. «Io sono giunto – scriveva – a un momento critico della mia vita, che aspettavo da un pezzo temendo; e la lunga preparazione, l’accurato armamento che avevo fatto di pensieri e di propositi, mi è valso, sí, a qualcosa, ma non a molto»; e si chiedeva: «saprò io serbarmi, nel vuoto in cui ora mi trovo, pari ai miei ideali? Lo spero». Dal che traeva, quindi, lo spunto per raccomandare al Serra stesso, «in questa ora in cui il dolore mi strazia e sconvolge, la serietà della vita». Le parole che seguono sono fra le più alte e incisive del Croce: «noi non possiamo vivere di affetti per cose o persone: dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere». La conclusione era altrettanto netta: «e per non cadere non c’è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita. Altrimenti che cosa resta? Il lurido suicidio o il lurido manicomio».
Da questa alternativa di morte o pazzia il Croce stentò sul momento a uscire. Vero è che anche nei giorni tristissimi di Raiano, «nei ritagli», aveva continuato a studiare, leggere, scrivere; e, tornato a Napoli il 30 settembre, aveva «dato riassetto alla casa», in cui ora si ritrovava solo, e la nota della solitudine è forse quella che echeggiava più forte in lui. Poi già nel novembre seguente si recava a Torino e vi restava dal 9 al 24, e non era, quel viaggio, uno dei soliti. Vi tornava, infatti, il 26 dicembre, dopo di essere stato per alcuni giorni a Pisa. Dall’inizio di dicembre il suo diario registra «malessere», «profonda tristezza», insonnia, stanchezza, perdita di tempo, irrequietezza, «depressione e tristezza». Il 15 dicembre è una «pessima giornata», in cui – dice – «non ho fatto nulla di nulla, e mi sono assai tormentato»; il 15 nota di non aver «chiuso occhio la notte»; il 18 di stare «sempre assai male di nervi e di umore». Il giorno 20 di quel mese sembra segnare il culmine di questa crisi: «neanche stanotte ho potuto dormire. Pessima giornata. Ho passeggiato a lungo, ma stancandomi perché i nervi sono assai deboli. Non ho concluso nulla o quasi nulla. Umor nero». Il giorno seguente dorme «con un calmante», rimanendone «assai fiacco». Finalmente si risolve a partire, senza, peraltro, che il suo stato d’animo muti anche quando giunge a Torino.
Quale fosse il motivo di questo così lungo e intenso travaglio possiamo soltanto ipotizzare, ma con più che buone probabilità di cadere nel giusto. È, infatti, verosimile che sia stato quello il momento in cui egli prese la prima decisione di sposare Adele Rossi, la giovane torinese da lui conosciuta quando alcuni mesi prima si era recato da lui a Napoli, con una lettera di presentazione di Arturo Farinelli, per averne lumi e notizie sull’argomento della sua tesi di laurea. Era ancora viva la Zampanelli, alla quale la Rossi riuscì senz’altro simpatica; e dopo la morte della Zampanelli i rapporti tra Croce e la Rossi si erano intensificati.
Erano i mesi in cui egli cercava di uscire fuori dalla tristezza e dalla depressione che dal settembre ne fiaccavano le forze e la volontà di vivere e di fare. Già il giorno 7 di quel dicembre 1913 scriveva alla cugina Teresa parole fin troppo chiare nel senso che si è detto, confidandole il punto al quale egli riteneva allora di trovarsi e accennando a suoi prossimi orientamenti. «Io – scriveva – sto abbastanza bene fisicamente; ma sempre come stordito, e non riesco a fare con piacere niente; nessun lavoro mi attira. Qualche cosa faccio per passare il tempo, ma svogliatamente. Che cosa dirti? Ora che comincio a pensare all’avvenire, mi persuado dell’impossibilità di seguitare a vivere così, in questa solitudine malinconica, dopo che per tanti anni mi ero sentito accanto a una creatura alla quale volevo bene. Il lavoro non basta a riempirmi la vita, perché il lavoro stesso richiede certe condizioni di calma e di serenità. E vado riflettendo alla soluzione da adottare in un tempo più o meno prossimo. Di ciò ti scriverò e ti parlerò quando avrò in mente qualche cosa di concreto, per chiedere il tuo consiglio. […] io sento che la ferita che mi si è aperta nel cuore non si rimarginerà mai. Quella immagine dolorosa mi sta sempre innanzi agli occhi. E sento insieme che bisogna che io continui a vivere, per tanti doveri che ho verso gli studi e verso la società. Prima che accadesse la disgrazia, avevo una quantità di progetti, una quantità di lavori avviati. Speravo di poter fare ancora molte cose serie e utili. E ora debbo freddamente, ragionevolmente studiare il modo di rimettermi, non già nelle condizioni di prima (il passato non si rifà), ma in una condizione tollerabile».
Il viaggio a Torino nel dicembre 1913 fu, quindi, il momento della chiarificazione fra Croce e Adele Rossi, separati fra loro da quattordici anni di età e da una ben diversa posizione sociale. Nel febbraio successivo fu ufficialmente annunziato il loro prossimo matrimonio, che fu, infatti, celebrato, come si è detto, a Torino il 7 marzo 1914.
Non erano ancora passati neppure sei mesi dal decesso della Zampanelli, che in Croce aveva provocato il drammatico sconvolgimento che abbiamo visto. Potrebbe sembrare un mutamento più che sorprendente, ma può apparire in una ben più vera luce se consideriamo diversamente le cose. Quel matrimonio si tradusse, di certo, in un legame profondo e felice, anche se «il passato non si rifà», come Croce aveva scritto alla cugina, e il grande amore per la Zampanelli non ebbe, infatti, né poteva avere un bis. Il matrimonio con la Rossi va, quindi, visto come, per così dire, la “cortina tagliafuoco”, che Croce volle calare sulla sua pregressa vita sentimentale, quale unico strumento per sfuggire all’alternativa del “lurido suicidio” o del “lurido manicomio” nella quale la perdita della Zampanelli l’aveva drammaticamente piombato. Era stata, la caduta in una tale alternativa, una prova definitiva dell’amore appassionato e totale che egli aveva sentito per la scomparsa, e di cui aveva per venti anni gioito quanto poteva desiderare. O restare in quell’alternativa e soccombere ad essa, o uscirne fuori staccandosi in toto e subito dal passato d’onde essa era nata: fu questo il dilemma che Croce allora si trovò a sciogliere, e che sciolse al suo modo franco e deciso, ma pagando fino all’ultimo il costo delle tensioni e delle rotture intime che un tale scioglimento, dopo un ventennio di accesa passione, non poteva non provocare.
