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La Germania di Tacito*
di Giuseppe Galasso
Era tornato appena da un viaggio in Oriente, dove il papa Niccolò V lo aveva inviato alla ricerca di manoscritti antichi per la Biblioteca Vaticana, l’ascolano, di modesta famiglia, Enoch (in realtà, Alberto) d’Ascoli, umanista, docente universitario a Perugia e con varie esperienze di precettore, quando lo stesso papa lo inviò, allo stesso scopo, in Germania e in Scandinavia. Ne tornò non con il più ampio testo di Tito Livio nel quale si sperava, ma con una serie di scritti di grande importanza. Fra gli altri, tornatone all’inizio di marzo del 1455, ne riportò pure le opere minori di Tacito, anch’esse finite disperse nel grande naufragio dei testi della cultura greca e romana nel disastroso tramonto del mondo antico. La Germania era una di tali opere minori, con le quali anch’essa riappariva, in un manoscritto del monastero tedesco di Hersfeld, dopo tredici secoli e mezzo da quando l’aveva scritta Tacito, nel 98. Nella prima edizione a stampa delle opere di Tacito, pubblicata a Venezia dai fratelli Vindelino e Giovanni di Spira intorno al 1470 se ne ebbe anche l’editio princeps (pp. 152a-160b).
La fortuna di Tacito era stata discontinua nell’età antica, e anche, per qualche verso, tardiva. Non così nell’età moderna, in cui a una sua fama di grande storico si è anche accompagnata una fama, talora addirittura maggiore, di pensatore e teorico politico. Nel quadro di questa sua fortuna moderna la Germania ha occupato ben presto un luogo eminente. Il che, a ben pensarci, corrisponde poi alle ragioni che non solo spinsero Tacito a scriverla, ma costituì anche il motivo dell’interesse che ad essa fu portato ai suoi tempi e fino agli ultimi tempi dell’impero di Roma.
Questo motivo erano i Germani, ossia i numerosi popoli che all’epoca di Tacito, dopo molte e varie vicende, erano scaglionati dal Mar Nero, dal Danubio e dal Reno, per gran parte dell’attuale Polonia, per tutta l’attuale Germania, la Danimarca e la Scandinavia. Alcuni di essi avevano costituito più volte una minaccia per Roma. Una disastrosa invasione di Cimbri e Teutoni fu vanificata da Gaio Mario nel 102 a. C. a Aix-en-Provence e nel 101 a Vercelli. Cinquant’anni dopo, mentre iniziava la conquista della Gallia, fu Cesare a trovarsi di fronte il popolo dei Suebi che dovette mettere in rotta e a scongiurare che una parte dei Galli fosse soggiogata da loro prima che dai Romani. E fu proprio al tempo di Cesare che specialmente si affermò la fama guerriera dei Germani, e fu da quei campi di battaglia gallici che cominciò a levarsi più forte il grido che doveva in seguito risuonare tante volte nella storia europea: Germani invincibili, e che Cesare ebbe un bel da fare per dissolverne l’effetto presso i suoi soldati e i suoi alleati gallici. Ancora Cesare fu, inoltre, il primo romano a dare nei suoi Commentarii gallici un certo profilo etnografico dei Germani stanziati presso il Reno, fra i quali condusse più di una spedizione per intimorirli e tenerli fermi al di là del grande fiume al quale erano giunte le sue legioni.
L’ombra di questa minaccia aveva poi spinto Augusto a tentare di sottomettere i popoli germanici confinanti con l’impero di Roma, per l’appunto, dalla parte del Reno. Si trattava, verosimilmente, di portare il confine romano dal Reno all’Elba. L’impresa, che sembrava bene avviata, terminò miseramente con l’eccidio di tre legioni romane nella famosa battaglia di Teutoburgo, del 14 d.C. Da allora i Romani badarono soltanto a tenere fermo il confine del Reno, entro il quale erano già compresi, nella fascia dell’attuale Germania renana, alcune popolazioni germaniche: le prime, sull’uso e sotto il magistero romano, a costruire città o fortezze militari stabili e ad abitarvi nell’età antica (Colonia, Magonza, Treviri, Bonn, Coblenza, Francoforte sul Meno, Wiesbaden).
L’ombra della minaccia che Augusto aveva tentato di sventare con una mal riuscita impresa di conquista permaneva, tuttavia, anche per le continue fluttuazioni di quei popoli, tutti ancora nomadi e, quindi, ininterrottamente sospinti e respinti da altri popoli della loro o di altra gente. La memoria dell’insuccesso augusteo e questo ribollire di agitate onde etniche attrassero, perciò, con una certa continuità l’attenzione degli scrittori romani. Prima di Tacito, e dopo di Cesare, se ne erano interessati soprattutto Aufidio Basso e Plinio il Vecchio, il grande naturalista perito nell’eruzione vesuviana del 79, che avevano trattato delle guerre dei romani in Germania. Dei loro scritti, e dei Commentarii di Cesare, da lui giudicato summus auctor, nonché di altri autori greci e latini, Tacito largamente si avvalse, quando si trovò a interessarsi specificamente dei Germani.
