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Il partito socialista e la “guerra fredda”
di Elena Savino
Giovanni Scirocco sulla base di una vasta documentazione e la rilettura della stampa coeva affronta in questo libro [Politique d’abord. Il Psi, la guerra fredda e la politica internazionale (1948-1957) Milano, Edizioni Unicopli, 2010] il periodo forse più controverso del socialismo: dal 1948 al 1957, l’anno della svolta che portava alla riunificazione di una parte del mondo socialista, il quale, diviso già all’indomani della guerra, aveva continuato a discutere incessantemente intorno alla sua identità e alla sua collocazione sul piano interno e internazionale.
Il dramma del socialismo – la sua divisione e la impossibile ricomposizione – ha un principio: quello della frattura di Palazzo Barberini consumatasi nel gennaio 1947; e bene fa Scirocco a mettere all’inizio del suo racconto il giudizio controcorrente di Franco Malfatti, che minimizzando le ottime ragioni di Saragat, avvertiva le conseguenze durissime sul mondo socialista di quella drammatica scissione. La storiografia saragattiana ci ha insegnato che quel divorzio era necessario per dare al socialismo democratico una casa; esso tuttavia aggravava l’isolamento del Psi, peraltro preannunciato nel 1946, quando Clement Attlee rifiuta di vedere Nenni in visita a Londra. Si sarebbe forse dovuto cominciare a dipanare la complessa matassa da quell’anno decisivo, anche se bisogna dire che i maggiori nodi del dopoguerra vengono ripescati e affrontati da Scirocco nel corso del racconto. Nenni è il grande protagonista del libro: con il suo “spirito romanticamente rivoluzionario”, con il suo “socialismo giacobino” e il passato di resistente di lungo corso.
Creatore di fortunati slogans, regista della politica del Psi per oltre un decennio, ostinato custode dell’unità della classe operaia, Nenni sembra muoversi in un coacervo di contraddizioni e ciò che dice in pubblico è spesso diverso da quanto confida nei Diari. I contrasti e i chiaroscuri della sua politica sono molti e primo fra tutti quello che riguarda l’asserita importanza della politica estera e la condotta che ne deriva. Nenni non sa giudicare le conseguenze della divisione manichea del mondo e non sa trarre alcun vantaggio o ammaestramento dalle analisi degli scenari internazionali. Naviga tra i flutti di un estremismo ideologico condito di miti e idee obsolete, come “la crisi secolare del capitalismo”, che aveva evocato Treves trenta anni prima; o la volontà pacifista di Stalin contro la vocazione imperialista degli Stati Uniti, o ancora l’edificazione di un mondo nuovo nella Russia sovietica.
Nenni appare l’idealista ottocentesco che non tiene in cale la realtà che ha intorno. E tuttavia sorprendono certi ingenui giudizi proprio in merito alla situazione internazionale, come nel 1953, quando ancora guardava alla politica di Yalta e Potsdam come ad un onorevole compromesso dal quale bisognava ripartire, non avvedendosi che la spartizione del mondo, la politica delle alleanze bellicose era iniziata proprio in quegli incontri, che avevano ricalcato prima ancora che la guerra fosse finita la logica della divisione tra potenze egemoni, come nell’Europa dopo il ciclone napoleonico, quando a Vienna le dinastie dell’Europa claudicanti avevano disegnato d’autorità i nuovi equilibri del vecchio continente.
Nel 1946 il mondo ancora febbricitante non era capace di distinguere i contorni del nuovo ordine. Nenni rivendicava una politica estera «non ispirata a preoccupazioni di parte o a considerazioni puramente ideologiche», ma poi invocava le ragioni di una parte con dichiarazioni di pura propaganda ideologica, tracciando attraverso un decennio il disegno della stucchevole agiografia staliniana. Ed è ancora sui temi di politica estera che Nenni scivola in oscillazioni e contraddizioni inconcludenti, per esempio sul problema delle colonie, per le quali scomoda ad un certo punto l’idea sollevata al tempo dell’impresa libica del collocamento della eccedenza di manodopera sul territorio nazionale. Anche sulla questione di Trieste, come ministro degli Esteri, non coglie l’occasione di ottenere che fossero riviste le condizioni durissime imposte dagli Alleati ai nostri confini orientali. Scirocco non nasconde le incoerenze della condotta di Nenni, ma nemmeno le enfatizza, piuttosto le suggerisce attraverso citazioni di grande interesse e con aristocratico garbo lascia al lettore il giudizio impietoso che emerge dalla lettura attenta del suo libro1.
