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Mussolini l'anticittadino
di Paul Corner
Il volume di Michele Dau raccoglie un lavoro molto ricco [Mussolini l’anticittadino, Castelvecchi editore, Roma, 2012] perché contiene tanti diversi aspetti: comprende la storia politica, la storia dell’amministrazione, un capitolo che riguarda la letteratura, riflessioni sull’urbanistica e sull’architettura fascista. Presentando così numerosi argomenti avrebbe potuto risultare frammentato e poco coeso; invece il volume è concepito e strutturato in modo da creare un bell’intreccio, in cui i vari filoni vengono rapportati l’uno all’altro con grande acume. Inoltre, voglio aggiungere, il libro è molto leggibile, scritto in un modo chiaro e dinamico che porta il lettore molto volentieri lungo il percorso dell’autore.
Muovo la mia riflessione dal titolo che, a giudicare dal contenuto del volume, deve essere inteso in due modi. Il primo è quello di Mussolini contro la città, cioè il ruralismo del fascismo. Il secondo significato è Mussolini contro il cittadino, Mussolini che non rispetta i diritti del cittadino, che non riconosce la città come centro trainante della società, che non fa funzionare la città come dovrebbe. Naturalmente qui considero Mussolini come modo abbreviato per dire “il fascismo”.
Con riferimento al primo aspetto, Michele Dau ha fatto qualcosa di molto interessante, ed anche insolito. Ha messo al centro del suo discorso le politiche antiurbane del fascismo. Non ha bisogno di forzare l’evidenza; basta ricordare le parole del Duce «bisogna ruralizzare l’Italia, anche se ci vuole 100 anni per farlo». La bonifica integrale, la battaglia del grano: sono politiche che parlano della grande importanza dell’agricoltura e della ruralità per il regime. La ruralità fu uno dei pilastri della propaganda del regime. E, indubbiamente, il regime riuscì a guadagnare molto da queste politiche in termini di consenso. Il mondo contadino, che nel contesto di un paese in via di industrializzazione, si era sentito spesso trascurato, reagì positivamente a questo tipo di propaganda. Era un forte riconoscimento del ruolo, dell’importanza dell’agricoltura, e quindi della funzione dell’agricoltore: un riconoscimento che non era stato accordato dai governi precedenti. Il Duce a torso nudo che miete il grano offrì un immagine molto potente per l’epoca. Non si riesce ad immaginare Giovanni Giolitti ritratto nello stesso modo!
L’autore ha anche ragione ad insistere in questo contesto sull’importanza della campagna demografica e sul legame fra ruralità e famiglie numerose. Agli occhi di molti osservatori, la vita cittadina sembrava rallentare la crescita della popolazione e quindi, secondo la logica del fascismo, poteva indebolire l’Italia. E il fascismo imperialista dalla nascita, come ricordava spesso Mussolini aveva bisogno di soldati; basti pensare, in questo contesto, ai discorsi sugli otto milioni di baionette. Quindi anche la campagna demografica serviva a giustificare il progetto di ruralizzazione.
Michele Dau propone un’interpretazione anti-città, contro l’urbanesimo, a tutto questo. Cita molti e diversi autori fascisti che denunciavano apertamente gli orrori della città industriale e che cantavano le lodi del rude contadino e della sua famiglia numerosa, predicando lo sfollamento delle città. E qui, implicitamente, viene riproposta la questione, molto dibattuta, di un fascismo modernizzatore o di un fascismo che voleva portare indietro le lancette dell’orologio dello sviluppo pur di mantenere i rapporti sociali per certi versi pre-industriali. Ora, per quanto riguarda i rapporti sociali, una cosa è sicura: il regime non mirava alla realizzazione di una rivoluzione sociale. Gerarchia, ognuno al suo posto: questa era una delle idee chiave del fascismo; e anche questo sembra accreditare l’idea di un fascismo fondamentalmente conservatore, di ispirazione ruralista in quanto la ruralità serviva a garantire la stabilità sociale.