Ciò avvenne proprio all’inizio della sua attività di storico, che lo portò a scrivere le sue due opere maggiori. Della prima, le Historiae, che andava, a quanto pare, dal 69 al 96, c’è rimasta la parte, che va dalla morte di Nerone nel 69 alla distruzione di Gerusalemme a opera di Tito nell’anno seguente. La seconda delle sue opere maggiori, gli Annales, tratta invece del periodo anteriore, e ce n’è rimasta la parte che va dalla morte di Augusto nel 14 fino al 66, ossia fino a poco prima della morte di Nerone.
Proprio per queste due opere, scritte in seguito, Tacito si dovette interessare dei Germani, e alcuni studiosi pensano che egli abbia potuto scrivere l’opuscolo pubblicato nel 98 per alleggerire le opere maggiori dei tanti dettagli e notizie riguardanti quei popoli. Ma certo la genesi dello scritto non fu dovuta soltanto a un tale motivo di preoccupazione letteraria. Dei popoli confinanti con l’Impero Tacito aveva avuto occasione di interessarsi e sapere già per ragioni familiari. Aveva sposato la figlia di un apprezzato generale, Giulio Agricola, comandante in Britannia, dove i popoli celtici ai confini dell’Inghilterra, che proprio lui portò ai limiti della Scozia, fino ai fiumi Clyde e Forth, erano fonte per i Romani di analoghi problemi. Due anni prima della Germania, nel 96, Tacito ne aveva scritto la biografia, e da lui, certo, avrà potuto ricavare suggestioni importanti anche per il suo tema germanico.
Il problema germanico aveva ben altre dimensioni rispetto a quello britannico. Su di esso, poiché pare che nella sua carriera politica egli abbia avuto incarichi di un certo rilievo nella Germania romana e nella Gallia Belgica, informazioni ravvicinate e dove egli avrà potuto, quindi, raccogliere di persona, visto che quelle regioni erano il teatro stesso del problema dal lato romano. Ma a determinare Tacito a scrivere l’opuscolo germanico dovette certamente valere molto di più il fatto che proprio all’inizio della sua attività letteraria fra il 96 e il 98 Roma entra in una nuova grande fase della sua storia politica e civile. Con l’avvento al trono imperiale prima di Nerva nel 96 e poi di Traiano nel 98, parve subito che Roma si riprendesse dal precedente periodo che era finito, specie sotto il predecessore di Nerva, ossia Domiziano, con l’apparire come epoca di crisi della potenza e di oppressione della libertà romana. Ora sembrava che da questa fase si uscisse. All’attesa risposero i fatti. Traiano fu definito optimum princeps per il suo governo, che apparve liberalmoderato, e con lui riprese anche la grande politica imperiale di conquista. Sembrava che questa politica dovesse o potesse riguardare anche la Germania. Ecco perché, in effetti, la composizione dell’opuscolo germanico, così come la genesi di tutto l’interesse storiografico di Tacito, viene ritenuta in rapporto anche con questa congiuntura politica. Poi Traiano si volse in tutt’altra direzione: verso il Danubio, con la sottomissione della Dacia, e verso l’Oriente, con la conquista della Mesopotamia.
Una serie di motivi di varia natura e di non trascurabile rilievo spinse, dunque, Tacito a redigere il suo opuscolo del 98, conosciuto come Germania, ma il cui titolo più proprio sembra essere stato, piuttosto, De situ et origine Germanorum, riferendosi, quindi, all’origine e alla posizione geografica (che nell’intento di Tacito voleva dire geo-politica) del loro paese. Il ritratto che di quei popoli ne risulta insiste su alcuni tratti fondamentali, che si possono riassumere in una accentuata idealizzazione: omogeneità etnica, purezza di costumi e di vita e sanità fisica e morale, lealtà e fedeltà, valore guerriero fuori del comune, grande tolleranza di un clima assai freddo e delle difficili condizioni di vita e alimentari che ne conseguono, popolazione numerosissima e grande prestanza fisica, istituzioni politiche e civili estremamente semplici e libere, religione non senza superstizioni ma altrettanto semplice nel suo fondamento naturalistico rudezza di abbigliamento e di ornamenti, grande disprezzo della ricchezza e di ori e argento, le donne partecipi della durezza della vita e sempre al seguito delle imprese di caccia e di guerra dei loro uomini, semplicità dei costumi sessuali, condanna rigorosa dell’adulterio e dell’omosessualità, altri analoghi tratti di una barbarie da guardare non solo con attenzione, ma anche con grande ammirazione.