La politique d’abord di Nenni in questi anni appare a ben vedere inesistente, dal momento che le decisioni del leader socialista sono condizionate dal parametro ideologico e dall’alleanza forzosa con l’Unione sovietica che annulla ogni possibilità di una condotta politica autonoma. La consapevolezza del peso delle relazioni internazionali sugli affari interni degli Stati non impedisce a Nenni di camminare fuori dalla storia dell’Occidente democratico per legarsi a un impero autoritario e imperialista: posizione del resto puramente platonica, senza alcuna conseguenza. La scelta neutralista di Nenni nel dopoguerra era un esercizio teorico, che scivolava dopo il 1948 nel pacifismo filosovietico: anch’esso una chimera nelle condizioni della guerra fredda che si erano ormai consolidate e che davano luogo all’alleanza militare del Patto atlantico sotto l’egida statunitense e sei anni dopo, nel 1955, a quella del Patto di Varsavia guidato dall’Urss (con un ritardo significativo, possibile grazie al pugno di ferro che Stalin usava nei paesi satelliti)2.
La guerra fredda sospingeva i socialisti verso Oriente. Nenni smetteva di credere alla praticabilità di una politica neutralista e si acconciava ad occupare suo malgrado l’angolo buio della scelta filosovietica accanto al Pci, con la conseguenza del necessario, duro rifiuto della Nato. Una posizione che teneva divisi i socialisti, mentre piccole e grandi emorragie di militanti erodevano il partito. Nel discorso al Congresso del Psi del gennaio 1948, uno dei più drammatici e controversi, Nenni riferendosi all’alleanza con l’America aveva evocato il cappio del condannato: non vedeva che un altro cappio stringeva il collo del Partito socialista alleato dell’Urss. L’opposizione al Piano Marshall, che era un tassello della politica filosovietica del partito, aveva infatti portato con sé un altro rifiuto, quello della federazione europea, il sogno alato della Resistenza, che gli americani avevano sostenuto attraverso gli aiuti all’economia del vecchio continente, secondo il disegno lungimirante di George Marshall.
Nenni fiutava il cambiamento intorno al 1953 e iniziava la difficile ricomposizione del mondo socialista. Si tratta ancora di un timido ravvedimento che deve fare i conti con la sinistra del partito. La strada che imbocca è lunghissima. La cauta revisione delle passate posizioni implicava l’autocritica e – nota Scirocco – il nuovo corso appare caratterizzato da «una serie di posizioni oscillanti e contraddittorie» (p. 139). Sarà il Rapporto Krusciov nel 1956 a dare una significativa accelerazione al passo incerto di Nenni, il quale, con la lucidità che gli era mancata negli anni precedenti, afferma che il Rapporto «pone in discussione non solo Stalin, ma il sistema sovietico, lo Stato, il partito in sé e per sé, la Terza internazionale, pone in discussione lo stesso Lenin» (p. 178).
Nel 1956 Nenni si trovava ad affrontare una situazione veramente difficilissima: l’unificazione socialista e l’approdo alla socialdemocrazia, che lui stesso aveva insegnato a guardare con diffidenza, dovevano essere fatte salvando l’unità della classe operaia, il legame col Partito comunista, gli interessi dei lavoratori (le cooperative gestite in comune con il Pci), e questo nell’ambito della riaffermazione delle affinità ideologiche tra socialismo e comunismo. E così, benché con molto coraggio avesse dato avvio all’autocritica, benché avesse dichiarato che le trasformazioni necessarie alla classe operaia dovessero avvenire nella democrazia e benché avesse chiara coscienza dell’enorme portata degli sviluppi del Rapporto Krusciov sul piano interno e internazionale, Nenni risultava ondivago, tentennava, aveva paura di uscire dalla storia3. La sua indeterminatezza era inevitabile e mentre apriva a Saragat era costretto a rabbonire Togliatti sulla volontà di non rompere con il Pci.