Ma, dal mio punto di vista, non bisogna spingere il ragionamento oltre un certo punto; ci sono altri aspetti che non vanno trascurati – e che non sono tralasciati qui – se mai è più una questione di enfasi. Quando il prefetto di Torino, nel 1929, mandò al comune di origine quasi 5000 disoccupati e disoccupate, come era il suo diritto con le leggi contro l’immigrazione interna, non lo fece certamente per stimolare la procreazione rurale. Agiva piuttosto in maniera del tutto normale per un prefetto dello stato italiano anche prima del fascismo, cioè trattava gravi problemi sociali come se fossero semplicemente problemi di ordine pubblico. I disoccupati costituivano una seria minaccia nelle grandi città; venivano pertanto rispediti al paese di origine dove, molto spesso, la disoccupazione era ancora più alta di quella dei centri metropolitani, perché si facevano sentire anche gli effetti della prima meccanizzazione agricola, ma dove manifestazioni di scontento erano più facilmente controllate.
Questo per dire che forse il discorso della ruralizzazione, dell’anti-urbanesimo, va visto in un contesto più ampio, guardando non solo all’ideologia ma anche a certe questioni pratiche. In primo luogo c’era la questione del controllo sociale, sempre più importante del regime. Poi vi era il fenomeno di un paese che si stava industrializzando lentamente (erano anni di crisi), con un tipo di industria che, troppo spesso, non creava molti posti di lavoro. Il regime si trovava così di fronte a seri problemi per quanto riguardava il mantenimento dell’equilibrio sociale, che in parte era anche l’equilibrio fra mondo rurale mondo urbano. Per certi versi, a mio avviso, le politiche della ruralizzazione coprivano una realtà economica molto difficile, dove era necessario rallentare certi processi di urbanizzazione e non assecondare o stimolare troppo le attese della popolazione rispetto alla modernizzazione e al mondo dei consumi. La propaganda sulla ruralizzazione faceva parte di questa politica. Rispondeva al fatto che uno dei problemi che il fascismo doveva affrontare era la difficoltà di realizzare uno sviluppo economico senza mettere a rischio gli equilibri sociali che il regime voleva mantenere e garantire. Quindi sviluppo economico senza sconvolgimenti sociali: un po’ il tentativo di fare la frittata senza rompere le uova. Che il fascismo fosse veramente, in modo radicale, contro l’industrializzazione (e quindi anche anti-città) mi sembra difficile da sostenere fino in fondo. Mussolini non era un Pol Pot ante-litteram. C’era Volpi di Misurata nel governo. Accanto a Mussolini c’erano Giorgio Cini, Giorgio Falck, Alberto Pirelli, Giovanni Agnelli: tutti industriali molto vicini al regime. È poi interessante guardare agli enormi flussi di denaro che andavano dalle Casse di risparmio rurali, cioè dall’agricoltura verso l’industria, attraverso l’IMI e l’IRI, per mettere in dubbio una tesi del genere. Industria voleva dire fabbrica e fabbrica voleva dire città. Dopotutto, nel suo proseguimento della politica di potenza (di grande potenza), il fascismo aveva bisogno di qualcuno che fabbricasse quegli “otto milioni di baionette”. Ma l’importante era mantenere il controllo completo di quel processo.
Comunque la questione è interessante. Dau mette il dito giustamente su un aspetto del fascismo, che è quello per cui le politiche espresse erano spesso in contraddizione fra di loro, c’era un mancanza di coerenza in queste politiche. L’ordine “tutti in campagna” chiaramente si scontrava con la politica di potenza del regime, ma in qualche modo i fascisti riuscivano a riconciliare le due politiche nel loro pensiero.