Il 16 febbraio 1914 egli ne scrisse ancora una volta diffusamente alla cugina Teresa. «Io ho pensato – diceva – con molta calma e serenità, in questi ultimi mesi, sulla condizione nella quale io mi trovo, e specialmente per l’avvenire. Tu sai che io posso contare poco sulla famiglia di Alfonso [suo fratello], il quale è a me affezionatissimo, ma ha dato alla sua famiglia un avviamento mondano, che io deploro. Ora l’idea di una vecchiezza solitaria mi spaventa. Può accadermi, come al mio amico Fortunato, di essere colpito, per es., da una debolezza d’occhi; e dovrò sospendere le letture e gli studi, e non saprò cosa farmi del mio tempo per mancanza di un aiuto, che non può essere mai un aiuto mercenario. Sicché, ora che sono ancora in tempo, mi conviene ricostruirmi una famiglia, avere accanto a me persona che mi sia devota. Il difficile era la scelta, perché io non sono più né in età né in condizione d’animo da sopportare le vanità femminili; e mi sarebbe impossibile intendermi con una signora o signorina napoletana, che tutte, quante ne ho conosciute e conosco, sono nel loro fondo volgari, pettegole e ambiziose. Se ti dicessi come sono stato circuito e infastidito in questi mesi, ti farei ridere, o, piuttosto, ti susciterei il disgusto! Per tutte queste ragioni io mi sono determinato a sposare quella buona signorina Rossi, di Torino, che tu conosci. È una ragazza serissima; ha dato prova di molta volontà col prendere la laurea e insegnare in un collegio di monache, unicamente per sua dignità, perché il fratello che è un industriale provvedeva a tutti i suoi bisogni, e non voleva che si fosse affaticata e consumata nel mestiere dell’insegnante; era amica della povera Angelina, e non mi parrà, prendendo lei, d’introdurre un’estranea in casa, e serberò vivi tutti i miei ricordi».
Sotto la veste logicamente ordinata e controllata della nitida prosa di Croce è evidente la grande e dialettica carica umana (sentimentale, passionale) di tali parole. Il matrimonio con Adele Rossi segnò, comunque, di fatto, la chiusura di quella che potremmo anche definire, con approssimazione, ma non indebitamente, la «parentesi abruzzese» della vita del Croce. Egli si recò ancora a Raiano, giungendovi da Roma, nella notte del 3 aprile 1914; vi rimase la giornata del 4, e ne ripartì il 5 per Napoli, probabilmente per dare disposizioni circa la salma della Zampanelli, che per allora rimase colà e che poi egli fece trasportare e tumulare, come si è detto, a Napoli. Poi ancora si recò a Raiano dal 30 maggio al 3 giugno del 1914, e fu l’ultima volta.
Non che il pensiero della sua Angiolinella (com’egli amava chiamarla con un diminutivo molto napoletano) sparisse in lui. È significativo che conservasse sempre nel suo studio il bel ritratto di lei che aveva dipinto Salvatore Postiglione, un apprezzato pittore napoletano. Soprattutto abbiamo molteplici e attendibili testimonianze di quanto la donna scomparsa continuasse a essere presente nel suo pensiero e nei suoi discorsi anche nei primi tempi del suo matrimonio con Adele Rossi, che rivelò una grande intelligenza amorosa, non sollevando in alcun modo questioni al riguardo. È da pensare che anche nel Croce questa intelligenza della moglie e, soprattutto, la nascita dei suoi figli avessero un effetto distensivo decisivo, anche se non obliterante dell’episodio dominante nel suo passato di uomo appassionato e sincero. Nel suo diario egli provvide, tuttavia, a sostituire la dolorosa, angosciata cronaca di quel nefasto settembre 1913 che, secondo il suo solito, vi aveva tenuto, con una molto sintetica annotazione relativa a tutto il periodo dal 3 settembre al 2 ottobre: «sono stati giorni assai tristi», pur avendo lavorato non poco, come si è detto, «nei ritagli» di tempo lasciatigli dall’assiduo e assillante pensiero di quel che stava accadendo. E quando questa sostituzione della lectio brevis a quella originaria del diario fu decisa e attuata, davvero, si può dire, si distese la «cortina tagliafuoco» che egli aveva deciso di calare sul tempo della sua più grande passione d’amore.
Dopo di allora in Abruzzo si recò ancora soltanto dal 12 al 16 agosto 1919 per visitare Montenerodomo, il paese di origine della sua famiglia paterna, della cui storia aveva deciso di scrivere un profilo, per cui aveva bisogno di svolgervi alcune ricerche documentarie (e ne profittò anche «per compiere la compilazione dell’albero della nostra famiglia dal 1420 in poi»); e dal 7 al 16 settembre 1921 per tornare a Pescasseroli, il paese materno, del quale parimente aveva deciso di scrivere un profilo storico («una monografietta», come la definì nel diario) e per analoghe ricerche. Al ritorno si fermò anche a Gioia e a Pescina.
I due saggi sui paesi della sua famiglia paterna e materna – tutt’altro che un saggio crociano di “microstoria”, come a qualcuno sono apparsi – furono, quindi, un po’ lo scioglimento di un debito morale al quale egli, in quanto uomo di cultura e di severi studi, sentì di dover soddisfare sul piano della vita civile, oltre che su quello della vita di famiglia. Quel che ne poteva restare su questo piano egli lo assolse, quando, trovandosi a scrivere la sua bella biografia di Cola Monforte Gambatesa, conte di Campobasso, nella primavera del 1932 si recò per qualche giorno in questa città, alla quale pure erano legate memorie importanti della sua famiglia.
«Forse voi non sapete – avrebbe scritto in alcuni Ricordi molisani del 1947 – che mio padre nacque in Campobasso; mio nonno [del quale egli portava il nome] fu due volte magistrato costà; […] mia nonna era di una famiglia di Campobasso, figlia di un Frangipani, duca di Mirabello». La città molisana era, perciò, ricordata spesso da sua nonna, onde il nome di Campobasso – diceva Croce – «suona al mio orecchio come una musica udita da bambino», benché avesse aspettato «di diventare vecchio [egli] stesso prima di visitarla di persona». Era il tempo del fascismo, ma questo non aveva impedito che Croce vi ricevesse spontanee, liete accoglienze. «Memorie – quindi, concludeva – dolci, anche per questo che quegli studi storici [su luoghi cui era legata la storia della sua famiglia], quei tuffi nel passato, quei viaggi d’indagatore furono, allora, momenti poetici della mia vita». Che è, poi, l’autentica chiave di lettura, insieme con quella già accennata di un debito morale e di vita civile da onorare, delle sue “microstorie” familiari, che si estendevano, come si è visto, dagli Abruzzi all’attiguo e da lui meno conosciuto e visitato Molise.