Scirocco evoca con rigore anche la ostinata solitudine nel partito dei generali socialisti, Tullio Vecchietti, Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Emilio Lussu, Oreste Lizzadri, che avevano paura di tradire Marx, di allontanarsi dal classismo, di lasciarsi dietro le spalle i rapporti col Pci, di essere contaminati dal riformismo borghese. Il costume della discussione platonica non aveva mai smesso di guidare le scelte dei socialisti e in effetti, come scrive Sabbatucci, il dibattito aperto sulle pagine di «Mondo Operaio» e «Avanti!», sulla concezione dello Stato e sulla democrazia, dà «un’impressione complessiva di reticenza, di prudenza e, quel che è peggio, di clamorosa inadeguatezza rispetto alla tragica gravità di quanto era venuto alla luce»4. Nenni venti anni dopo il Congresso di Venezia, che aveva segnato ufficialmente la svolta sebbene in modo contraddittorio5, dichiarava candidamente che con quel Congresso avevano «ristabilito il carattere umanistico, libertario, egualitario del socialismo tradizionale», quello – aggiungiamo noi – che per un decennio aveva contraddetto, calpestato, ignorato. Nei mesi della tormentata svolta Nenni riscopriva il legame storico originario del socialismo con la democrazia e con candore affermava di credere alla «unità inscindibile tra socialismo e libertà».
La politica di Nenni è stata gravida di errori e di scelte discutibili che determinano la lunga crisi del socialismo lungo un decennio, ma le conseguenze della condotta di Nenni sono state pesantissime anche per la democrazia in Italia, alla quale sono venute a mancare per molti anni ingenti forze riformiste sostenute da un elettorato autenticamente democratico portatore di ideali non effimeri. Nenni con la politica del Fronte ha sottratto i socialisti al gioco politico, poiché anche per il Psi è stata operante la conventio ad escludendum che colpiva i compagni comunisti. Anche la causa del proletariato ne ha sofferto, avendo Nenni identificato almeno fino all’inizio degli anni ’50, gli interessi della classe operaia italiana con quelli dell’Urss. E che dire dell’indottrinamento allestito dai fogli ufficiali, che ha condizionato a lungo la mentalità del proletariato in Italia, fiducioso come in Russia nelle opere benefiche e meritorie del piccolo padre e sicuro della natura perniciosa del riformismo6?
Occorrerebbe poi in questa sommaria ricognizione sul primo decennio repubblicano, considerare anche l’emorragia del Psi e le divisioni profonde che ne hanno segnato la vita interna e che hanno lacerato il tessuto del partito non solo al vertice, ma anche alla base.
Sul conto di Nenni va dunque ascritta la voce dell’abbandono della tradizione riformista nel periodo cruciale della rifondazione dello Stato e della democrazia7. La sua ostinazione filosovietica ha condannano il Psi a un isolamento penoso e inconcludente: almeno fino al 1966 dice Scirocco, allungando un po’ il periodo della solitudine dei socialisti che aveva cominciato a diradarsi qualche anno prima, come conseguenza delle prospettive internazionali e di politica interna aperte dal Rapporto Krusciov. Scirocco con Scoppola scrive che nel clima del decennio seguito alla Liberazione ha «scarso significato rimproverare alla sinistra italiana di essere storicamente se stessa e cioè radicata nella tradizione leninista, giacobina o anticlericale»8. Eppure non era illegittimo o anacronistico chiedere ai capi socialisti un’evoluzione e un’emancipazione che i partiti fratelli in Europa avevano iniziato da tempo. Sappiamo storicizzare, come conviene a chiunque si occupi di storia, ma pure risulta la futilità dei socialisti che per un decennio si sono accapigliati intorno alla questione dell’alleanza con l’Urss, la loro lealtà verso un alleato sleale.