Per quanto riguarda il secondo aspetto – quello di un Mussolini anti-cittadino nel senso di un fascismo che non rispettava la città come motore dinamico e trainante della società in modo particolare in Italia), come punto di generazione e luogo di espressione di quei valori civici che caratterizzano la sfera pubblica (si pensi a Habermas e alla pubblica piazza come l’agorà della vita civica) Dau indubbiamente segnala uno dei grossi paradossi del fascismo. Nessuno usava la piazza più del fascismo, le manifestazioni e le adunate erano all’ordine del giorno, come testimoniano tanti film dell’Istituto Luce. C’era una partecipazione massiccia della gente alle feste fasciste, ma Dau coglie giustamente il fatto che la partecipazione era piuttosto quella del coro in una tragedia greca: la folla risponde ma non propone. Le sezioni del volume che parlano del ruolo del podestà nelle varie province sono molto belle, illustrano molto bene questo processo; mettono in evidenza, al di là di ogni dubbio, il cattivo funzionamento della macchina amministrativa fascista. Missione del podestà doveva essere quella di sostituire la sfera pubblica, in un certo senso, di risolvere le divisioni fra le persone ed evitare dissidi e beghe locali. Ma non funzionò così. Qui ci sono diversi aspetti della questione messi in rilievo da Dau che ho trovato di particolare interesse. Il primo è quello della difficoltà sperimentata dal regime in tante province nel trovare persone fasciste di qualità sufficiente per svolgere in modo decente il lavoro di amministrazione. Il podestà era scelto dal prefetto e il prefetto aveva istruzioni di selezionare persone competenti e di fede fascista. Ma molto spesso il prefetto si trovava nella posizione di dover decidere fra questi due criteri, ed era quasi obbligato dal regime a scegliere la persona ritenuta più affidabile politicamente. Il criterio politico era quello determinante, non certo quello della competenza. Di conseguenza, le persone reclutate erano molto spesso incompetenti ed anche peggio, come vedremo fra un attimo. Perché persone più abili non erano disponibili? I prefetti davano una loro spiegazione: si lamentavano molto spesso che le persone abili dell’ambiente locale non volevano prestarsi al servizio pubblico. Nel 1933 un prefetto scriveva: «si sono allontanati dal Fascismo tutti gli elementi più capaci della città! Le persone capaci di amministrare non vogliono servire». Dalle pagine di Michele Dau si capisce molto bene il perché di questo spontaneo allontanamento dal regime, e la spiegazione è molto semplice. Negli anni ’30, soprattutto nella seconda parte del decennio, fra la popolazione il fascismo provinciale godeva di una gran brutta fama: chi lo conosceva lo evitava. In molte province, appena i prefetti abbandonavano i ranghi dei notabili locali (spesso afascisti) per affidarsi a persone più chiaramente identificate con il regime – cioè ai vecchi squadristi, ad esempio le cose andavano male. E, come conseguenza ed è questo il discorso di Dau le città non funzionavano come avrebbero dovuto.
La questione riguardava non solo il comportamento dei podestà ma anche – e forse soprattutto – quello dei federali e degli altri gerarchi locali. Dau parla poco dell’operato del Partito nazionale fascista nelle sue città, ma c’era un comportamento del tutto analogo a quello dei podestà – forse addirittura peggio – da parte dei federali. Ci si muoveva fra la semplice incompetenza (“una persona rozza e modesta” è la descrizione preferita da molti prefetti quando devono parlare del federale della loro provincia), fra l’arroganza e l’esibizionismo (le “divise napoleoniche” dei federali venivano notate, e ridicolizzate, in molte province), fra le violenze e la brutalità (di un antifascista ucciso, scriveva orgogliosamente un federale al capo del Partito, «l’abbiamo sistemato nel modo nostro»). E, last but not least, ci si muoveva tra la corruzione e il malaffare (che erano denunciati dappertutto). Le pagine in Dau sono sufficienti per eliminare ogni dubbio sulla corruzione generalizzata fra la classe politica fascista per quanto riguarda i podestà; non sarebbe difficile documentare un discorso analogo per quanto riguarda i federali. E le accuse erano sempre le stesse, è una lista lunga: arroganza, favoritismi, nepotismo, concussione, cumulo di incarichi, rapidissimo arricchimento, immoralità. I documenti di Dau parlano di federali che frequentavano soubrette di rivista; nei documenti che ho visto io si usavano altre parole per le donne che partecipavano alle feste dei gerarchi provinciali. Anche se le accuse devono essere a volte prese cum granum salis, perché anche gli accusatori erano spesso interessati, l’evidenza di un quasi abituale abuso di potere da parte dei gerarchi fascisti è schiacciante. Ed è qui che vediamo un fascismo anticittadino, un fascismo che distrugge il tessuto civile della città.