La napoletanità di Croce

Se, dunque, si considera la complessiva durata delle sue dimore abruzzesi rispetto a quella della sua stabile residenza napoletana, vi sarebbe ancora minore ragione di porsi l’interrogativo se Croce fosse abruzzese o napoletano di quanto già non suggerisca la casualità della sua nascita a Pescasseroli. E non parliamo delle sue case napoletane e della sua biblioteca, che per lui era quasi una sorta di estensione e proiezione fisica del suo essere intellettuale. Né parliamo delle sue frequentazioni e delle sue amicizie napoletane e, in generale, delle sue relazioni sociali, tutte incentrate su Napoli, almeno dal 1885 in poi, quando vi tornò dopo il biennio di soggiorno a Roma in casa degli zii (materni) Spaventa, che lo avevano accolto in seguito alla catastrofe del terremoto di Casamicciola, in cui perirono entrambi i suoi genitori e la sorella, lasciandolo orfano col fratello Alfonso. E neppure parliamo della sua partecipazione, così intensa e sentita, alla vita civile e culturale della città e all’attività delle sue istituzioni culturali, cui dette un così importante contributo, che non fu solo di presenza e di collaborazione; né dei suoi studi su Napoli e su temi napoletani, che rappresentano una parte ingente della sua pur così ampia bibliografia.
Naturalmente, ben più di questi indiscutibili dati di fatto conta poi il modo come Croce sentiva Napoli quale elemento della sua personalità sociale, culturale, morale, oltre che, naturalmente, del suo immaginario, della sua emotività, del suo atteggiarsi nella quotidianità della vita. E anche da questo punto di vista il rapporto con Napoli si rivela immediatamente di una consistenza e di un’intimità tali da dare ad esso una, per così dire, qualità spirituale che non lascia alcuno spazio a qualsiasi dubbio circa la napoletanità di Croce.
Basterà, a persuadersene, ricordare le pagine di Un angolo di Napoli, uno dei suoi scritti più eloquenti in tal senso, che egli compose nei primi mesi del 1912, quando da pochissimo (i primi di ottobre del 1911) si era trasferito dalla sua precedente casa al Largo Arianello in Via Atri in quella, che fu la definitiva, nella via che dopo la sua morte prese il suo nome. Dal balcone del suo studio, notava, «l’occhio scorre sulle vetuste fabbriche che, l’una incontro all’altra, sorgono all’incrocio della via della Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara»: nel cuore, davvero, della città quale fu fino alla metà del ’900. E già parla da sé il bisogno subito sentito e subito eseguito di tradurre quel suggestivo panorama di “vetuste fabbriche” in qualcosa che – sub specie di una guida storica alle più eminenti fra esse per rilievo monumentale e per memorie storiche – fosse intimamente suo, quasi che si fosse appropriato di quel panorama in tutti i suoi elementi attraverso lo strumento della descrizione e rievocazione storica. Che è poi la base sulla quale fioriscono le impressioni e i sentimenti che ne nascono.
«È dolce – dice Croce – sentirsi chiusi nel grembo di queste vecchie fabbriche, vigilati e tutelati dai loro sembianti familiari; quasi come il ritrovarsi nella casa dove vivemmo la nostra infanzia, e venirvi riconoscendo gli oggetti che primi svegliarono la nostra meraviglia e ci mossero a fanciullesche immaginazioni, e rimirarvi i severi ritratti dei morti, che c’incussero un tempo rispetto e paura» d’onde anche la domanda: «si sta meglio o peggio sulle larghe strade e nelle ben disposte case moderne?». Disputa, ricorda Croce, che «risale […] a tempi molto remoti». Già gli antichi romani, così come «andiamo lodando e così spesso rimpiangendo ora noi» il precedente aspetto di Napoli, si affliggevano «pel mutato aspetto della loro città», e ne lodavano e rimpiangevano quello di prima, in cui gli stretti vicoli assicuravano d’estate ombra e frescura. Ma quell’ombra estiva, si chiedeva qui Croce, «era rifugio ai corpi soltanto, o non più ancora alle anime?».
Egli aveva anche abitato nella parte più nuova della città. Prima che si trasferisse in Via Atri risiedeva al Viale Elena, una parallela di Via Caracciolo sul lungomare napoletano, ampia, luminosa, di più moderna struttura edilizia. Si era poi spostato nella parte antica, con una scelta esattamente all’opposto di quella che aveva fatto o andava allora facendo la maggior parte dell’aristocrazia e della maggiore borghesia napoletana. Una scelta – mantenuta, con ancora maggiore determinazione, nel passaggio dalla casa di Via Atri a quella di Via Trinità Maggiore – che, anch’essa, concorre a dare un tocco importante alla napoletanità di Croce. La Napoli delle “vetuste fabbriche”, base su cui fiorivano le immaginazioni e il sentire di cui si è detto, aveva, a sua volta, la sua base in un bisogno intimo, si direbbe nativo, dello spirito di Croce, sul quale sarebbe interessante, e anche importante, condurre un’analisi minuziosa. Il bisogno, si direbbe, di una spirituale domesticità proiettata al di là dei muri di casa, di una immedesimazione ambientale, di una piena e visibile convivenza e di un colloquio permanente di passato e presente, di una rassicurazione integrale contro la solitudine e le chiusure, ma anche contro le estroversioni tanto più inconsistenti quanto più vistose e rumorose dell’individualità atomizzata, alienata, dispersa, irrelata, chiusa nella prigione della sua soggettività.
Dietro il discorso di Croce sui “doveri verso la vita”, sul quale lo si vede insistere dopo la perdita insostituibile della Zampanelli, c’è, insomma, molto di più che una spinta soltanto etica. C’è tutta la sua esperienza di vita, tutto il suo vissuto, tutto quel fondo, anche oscuro, dinanzi al quale egli si era trovato nella sua crisi giovanile, e che in lui era stato domato da un’assidua disciplina interiore, che gli aveva reso l’angoscia familiare e controllabile, ma di cui certo nulla avrebbe potuto estirpare e distruggere l’originaria prima radice. E la Napoli delle “vetuste fabbriche”, quale egli la vedeva e la sentiva, la studiava e la rappresentava, era di tutto ciò una componente primaria incomparabile.