Lombardi, il più tenace tra i dissenzienti, colui che ispirerà obbiettivi e progetti dell’autonomia socialista e del centrosinistra, emergeva con il suo bagaglio di sapienza e di saggezza nel mezzo di una gran confusione di posizioni teoriche rappresentate dalle figure maggiori del socialismo: Morandi, Jacometti, Pertini, Basso e non ultimo Nenni, che continuava ad avere con sé una base ingessata nei miti dell’ideologia marxista e romanticamente avvinta alla Russia sovietica. Questa base, che pur provava una certa diffidenza verso il legame con il Pci, avrebbe potuto essere educata alla comprensione della socialdemocrazia e non costretta per almeno un decennio nel più rigido dottrinarismo e di conseguenza in una sterile immobilità. Gli stessi slogans rivoluzionari che coniava Nenni, seducenti nell’enunciato, ma privi di alcuna efficacia pratica, non facevano che allontanare il socialismo dalla dimensione concreta delle riforme nella democrazia.
Nenni attento alla dimensione internazionale della politica che rifiuta gli aiuti di Marshall sacrificandoli al mito sovietico, noncurante dei consigli di Lombardi; Nenni tutore dell’unità della classe operaia che divide i socialisti, fautore di una politica classista mentre il partito perde consensi (severa la batosta nelle politiche del 1948); Nenni che guida impavido i compagni lungo una china discendente, chiudendo gli occhi di fronte ai soprusi comunisti e alla loro volontà egemonica; cantore del modello sovietico (si veda ancora il discorso al congresso del Psi del gennaio 1948) insieme alle altre intelligenze socialiste, sorde alle testimonianze della feroce repressione dei dissenzienti nella Russia di Stalin. Non si capisce se le illusioni dei capi socialisti sulla bontà dell’esperimento sovietico sono frutto di una calcolata politica di inganno della classe operaia o se sono l’esito di una cecità involontaria. Nenni e in pratica tutta la direzione socialista non sapevano liberarsi dalle bugie della propaganda sovietica sui motivi libertari dell’azione di Lenin e Stalin. Per i socialisti italiani la letteratura di quelli che Garosci ha chiamato i «neomachiavellici del xx secolo», Arthur Koestler, Victor Serge, David Rossuet e gli altri, testimoni di una involuzione dello Stato comunista inimmaginabile, era come se non esistesse. Difficile nella storia incontrare un personaggio che infila una tale mole di errori senza che venga rimosso, zittito, defraudato del potere.
Il libro di Scirocco racconta questo e altro ancora con documenti mai prodotti prima, analizzati e ordinati con rara equanimità, tenuto conto della passione che anima queste pagine. Fra esse balugina a tratti e con una certa avarizia la figura tormentata e austera di Riccardo Lombardi, testimone della “risorgente futilità della sinistra”, generoso e acuto sostenitore della via riformista che implicava l’indipendenza dal Pci. Lombardi aveva scontato anni di isolamento non solo a causa della aperta ostilità dei comunisti, ma anche in ragione della più argomentata contrarietà della sinistra del Psi, come quella di Morandi, che mal digerendo la sottigliezza delle sue argomentazioni lo accusava di “snobismo intellettuale”. “L’ingegnere del socialismo” – come è stato chiamato – aveva saputo conservare l’autonomia di un itinerario coerente e usciva da quel decennio come il vero leader, la mente che pensava il riformismo dentro lo Stato, il teorico capace di traghettare il Psi verso la completa e complessa assunzione della socialdemocrazia9.