L’evidenza documentaria di questo tipo serve certamente ad indicare la necessità di qualificare alcuni discorsi sul consenso di massa per il regime, in modo particolare per gli ultimi anni ’30. Non ce l’ho con Renzo De Felice che sostiene la stessa tesi per l’ultima parte di quel periodo. Il volume di Dau dimostra come il sentimento popolare, ma spesso anche il sentimento di molti fascisti, fosse tutt’altro che entusiasta rispetto ai modi di comportamento dei podestà e dei gerarchi: ufficiali pubblici che avevano responsabilità per la gestione del regime al livello provinciale ma che dimostravano ripetutamente di non aver nessun rispetto per i cittadini. Dau non lascia nessun dubbio su questo, e al fatto che il fallimento del fascismo nel realizzare le sue ambizioni di trasformazione sociale possa essere anche legato al modo in cui il regime usava il potere al livello provinciale.
E si potrebbe fermare il discorso lì: siamo di fronte a fascisti corrotti, abituati ad abusare delle loro posizioni per vantaggio personale, fascisti che minano gravemente la reputazione del regime e quindi ne intaccano seriamente il consenso. Ormai è storia. Ma qualcos’altro mi ha colpito, qualcosa che forse può giustificare, in conclusione, una riflessione più ampia, proprio stimolata da questo volume. Ho visto con stupore, a pagina 177 del volume, la storia dell’Albergo Popolare di Milano e delle malversazioni, delle sottrazioni, degli illeciti, da parte di quelli che dirigevano l’Albergo. Ad esempio, si erano auto-attribuiti, contravvenendo lo statuto dell’Istituto, 25.000 lire all’anno come stipendio. Soldi pubblici! Ora non bisogna riflettere molto per arrivare, da lui, alla storia del Pio Albergo Trivulzio, sempre a Milano, e a Mario Chiesa del 1992. E da qui si potrebbe passare senza troppa fantasia, alle accuse di malgoverno, finora senza verifica, fatte agli amministratori di un ricovero analogo, sempre a Milano, nei giorni recenti. Una strana coincidenza? Gli alberghi dei poveri di Milano sono sfortunati? O si può identificare un modello di comportamento che si ripete? Qui ci vuole un po’ di cautela. Il presidente Monti ha detto di recente che non dobbiamo generalizzare: non tutti i politici, non tutti gli amministratori sono corrotti. Indubbiamente ha ragione. Condannando tutti in modo indiscriminato, si rischia di buttare via il bel bambino della politica insieme con l’acqua sporca. Ma se poi si considera che, negli anni ’30, non so se Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo lo sanno, l’espressione utilizzata spesso dalla gente nei confronti dei gerarchi fascisti era “la nuova casta”, viene da pensare che alcuni confronti possano essere giustificati. Come documenta Dau, anche allora la gente gridava “Basta! Basta! Basta!” È legittimo, mi pare, identificare un filone che sembra quasi una costante nei comportamenti di alcuni che gestiscono il potere politico in Italia. In effetti, il volume di Dau ci riporta ancora una volta al vecchio problema del modo in cui il potere viene usato si dovrebbe dire troppo spesso abusato in Italia; il che, a sua volta, ripropone il problema che sta al centro di tutti questi comportamenti, cioè il rapporto fra pubblico e privato, fra individuo e collettività (si può declinare in tanti modi ma si arriva sempre allo stesso punto). Sembra che, troppo spesso, ciò che si persegue quando si arriva al potere è il vantaggio personale, non l’interesse collettivo. Qui potrei chiamare in appoggio una considerazione di Giuseppe De Rita, che spesso ha affermato che «per l’italiano medio, gli altri non esistono». Quindi ciò che è pubblico non esiste, non è di conseguenza; esiste solo ciò che è privato. Margaret Thatcher diceva che in Gran Bretagna «la società non esiste, esistono solo gli individui», ma forse è una descrizione che si addice meglio all’Italia.
Certo, qui abbiamo un bel libro, un libro veramente molto ricco, sul fascismo, cioè su un momento specifico della storia d’Italia, ma il contenuto del volume, messo a confronto con alcuni altri momenti della storia d’Italia, anche più recenti, dovrebbe far riflettere molto.
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