Quale possibilità di confronto vi è, in effetti, fra questa Napoli e qualsiasi altro ambiente geografico o storico della lunga esperienza umana di Croce? A chiusura delle belle e suasive pagine di Un angolo di Napoli egli ricordava che Michele Cito Filomarino, principe della Rocca, e quindi della famiglia cui era appartenuto il palazzo scelto da Croce per abitarvi, aveva sposato Embden Heine, nipote del poeta Heinrich, al cui nome egli si trovava, quindi, «inaspettatamente» a giungere a chiusura del suo excursus sulle “vetuste fabbriche” napoletane. E quel nome – concludeva – «è uno di quei “raggi di sole” troppo vivi che fugano le ombre di queste vecchie memorie napoletane, nelle quali la mia fantasia ama di tanto in tanto rinchiudersi, e il mio animo si fa antico!». Un bisogno di storia, che non nasce, dunque, come nella maggiore teorizzazione di Croce, dai problemi del presente e non porta alla considerazione etico-politica in cui culmina quella teorizzazione. Un bisogno di storia che nasce da una condizione esistenziale, e si risolve in una dimensione interiore di liberazione e di appagamento ugualmente esistenziale. «Il mio animo si fa antico» non è soltanto una delle più belle e suggestive espressioni autobiografiche di Croce. È anche uno dei più significativi squarci da lui – così refrattario a ogni vagheggiamento o rimuginamento soggettivistico, a ogni edonismo dell’immaginazione ripiegata su se stessa e compiaciuta di se stessa – aperti, e forse innanzitutto a se stesso, sulla sua più segreta interiorità.
“Croce abruzzese” sarebbe, dunque, un vezzo geografico, molto dissonante dal suo stesso sentire e pensare, per cui l’uomo gli appariva filius temporis molto di più che filius loci. O potrebbe anche trasformarsi (e anche questo non è mancato di accadere) in una questioncina da secchia rapita fra la sua regione natale e la città in cui di fatto visse, studiò, si formò, e pensò e realizzò quasi tutti i suoi lavori.


Il discorso di Pescasseroli

Bisogna, tuttavia, riconoscere che a far nascere la questione, anche più di quanto già non comportassero le indicazioni geografiche, fu lo stesso Croce; e non solo nel respingere, come si è detto, la proposta di sua nomina a senatore a vita nel 1948. Ben prima, il 20 agosto 1910, mentre villeggiava a Raiano con la Zampanelli, gli era giunto l’invito del Comune di Pescasseroli a recarsi colà. La recente nomina di Croce al Senato dava alla sua cittadina natale l’occasione di festeggiare insieme il nuovo parlamentare e il grande, famoso e prestigioso uomo di cultura che il compaesano Croce era ormai già da alcuni anni. Una gloria locale da celebrare debitamente, dunque, e, data la vicinanza del suo luogo di villeggiatura, era quella davvero un’occasione, per Pescasseroli, da non perdere, e tanto più che colà continuava a vivere la di lui famiglia materna.
Fu così che quel 20 agosto Croce partì da Raiano «in automobile» col cugino Erminio Sipari e con il sindaco di Pescasseroli Giovanni Di Pirro. A mezzogiorno erano giunti alla meta, trovandovi «cordiali accoglienze». Il giorno dopo, 21, «giornata ufficiale», vi fu il «ricevimento in municipio»; e «la sera, banchetto offerto dai cittadini di Pescasseroli, e discorsi». Il 22 Croce era poi già di ritorno a Raiano. Fu, dunque, quel 21 agosto che tenne colà il discorso che fa da più autorevole testo del suo sentirsi abruzzese.
«Quantunque – disse allora – io non abbia, prima di questi giorni, percorso materialmente la via che conduce a questo paese, l’ho percorsa infinite volte con la fantasia; e quantunque ora per la prima volta abbia contemplato la casa dei miei progenitori materni, la piazza, la chiesa, i ruderi del castello, li avevo già visti molte volte come in sogno». Un sogno fondato su precisi ricordi d’infanzia: «A me, fanciullo, i racconti di mia madre, nei quali appariva sempre una città biancheggiante di neve, quasi divisa dal mondo, e una vasta casa dove si stava intimamente raccolti intorno al lieto fuoco del camino; nei quali si narrava di uomini forti e austeri, di pastori, di innumeri greggi, e poi ancora (argomento prediletto alla curiosità del bambino) di soldati e briganti, e meglio ancora di cacce e di orsi (poiché il bambino si interessa agli animali assai più vivamente che agli uomini), questi racconti, queste descrizioni, facevano di Pescasseroli per me come uno dei paesi delle fiabe, che non si sa mai se siano o no esistiti. E un po’ paese di fiabe rimase per me, anche quando divenni adulto».
Come mai non vi era, però, mai tornato prima di allora, «nonostante gli incitamenti affettuosi dei [suoi] zii e i propositi ripetuti» di andarvi? La risposta a questo interrogativo è, in certo qual modo, poco conforme al suo solito nel parlare di queste materie: «c’era in fondo al mio animo, il ritegno a realizzare il mondo del sogno, a sostituire immagini precise a quelle ondeggianti che erano nel mio cuore ricche di tanto significato, giacché facevano tutt’uno con l’immagine di mia madre». Ora, dopo avere in quella visita «toccato il fantasma del sogno», nel trovarsi «materialmente» fra i suoi concittadini, di molti dei quali gli pareva di ricordare la fisionomia conosciuta da bambino, non sapeva dire se la realtà fosse migliore dell’immagine di quel sogno o se fosse l’inverso, ma sapeva che «il sogno è buono e la realtà è altrettanto, se pur diversamente, buona» e che l’uomo è fatto e si nutre dell’una e dell’altro.
In questo caso il sogno e la realtà, diversi fra loro, non si erano per nulla contraddetti. «La casa – diceva Croce – dei miei buoni cugini [dove era stato alloggiato], per quanto grande me la dilatasse la fantasia, non ha smentito l’iperbole fantastica; e ho calcato col piede nel salotto le pelli di quei animali [gli orsi] che già avevo visti attraversare la bianchezza nevosa del paesaggio. Nel percorrere i libri allineati nella biblioteca di famiglia ho riconosciuto le legature di certe collezioni di racconti che avevano dilettato mia madre e che ella si faceva mandare talvolta dal fratello per darli a leggere a me giovinetto». E, perciò, tutto si era riempito per lui «di un nuovo e più saldo, se anche meno fantastico, sentimento di affetto», e altrettanto era accaduto per quanto riguardava il paese. «La vostra piccola città – affermava – mi è parsa più bella, più ampia, più gaia e, se volete saperlo, più civile di come io la vagheggiavo; e tutt’altro che divisa dal mondo», poiché vi si viveva «del tutto affiatati con la vita italiana e moderna». Che era anche un modo gentile di dire che egli aveva a lungo pensato a quella “piccola città” come a un borgo appenninico, isolato dal mondo e poco “civile”.