NOTE
1 Le conclusioni di Scirocco sanno tuttavia essere secche e precise. Scrive per esempio della «politica del Psi negli anni dal 1947 al 1949 «e della «campagna condotta contro l’adesione al Patto Atlantico, manifestazione conclusiva ed emblematica di questa politica» (p. 93): esse «non furono soltanto, per usare un’espressione nenniana, una battaglia perduta, ma furono anche un’occasione perduta, quella di seguire l’esempio degli altri partiti socialisti dell’Europa occidentale, finendo così per creare quella che, per anni, costituirà l’anomalia del Psi rispetto allo schieramento socialista europeo».^
2 Secondo Di Nolfo la posizione neutralista adottata ufficialmente al Congresso di Firenze nel maggio 1949 era basata «più che su un’analisi realistica della situazione, su una concezione volontaristica». Tale progetto in sostanza si poteva «sintetizzare nel rifiuto di accettare per vero quello che invece stava accadendo: il conflitto tra Usa e Urss. E ciò per non doverne accettare le conseguenze». E. Di Nolfo, I problemi dell’internazionalismo socialista durante la guerra fredda, in Storia del Psi, vol. III, Venezia, Marsilio, 1980. Scirocco riporta una più lunga citazione e vi ragiona sopra con equilibrio (pp. 67-70).^
3 Il nome di Nenni era legato alla politica unitaria con i comunisti, come riconosceva lui stesso nella nota rivelatrice del 24 giugno 1956, dove è manifesto il timore della perdita di tale ruolo: «Posso cadere su questa politica, non farne un’altra. Il problema che mi angoscia è se sia ancora possibile salvare la sostanza della politica unitaria. Se no non mi resterà che rientrare nel silenzio». P. Nenni, Diari 1943-1956. Tempo di guerra fredda, Milano, SugarCo, 1981. Ma si vedano le riflessioni di Scirocco su questo passaggio tormentato (p. 168 sgg.).^
4 G. Sabbatucci, Il mito dell’Urss e il socialismo italiano, in “Annali della Fondazione Brodolini e della Fondazione Turati”, 1991. Citato anche da Scirocco, p. 184.^
5 Nenni, il regista della conversione, era risultato in minoranza e veniva rieletto in una segreteria collegiale formata da Francesco De Martino, Guido Mazzali, Lelio Basso e Tullio Vecchietti.^
6 «Mondo Operaio», la rivista fondata da Nenni nel dicembre 1948, nei primi anni di vita non informava, proponeva piuttosto una propaganda filosovietica che confondeva ogni cosa, mettendo sullo stesso piano dottrina Truman, Piano Marshall, Patto Atlantico, maccartismo, guerra di Corea. Il volto dell’imperialismo americano – scriveva Nenni nel 1953 nei Diari – era quello del «sistema più reazionario a cui si potesse addivenire» e il tema del servilismo filoamericano delle classi dirigenti europee era uno dei Leitmotiv della rivista.^
7 La complessa e contraddittoria personalità del segretario del Psi è colta da Valiani senza indulgenze: «Nenni era sempre rimasto un massimalista. Era cresciuto nel massimalismo ancora da repubblicano. Tutta la sua mentalità poggiava sulla lotta delle masse, mentre non aveva sensibilità e competenza per la riforma parziale, qualità che avrebbe conseguito molto tempo dopo. […] Nenni non aveva compreso che alla fine della lotta armata il problema non era l’eroismo ma il progetto politico». L’egemonia del partito comunista riuscì a far perdere al Psi diverse occasioni politiche di rilievo, intervista a Leo Valiani a cura di P. Caridi, in 1892-1992 Cento anni di socialismo italiano. 7. La nascita della Repubblica e lo stalinismo 1946-1956, suppl. «Avanti!», Roma, 26 aprile 1992.^
8 P. Scoppola, Per una storia del centrismo, in De Gasperi e l’età del centrismo, a cura di G. Rossini, Roma, Cinque Lune, 1984.^
9 Riccardo Lombardi, l’ingegnere del socialismo italiano, a cura di B. Becchi, “Quaderni del Circolo Rosselli”, n. 4, 1992.^
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