Non che tacito ignori i lati negativi di questa condizione: grande propensione all’ubriachezza e alle risse, nessun amore del lavoro al quale sono destinati solo i vecchi e le donne, preferenza per il procurarsi con le armi (guerra e caccia) ciò che la civiltà fa guadagnare col lavoro, renitenza alla disciplina della vita civile, irriconciliabili discordie fra i diversi popoli e tribù, nessun uso di civiltà urbana, la rovinosa passione per il gioco dei dadi, la crudeltà e altri varii elementi sfavorevoli. Ma questi certo non sono per lui elementi tali da dissolvere o attenuare di molto il quadro generale da lui composto, e, soprattutto, l’ombra minacciosa che una tale massa di uomini faceva gravare sull’impero dal Reno al Danubio, tanto da spingere Tacito a dichiarare che per Roma era da sperare per il futuro che le discordie intestine dei Germani valessero a distrarli dal mirare all’Impero ancor più di quanto potessero fare le armi di Roma: un auspicio che si lega ad altri accenni, nell’opera di Tacito, al fatum Imperii fine fatale dell’Impero, quando che fosse.
Erano tutti attendibili i dati che Tacito faceva presenti? Per le conoscenze e per i criteri di studio del tempo lo si può anche dire, non senza, peraltro, che varii inconvenienti siano ugualmente presenti. Così, pare che a volte l’autore confonda qualcosa di gallico con qualcosa di germanico; che qualche parte del germanesimo da lui considerato gli sfugga, come accade col nucleo fondamentale dei popoli gotici; pur a giorno della molteplicità conflittuale dei popoli germanici, ne dà, in fondo, una rappresentazione troppo unitaria, come di un complesso etnico organico e di genti. Inoltre, la descrizione tacitiana, per una ben comprensibile necessità di cose, romanizza al massimo i termini usati per far sì che si capisse bene a Roma di che cosa si parlasse, come accade in particolare per la religione, sicché per molti aspetti ci troviamo di fronte a una interpretazione prettamente romana del mondo germanico.
Con tutto ciò, la Germania è stata nell’età moderna il fondamento da cui è partita la filologia germanica, della quale continua a costituire un punto di riferimento ineludibile. Ma la sua importanza va ben oltre questo piano. Si è detto della preoccupazione politica insita nell’opera, resa ancor più esplicita da considerazioni molto significative che si incontrano nel testo. Così, si dice, la selvaggia libertà dei Germani è molto più pericolosa per l’Impero che non l’enorme potenza orientale dei Parti, l’altro nemico storico, che Roma non era mai riuscita a piegare. Così, si riflette sul fatto che Roma guerreggia coi Germani dal tempo dei Cimbri e dei Teutoni, ossia da oltre due secoli senza sottometterli, e ciò fa capire quanto tempo ci voglia per vincerli.
Altro aspetto preminente è che l’esaltazione della forza guerriera e della purezza morale dei Germani appare messa implicitamente in contrasto con la devastante corruzione e una sorta di iniziale decrepitezza fisica e morale del mondo romano. E il contrasto dovrebbe suonare, secondo il parere dominante di pressoché tutti gli studiosi di Tacito, di rivelazione e di ammonimento ai Romani del baratro al quale rischiano di portarli i loro costumi, cosi diversi o opposti rispetto al modo di vivere e di agire di quei barbari generosi. Non c’entra niente qui una qualche vena romantica per buoni selvaggi o virtuosi primitivi viventi in un ambiente naturale duro, ma suggestivo, che si può pure rintracciare, anche con suggestiva espressione letteraria, nel testo tacitiano. Se l’intento oratorio ed esortatorio ai Romani sembra facilmente e fortemente supponibile, esso va colto, però, nel suo vero significato, che qui si è cercato di illustrare, di una, per così dire, operazione politico-culturale legata a un preciso programma di attività letteraria e a una valutazione complessa, ma sufficientemente chiara dei problemi storico-politici dell’Impero sia all’inizio di una nuova fase politica, sia in più lontana prospettiva.
È su questi fondamenti che si è basata la larga fortuna, a cui abbiamo accennato, dell’opera nell’età moderna, nel quadro della grande fortuna di Tacito, anche come pensatore politico, per cui si può parlare, specie per l’Europa della Controriforma di un vero e proprio “tacitismo”, come corrente di pensiero ispirata a una visione realistica, dura e di ampio raggio della politica e dei suoi principii (tanto da richiamare o criptare il Machiavelli), nonché a una critica dei regimi repubblicani e imperiali, liberi e tirannici, e a una certa visione dei problemi degli imperi. Per la Germania questa fortuna moderna divenne poi di ben maggiore rilievo da quando alla fine del ’700 si cominciò a fare dell’opuscolo tacitiano il punto di partenza delle ideologie della “pura razza”, della razza superiore, dell’illimitato nazionalismo e imperialismo germanico che in alcuni dei suoi aspetti peggiori culminò nella vicenda del Terzo Reich.
Incolpevoli, naturalmente, Tacito e la sua Germania di questo deragliamento di un testo che, di per sé, non solo fu scritto con tutto lo scrupolo possibile all’autore di documentazione e di riflessione, e rispondendo a una sollecitazione storica e politica reale quanto consistente, ma anche con una felicità di composizione e di espressione letteraria non indegna della grande prosa delle opere maggiori, che a Tacito hanno meritato un luogo indiscutibile nel canone dei grandi scrittori dell’antichità.




NOTE
* Si riproduce qui il testo della introduzione a Tacito, La Germania, ed. BUR - Corriere della Sera, Milano 2012.^
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