Era anche questo un Croce visto dall’intimo, e, per di più, inconsuetamente esibito in pubblico (se ne accorgeva egli stesso: «mi accorgo di parlarvi di sentimenti troppo personali e intimi»). Si riteneva, però, giustificato dalla circostanza di quella prima diretta conoscenza del luogo natio; e aggiungeva che Pescasseroli, pur ancora non conosciuta, «non era stata soltanto, per lunghi anni, nel [suo] spirito un semplice oggetto di fantasticherie». E qui di nuovo confessava qualcosa del suo più profondo intimo.
«Ho vissuto – diceva – la mia vita a Napoli, tra una popolazione intelligentissima, calda, cordiale, impulsiva: e di Napoli conosco ogni pietra e ogni ricordo; e il figliuolo dei monti ha ormai il bisogno irrefrenabile di dimorare nel cuore di quell’antica città, tra vecchi campanili, e muri di monasteri, e resti di edifici medievali e greci; dove più se ne sente la ricca e ininterrotta tradizione storica. A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si sono fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta:-Tu non sei napoletano, sei abruzzese!- e in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza».
Tutto è importante in questa pagina: il bisogno e il significato del dimorare nel cuore di Napoli antica, che sembra una sintesi istantanea della sostanza di quanto è in Un angolo di Napoli; il suo pieno inserimento nella vita sociale di Napoli; il sentimento di disagio che alcuni tratti della napoletanità destavano in lui; l’ancoraggio, in idea, all’Abruzzo natio per evadere da tale disagio. E si può ben dire che a questo luogo del discorso di Pescasseroli soprattutto, se non esclusivamente, si appellano tutti quelli che considerano Croce, per l’appunto, abruzzese.



Una ragione delicata del rapporto con Napoli: le esperienze del 1914 e del 1915

In realtà, nel discorso di Pescasseroli non c’è nulla che disdica o contraddica alla napoletanità di Croce. È vero, invece, che si entra con esso nella regione più delicata del suo rapporto con Napoli. Una regione che può essere esplorata in varii modi, ma che si presta immediatamente a notazioni di fondamentale interesse, se solo si pensi alla partecipazione di Croce alla vita politica e amministrativa di Napoli. Una partecipazione che non fu intensa e continua, ma non fu neppure episodica o casuale, e che in qualche occasione ebbe la sua importanza e la sua eco anche fuori della città.
Così fu, certamente, per le elezioni municipali del luglio 1914. Croce era senatore, ma di ancora recente nomina. Impegnarsi in quelle elezioni costituiva implicitamente, di fatto, sottoporsi a una prova d’esame delle sue capacità di capo politico sul campo. Vi si impegnò, comunque, a fondo. Presiedette un’Associazione liberale napoletana da lui promossa, e intorno ad essa favorì la costituzione, tra moderati e cattolici, di un Fascio dell’Ordine, che doveva contrastare le forze di sinistra unitesi in un Blocco popolare, al quale si attribuivano serie probabilità di vittoria. Per l’occasione egli partecipò anche, la vigilia delle elezioni, il sabato 11 luglio, a un corteo dei sostenitori del Fascio dell’Ordine: un tipo di manifestazione fra quelli a lui meno congeniali. Per il Fascio scrisse, inoltre, un appello-programma, ricco di motivi dal punto di vista che qui ci interessa.
«Voi sapete – diceva – di che cosa siamo stati sempre accusati noi altri napoletani. Si è detto che non prendiamo niente sul serio, che scherziamo volentieri sui nostri doveri invece di adempierli, che ci compiacciamo di darci per peggiori di quel che siamo e di atteggiarci a indifferenti, perfino a paurosi, così per ridere, volgendo ogni cosa in allegra farsa. E qual è il significato di quest’accusa? Essa significa: difetto di volontà. Perché la volontà è passione, è amore, e prende sul serio ciò che ama, e tende al suo scopo con ogni sforzo, insofferente di riso e di scherzi dove sono in pericolo i sacri interessi del cuore». D’onde l’invito: «vorremo noi meritare di nuovo quell’accusa, che pel passato forse non fu sempre calunniosa? Vorremo mostrare, a nostra vergogna, che non sappiamo amare la nostra città?».
Sono, come si vede, i motivi che a Pescasseroli Croce aveva posto a base della sua dichiarazione di essere abruzzese: la dura, ma seria scorza di quei montanari a confronto della leggerezza e intelligenza, prontezza e allegria, ma anche della superficialità, volubilità, incostanza dei figli della grande città sul mare. E, per di più, l’accenno discreto, ma deciso alla fondatezza che le accuse ai napoletani potevano avere avuto per il passato.
Solo per il passato? La vittoria alle elezioni del 12 luglio fu del Blocco di sinistra, e la parte di Croce in quella campagna elettorale fu molto discussa. Le polemiche furono tali da spingerlo a scrivere al riguardo un articolo, che il «Giornale d’Italia» pubblicò il 16 luglio. Egli rivendicava, innanzitutto, che il Fascio avesse riscosso più di trentamila voti e che il Blocco avesse vinto solo per poche centinaia di voti in più. Non entrava nelle ragioni della vittoria della sinistra, che riteneva bene analizzate dal corrispondente del giornale a Napoli. Gli premeva, invece, di aggiungere qualcosa a quell’analisi.
«Soltanto ripeterò che non è da farsi illusioni – diceva – sull’atteggiamento politico del popolino napoletano. Questo è cangiato, se non proprio in nulla, certo assai poco e superficialmente da quel che era al tempo dei Borboni; quando guardava al Re come a protettore del “popolo basso” contro i liberali e a fornitore di viveri a vil prezzo. E poi, morto Ferdinando II e partito l’amato e rimpianto Franceschiello, esso si foggiò altri idoli che lo proteggessero in nome della democratica Sinistra contro la troppo severa amministrazione dei conservatori e moderati, ed ebbe nel cuore e nella fantasia il duca Sandonato, la cui bonaria e florida immagine si vedeva intagliata o dipinta in tutte le botteghe di maccaronai e oliandoli».
Era una diagnosi severa. Il “popolino” napoletano veniva configurato, in effetti, come una sorta di zavorra storica, che si perpetuava, pressappoco immutata, sullo sfondo della storia cittadina, e sembrava aduggiarne anche le prospettive future. Poteva essere troppo. Ad attenuare quella diagnosi Croce affermava, bensì, che «chi conosce gli stenti del popolino napoletano non vorrà solamente ridere o sorridere di queste sue povere fantasie, ma le considererà come espressione di una dolorosa condizione di fatto, sulla quale non si può trascorrere leggermente». Ma, per quanto attenuata da una particolare considerazione socio-culturale (anch’essa non si saprebbe dire quanto conforme allo spirito di Croce), la valutazione negativa del “popolino” napoletano (e quel termine era, di per se stesso, significativo) restava, e veniva, anzi, storicamente circostanziata.
Un altro tassello, insomma, di quel che si frapponeva o si contrapponeva al suo sentimento della napoletanità. A metterne in rilievo un altro, e non meno importante, tassello valse l’esperienza che Croce poté fare quando nel 1915, per l’entrata in guerra dell’Italia, il 3 maggio fu chiamato a presiedere, a Napoli, il Comitato per la preparazione civile. Anche in questo caso egli si impegnò a fondo. Il suo diario abbonda di note circa la sua partecipazione alle riunioni del Comitato, di cui era presidente effettivo, mentre il suo amico, Pasquale Del Pezzo, duca di Caianiello, professore di matematica nella locale Università, e sindaco di Napoli, che lo aveva nominato, ne era presidente onorario. I suoi sforzi sembravano dare buoni frutti. Già il 27 maggio scriveva al Gentile di essere «molto affaticato» da quella presidenza, che richiedeva «molto tempo» e dava «grande responsabilità», ma era ottimista sulla possibilità «di raccogliere un milione e mezzo o due, che basteranno ai più urgenti bisogni per cinque mesi, secondo la previsione».
Ben presto, però, le acque si intorbidarono. Il 29 maggio aveva scritto «un manifesto per annunciare alla cittadinanza il programma particolareggiato del Comitato e delle sue commissioni», ma già il 4 giugno notava: «quasi tutta la giornata è stata spesa nel Comitato. Quante insidie e quante chiacchiere! Sono spossato, perché quello non è il mio ambiente, e non è il mio mestiere». Cercò di rimanere il più possibile a quel posto per la coscienza dei doveri che sentiva al riguardo, e per «non dare esempio vergognoso di discordia civile». Si rassegnava, perciò, «a cose che in altri tempi non [avrebbe] tollerate e ora [conveniva] tollerare», date le circostanze. L’idea che si era fatta del mondo politico e amministrativo in cui si trovava a operare era nerissima: «il Comune e la Provincia sono nient’altro che organizzazioni elettorali e tutto sottomettono o cercano di sottomettere a questo fine; della patria, dei doveri umani, delle cose belle e generose s’infischiano». Ed egli si trovava, quindi, coi suoi amici, «a rappresentare tutte queste cose infischiabilissime».
È, forse, uno dei luoghi più violenti del diario nell’esprimere ira e sdegno, e il linguaggio accompagna appieno la drasticità del giudizio. Il 6 giugno il sindaco, pur convenendo con lui che «si trattava di una camorra elettorale contro un comitato di beneficenza», gli chiese le dimissioni sue e dei suoi amici, come, infatti, quel giorno stesso avvenne, dopo una riunione del consiglio di presidenza del Comitato in casa Croce. A quel punto gli fu chiesto, però, di ritirare le dimissioni già date, e dopo molte «chiacchiere, dispute, trattative», il 9 giugno le dimissioni furono ritirate. Il sindaco, però, si era intanto messo a fungere da presidente effettivo, non già solo onorario, del Comitato, «dando ordini e facendo convocazioni e imponendo criteri larghi, ossia poco scrupolosi nell’uso del danaro». Croce si trovava, quindi, del tutto esautorato, e la sua posizione, come l’11 giugno fece subito presente al prefetto di Napoli, «diventava intollerabile». Decise, perciò, di uscire dal Comitato in punta di piedi, adducendo motivi di salute per il suo ritiro. E «veramente – scriveva quel giorno nel diario – se insisto in questa sterile lotta mi ammalo». Ulteriori insistenze per farlo ancora una volta tornare sui suoi passi non ebbero esito. «Mi sento stanchissimo, incapace di lottare oltre», annotava il 13 giugno; e, per tagliare corto a ogni altro indugio, il 14 giugno se ne partì per Fiuggi, e ne tornò solo il 28.
Era stata una prova dura, per lui, oltre ogni previsione. Il sindaco aveva costituito il comitato inserendovi una serie di persone della maggioranza che governava il Comune dopo la vittoria del Blocco nel 1914, e la collaborazione con questi «bloccardi» (come li appellava Croce) si era rivelata estremamente ardua. «Il Comitato – egli aveva scritto l’8 giugno al Gentile – già funzionava assai bene in parecchie commissioni, specie per l’assistenza delle donne e dei fanciulli e pel collocamento dei disoccupati», e «le sottoscrizioni cominciavano ad affluire». Aveva riunito intorno a sé «cattolici e socialisti e moderati e repubblicani», che tutti gli erano rimasti «assai devoti, vedendo la [sua] spassionatezza e imparzialità e generosità». Tutto ciò rimaneva sospeso. Il fatto era che il Comitato era diventato l’oggetto dei disegni di speculazione amministrativa ed elettorale dei «bloccardi del municipio», i quali insinuavano pure che alle successive elezioni Croce potesse diventare sindaco di Napoli. «Come mi conoscono bene!», proseguiva Croce, e apriva, in quella lettera a Gentile, un altro interessante squarcio sulla sua dimensione napoletana: «e se avessi accarezzato un tale desiderio, non mi sarebbe stato facile soddisfarlo già nel passato, data la simpatia di cui sono circondato qui universalmente fuori della piccola cerchia dei professori universitari?».
Il bilancio che nella stessa lettera Croce tracciava di un’esperienza, che pure nasceva dalla considerazione di cui a ragione si vantava di godere nella città, era del tutto scoraggiante: «Basta. In questa tragica stagione, io mi ero proposto di sacrificare, non potendo altro, alla patria il mio tempo, il mio cervello, i miei nervi, mettendomi a capo di un’opera aliena dalle mie consuetudini, costringendomi a passar la giornata fuori casa, a udire pazientemente infinite chiacchiere, a lavorar molto per raccogliere pochi frutti di utilità generale», per cui da una ventina di giorni aveva «l’aspetto di un febbricitante» per quel «genere di vita», nuovo per lui.
A superare questo «stato di depressione nervosa e di vacuità cerebrale, da destare preoccupazione» a lui steso, scriveva ancora a Gentile il 22 giugno, valsero quei quindici giorni che passò a Fiuggi. Restava – consolidato – il suo giudizio sulla vita civile napoletana, di cui era oggetto, questa volta, non già il “popolino”, ma la classe politico-amministrativa della città. E le due esperienze si saldavano nei loro effetti sul rapporto di Croce con la sua città: all’estroversione, se così la si può definire, e alla superficialità e incostanza imputate ai napoletani a Pescasseroli si sommavano il misero polso della presenza civica del “popolino” e la parvità di tono della classe e della vita politica cittadina ampiamente denunciati nelle esperienze del 1914 e del 1915. Era ben più di una delusione. Si trattava, infatti, di sentimenti e giudizi così poco connessi soltanto alle singole occasioni che li avevano provocati da trasformarsi in elementi forti del suo giudizio storico su Napoli e i napoletani.



Il giudizio sui napoletani nella Storia del Regno di Napoli

Lo si vede, con tutta evidenza, addirittura nella Storia del Regno di Napoli, e in particolare nelle Considerazioni finali di quest’opera, unanimemente ritenuta fra le maggiori, se non la più alta prova storiografica dell’autore.
I migliori uomini politici del Mezzogiorno – egli osserva qui – restano spesso oscuri e dimenticati, e porta ad esempio Giuseppe Zurlo, benemerito ministro del Decennio francese; e «parrebbe quasi che quei nostri uomini, a compenso della poca austerità del loro popolo, fossero tanto più austeri; a compenso della grossolanità che li circondava, tanto più fini e squisiti».
Molto sottolineato è anche il giudizio negativo degli esuli dal Mezzogiorno che vi tornarono al momento dell’unificazione italiana e rimasero profondamente impressionati e delusi dal trovare un paese molto diverso da quello che essi pensavano: un paese, cioè, che, per il semplice fatto della caduta del precedente regime illiberale, non si rivelava affatto capace di un più alto tono e livello della vita civile, e non aveva per nulla liberato ed esplicato tutte le grandi potenzialità ed energie di cui era accreditato. Suo zio Silvio Spaventa – ricorda Croce – aveva scritto in quei giorni: «il lezzo e il fracidume che è qui ammorba i sensi. Non si vede né modo né verso come questo paese possa rientrare in un assetto ragionevole; pare come se i cardini dell’ordine morale siano stati sconficcati». E a questo giudizio durissimo, sul quale non fa commenti, Croce aggiunge pure che allora lo Spaventa si trovò «a combattere per primo il malanno della “camorra”, della quale fino a quei giorni era ignoto ai pubblicisti quasi lo stesso nome». Di qui – continua Croce – il nuovo atteggiamento dello Spaventa, che pure aveva sopportato una reclusione decennale per la sua opposizione ai Borboni, ma che da quella realtà meridionale in cui ritornava, tanto diversa dal ricordo e dall’immagine che se ne aveva, come se con la sua reclusione e il suo esilio e azione all’estero «avesse pagato tutto il suo debito verso di lei», si discostava ora «tra inorridito e nauseato . E se ne discostava «a segno di preferire di rappresentare alla Camera un collegio dell’alta Italia», mentre «a Napoli tornava mal volentieri, e parlava con fastidio di “quel paesaccio”, e irrideva i disegnatori di repubbliche e federazioni, perché [diceva al nipote Croce] in questo caso “voi napoletani avreste per presidente il duca di San Donato”», ossia una figura, nell’idea corrente, della deteriore napoletanità.
Erano – osserva a questo punto Croce – «esagerazioni e ingiustizie senza dubbio, mosse da malumore e che a troppe cose non avevano riguardo, ma che giova riferire». E perché giovava? E qui segue un altro passo della massima importanza per definire l’idea che egli aveva al riguardo. Giova – diceva – «affinché valgano (o forse è vana la speranza?) di remora ai buoni miei concittadini a non rendere troppo travagliata e penosa, coi loro dissidi e litigi, col loro molto dire e poco fare, con le loro accensioni di fantasia, e soprattutto col terribile loro chiacchierare e oratorizzare, la vita di coloro che prendono cura delle loro pubbliche faccende». L’esperienza personale si introduce qui direttamente nella sua considerazione. «Conosco – prosegue – qualche degna persona, già amministratore del comune, che ha per istituto di non passar mai più dinanzi alla porta di palazzo, San Giacomo, la cui sola vista le dà un tremito nervoso; e conosco qualche altro che, saggiata la baraonda, se n’è ritirato in gran fretta, sentendo impari a resistervi, non tanto le sue forze spirituali, quanto addirittura quelle fisiche». E di qui la considerazione finale: «sono cose a cui essi, i napoletani, si lasciano andare leggermente, allegramente, senza troppo pensarvi, e che considerano bazzecole; ma che poi […] “passano alla storia”, e in guisa tale da non accrescere reputazione e prestigio al loro paese».
Che non erano poi cose sostanzialmente diverse da quel che, quasi a latere della Storia del Regno, scriveva in Il paradiso abitato da diavoli (del maggio 1923, come apprendiamo dal suo diario), commentando un detto che si prestava egregiamente a simili riflessioni. Era, quel detto famoso, una delle «caratteriologie di popoli e nazioni, e giudizi morali intorno ad essi [che] si sono sempre dati e si danno ancor oggi, e una necessità mentale, e debbono avere perciò la loro verità o il loro granello di verità». E questa verità o granello di verità si rifaceva, poi pur sempre, alla fama dei napoletani come «popolo che di politica non cura o, tutt’al più, la prende a mera materia di chiacchiera, e, chiacchierandone, spesso la giudica con spregiudicato acume»; e comportava una deplorazione che «sempre si rinnoverà fino a quando alle umane società sarà necessaria una robusta vita etico-politica».
Croce consente, quindi, «per questa parte [con] l’antico proverbio italiano», e trova «che esso non ha ancora perduto la sua verità, sebbene sia uscito di moda e caduto in dimenticanza per la sua forma, che non risponde più al sentire odierno […] per quelle immagini, diventate trite e sbiadite e poco efficaci, di “paradiso” e di “diavoli”», nonché per «una lunga educazione [che] ci ha ammaestrati ormai a considerare e a trattare come storico e trasformabile e mutevole» quel che un tempo si considerava «carattere naturale e immutabile» dei popoli. Di conseguenza – è la conclusione ultima di Croce – «se ancor oggi noi accettiamo senza proteste o per nostro conto rinnoviamo in diversa forma l’antico biasimo, e se, anzi, non lasciamo che ce lo diano gli stranieri o gli altri italiani ma ce lo diamo volentieri noi a noi stessi, è perché stimiamo che esso valga da sferza e da pungolo, e concorra a mantener viva in noi la coscienze di quel che è il dover nostro».
Una “sferza”, un “pungolo”, di cui abbiamo visto quanto la sua personale esperienza della vita pubblica napoletana, oltre che gli studi e la riflessione e la sua stessa vita privata, gli facesse sentire la permanente necessità.



Una napoletanità critica

Volendo, si potrebbero raccogliere nell’epistolario e in tanti suoi testi altri elementi di questo giudizio su Napoli e darne tutte le variazioni e i complementi con cui egli lo presenta e lo svolge di volta in volta. L’essenziale resta, però, quello che si è detto. La sua napoletanità era iena e confessata. Non era, però, una passiva accettazione di tutto quel che di napoletano si sapeva e si vedeva. Era una napoletanità critica, che anche subiva il travaglio di una coscienza critica, che non sapeva e non voleva nascondersi il rovescio della medaglia napoletana. Egli ne soffriva, certamente, e ne soffriva al punto da rifugiarsi nel richiamo all’Abruzzo natio per dichiararsi estraneo del tutto a quel rovescio e per rifiutarlo, per così dire, geneticamente. Ma Napoli era sempre la sua città, ed egli ne era fin troppo consapevole, e anche per ciò dava alla sua napoletanità un contesto che ne illustra tutto lo spessore storico e culturale per cui egli si sentiva più che mai napoletano.
Lina Waterfield, che nel 1927 lo intervistava per l’inglese «Observer», gli riferiva come le fosse stato «fatto notare che [egli era riuscito] a fondere la portata europea del suo pensiero con un tenace affetto per Napoli e con tratti spiccatamente napoletani»; e gli chiedeva di spiegare «in che cosa consistesse per lui], uomo di sapere e di studi severi, questo fascino napoletano». La risposta di Croce era eloquente. «Ma, veramente, nella tradizione della cultura napoletana – diceva – ritrovavo tanto europeismo e tanto universalismo che non sentivo il bisogno di staccare me stesso recisamente dalla terra nella quale sono nato e di sradicare i miei naturali affetti, e quel sentimento che provo per questi luoghi e cose e costumanze e atteggiamenti. Ho continuato, dunque, a far quello che hanno fatto tutti i napoletani del buon vecchio tempo che hanno amato la cultura francese, inglese e tedesca senza cessare di essere italiani e napoletani. Beninteso non si è trattato di un programma e di un proposito, ma la cosa è andata naturalmente così. Leggo molti libri in molte lingue, ma mi piace anche, di tanto in tanto, parlare il mio dialetto».
Il suo dialetto napoletano, quello, che aveva tradotto in limpido italiano, del grande Giambattista Basile, e quello della poesia di Salvatore Di Giacomo, di cui egli stesso scoprì e mise in luce il valore; quello che si parlava e su udiva fra le “vetuste fabbriche” fra le quali il suo animo si faceva antico, e di cui non avvertiva soluzioni di continuità culturale con l’europeismo e l’universalismo propri della più alta tradizione occidentale. E quale distanza egli doveva percepire fra questa napoletanità e quella che egli deprecava e sentiva dannosa alla “reputazione” e al “prestigio” di Napoli e dei napoletani!
Nacque certamente anche da questa distanza la sua convinzione che l’unica «tradizione politica nell’Italia meridionale», di cui questa potesse «trarre intero vanto», era quella dei suoi «uomini di dottrina e di pensiero, i quali compierono quanto di bene si fece in questo paese, all’anima di questo paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire». Ma la genesi di questa convinzione (che porta alla chiusa fortemente retorica della Storia del Regno di Napoli: «benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l’efficacia del loro esempio!») non si capirebbe se non si tentasse di penetrare, come qui abbiamo cercato di fare, in quella che abbiamo definito “regione delicata” dello spirito di Croce, in cui alla sua piena e alta professione di napoletanità, con tutte le sue implicazioni dal piano esistenziale a quello più distaccato e riflesso del suo sentire e pensare civile e culturale, facevano da remora e da respingente le note della napoletanità che egli deprecava così chiaramente fin dal suo discorso di Pescasseroli e che nella Storia del Regno tradusse in un elemento centrale di quella sua complessiva ricostruzione e valutazione della vicenda napoletana.







Nota
I riferimenti agli scritti di Croce sono facilmente individuabili dalle indicazioni che si danno nel testo. Per il diario si vedano i Taccuini di lavoro, 6 voll., Napoli, L’Arte Tipografica, 1987 (ma: 1992), più un vol. di Indice dei nomi, ivi, 2011. Inoltre: B. CROCE, Storie e leggende napoletane (per Un angolo di Napoli); ID., Storia del Regno di Napoli; ID., Vite di avventura, di fede, di passione (per la biografia di Cola Monforte), tutti a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, rispettivamente 1990, 1992 e 1989. Per l’atto di nascita di Croce (e per altri dettagli e notizie) cfr. F. NICOLINI, Benedetto Croce, Torino, Utet, 1962, pp. 26-27. Per i ricordi elettorali del 1914 cfr. B. CROCE, Pagine sparse, vol. I, Letteratura e cultura, Napoli, Ricciardi, 1941, pp. 406-411. Per l’intervista all’«Observer» del 1927 cfr. B. CROCE, Epistolario, I, Scelta di lettere curata dall’autore. 1914-1935, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1967, pp. 135-139. Per lo scambio epistolare con Einaudi circa la nomina a senatore a vita cfr. L. EINAUDI – B. CROCE, Carteggio (1904-1953), a cura di L. Firpo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1988, pp. 128-133. Per lo scritto di Giovanni Laterza del 1926 cfr. A. POMPILIO, Le origini degli “Scrittori d’Italia” nel carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Laterza, in «Scrinia»>, 4 (2007), 3, pp. 13-23. Per la questione della doppia redazione del diario nel settembre 1913 cfr. G. SASSO, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 36-39. Per le lettere di Croce alla cugina Teresa Petroni e per altri particolari biografici e documentari si veda A. CORDESCHI, Croce e la bella Angelina. Storia di un amore, Milano, Mursia, 1994. Per Adele Rossi cfr. E. GIAMMATTEI, Qualche cosa di Adele Rossi, in Croce in Piemonte, a cura di C. Allasia, pref. di M. Guglielminetti, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, pp. 353-366. Per le lettere di Croce a Gentile cfr. B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, intr. di G. Sasso, Milano, Mondadori, 1981. Il discorso di Pescasseroli è stato ripubblicato in B. CROCE, Due paeselli d’Abruzzo. Pescasseroli e Montenerodomo, a cura del Comune di Pescasseroli e del Comune di Montenerodomo, Raiano, 1999, pp. 17-20. Per Ricordi molisani cfr. B. CROCE, Nuove pagine sparse, Serie seconda, Metodologia storiografica – Osservazioni su libri nuovi – Varietà, Napoli, Ricciardi, 1949, pp. 249-252. Per “un paradiso abitato da diavoli”, cfr. B. CROCE, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2006, pp. 11-27. Per tutta la materia di queste nostre pagine può essere un utile elemento di confronto G. GALASSO, Croce torinese e piemontese: una cronistoria e altro, in Croce in Piemonte, cit., pp. 113-150, mentre per la napoletanità di Croce si veda anche IDEM, Nota del curatore, in CROCE, Un paradiso abitato da diavoli, cit., pp. 291-315.
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