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Elogio di un solitario. Karl Hillebrand su Giuseppe Ferrari
di Anna Maria Voci
Il movimento che durante il Risorgimento italiano auspicò un assetto federale, repubblicano e democratico del costituendo, nuovo Stato, e che ebbe in Carlo Cattaneo e in Giuseppe Ferrari i suoi corifei, non suscitò molto interesse e partecipazione in Germania. Fu, invece, il mazzinianesimo e l’idea unitaria repubblicana e democratica del partito d’azione, che, pure, presentava qualche lato di contiguità con il programma di Cattaneo e Ferrari, a riscuotere vive simpatie nella sinistra democratica e anche socialista tedesca1.
Nel caso di Ferrari, poi, è ben noto che la sua figura e la sua opera furono molto più conosciute in Francia, la terra in cui visse molti anni. Con la cultura e le élites politiche tedesche egli non ebbe praticamente alcun contatto diretto, e la sua conoscenza della cultura, in particolare della filosofia tedesca, fu mediata dalle traduzioni francesi2. Al contrario, è altrettanto noto quanto Mazzini sia stato aperto alle istanze dell’emigrazione politica dalla Germania e ai contatti con gli esponenti democratici, repubblicani e socialisti di essa (in particolare con Arnold Ruge): egli fu, si può dire, in assiduo rapporto con il mondo tedesco, ravvisando comunanza di storia, destini e intenti tra i due popoli. A ciò si aggiungeva la sua diffidenza per la Francia e l’aperta avversione per Napoleone III, che non potevano che essere apprezzate dal mondo politico e intellettuale tedesco, e, quest’ultima, ancor più da quello democratico, repubblicano e socialista.
Non sorprende, pertanto, di non trovare nei giornali e periodici tedeschi alcun necrologio in memoria di Giuseppe Ferrari, deceduto improvvisamente a Roma il 2 luglio 1876. L’unico ricordo, o almeno l’unico che sono riuscita e trovare, è quello scritto il 4 luglio 1876 da Karl Hillebrand per l’Allgemeine Zeitung3. E anche questo non sorprende: in nessun quotidiano tedesco, infatti, i resoconti e le corrispondenze dall’Italia erano così ampi ed esaurienti come nell’Allgemeine Zeitung4.
Karl Hillebrand era, allora, corrispondente dell’Allgemeine Zeitung dall’Italia, da Roma. I suoi articoli uscivano anonimi ed erano contrassegnati da una sigla che permette, oggi, di identificarli. La sua collaborazione durò dal 1872 al 1876. Nato nel 1829 a Giessen, nel 1849 emigrò per ragioni politiche in Francia, dove visse fino al 1870. Laureatosi alla Sorbona nei primi anni ’60, ottenne nel 1863 una cattedra di letterature moderne comparate a Douai, e, nel 1866, anche la cittadinanza. Oltre al lavoro scientifico, svolse anche attività di pubblicista e collaborò ai principali quotidiani e periodici francesi e si fece un nome come studioso e saggista negli ambienti politici e intellettuali di Parigi. Allo scoppio della guerra franco-prussiana preferì abbandonare la sua seconda patria e si trasferì in un paese neutro rispetto alla patria di origine e quella di adozione: l’Italia. Qui, rifiutati diversi posti accademici in Italia e in Germania, continuò la sua opera di libero studioso, volgendosi soprattutto a studi e a saggi storici, oltre che di critica letteraria. Egli è una figura di assoluto rilievo nel panorama colto europeo di quel tempo sia per la qualità della sua produzione, sia per il suo profilo di intellettuale tedesco e, al tempo stesso, veramente cosmopolita. Morì a Firenze nel 1884. La sua fama postuma fu legata soprattutto al suo grande talento di fine, brillante ed acuto saggista, di sensibile mediatore tra le culture dell’Europa occidentale5.
I destini individuali di Karl Hillebrand e di Giuseppe Ferrari, più anziano di diciotto anni, presentano qualche significativa analogia. Entrambi vissero a lungo, esuli, in Francia, per quanto Hillebrand vi fu costretto, Ferrari di sua libera iniziativa; entrambi ebbero nella Francia la loro seconda patria; entrambi insegnarono ad un’Università francese e pubblicarono lavori di un certo peso in francese; entrambi si distinsero per l’intensa attività pubblicistica svolta a Parigi; entrambi sperimentarono, in fine, il fallimento della loro completa assimilazione alla società francese, disposta, sì, ad accogliere a braccia aperte lo straniero, ma a condizione che rinunciasse a se stesso e abiurasse la sua origine, come nel necrologio osserva Hillebrand con finezza distaccata, dietro la quale chi conosce bene la sua personalità e la sua storia scorge tuttavia un forte coinvolgimento emotivo.
Con questo, però, cessano le affinità. A differenza di Ferrari, Hillebrand già nei primi anni del suo ventennale soggiorno in Francia, dagli iniziali entusiasmi giovanili democratici e repubblicani che, nel 1848 e nel 1849, lo avevano trascinato a combattere per le strade di Francoforte e nel Baden, si era trasformato in un intellettuale liberal-conservatore, che rifiutava la rottura violenta, rivoluzionaria, dei lenti processi storici in ossequio a principii astratti e dettati dalla sola ragione. Hillebrand aveva assimilato il patrimonio di idee storiciste circa il lento divenire dell’individualità storica, che da Herder e, poi, da Burke portavano alla generazione degli storici tedeschi della scuola piccolotedesca e di Ranke, e vi rimase fedele tutta la vita. Hillebrand condannava la rivoluzione; Ferrari la esaltava, come esaltava il ruolo esemplare che, secondo lui, la Francia rivoluzionaria e repubblicana avrebbe dovuto esercitare in Europa ed in Italia, mentre Hillebrand era convinto che ad un sano sviluppo dell’Italia fosse necessario emanciparsi dall’eccessiva influenza politica e culturale francese. Hillebrand credeva fermamente nella libertà, ma non negli altri due “immortali principii” del 1789; respingeva, come contraria alla natura dell’uomo, l’idea egalitaria sottostante alla democrazia e alla repubblica, idea che, in Ferrari, assunse toni abbastanza radicali, e, quanto all’assetto istituzionale adottato dal nuovo Regno d’Italia, la conoscenza che nel corso degli anni ’60 e ’70 acquistò del nostro paese, prima soggiornandovi per periodi più o meno lunghi di tempo, poi risiedendovi stabilmente, lo convinse della bontà e giustezza della scelta accentratrice fatta dal ceto politico dirigente all’indomani dell’Unità. In relazione all’Italia Hillebrand fu, dunque, un convinto unitario. Egli, cioè, era dell’opinione, spesso manifestata nelle sue corrispondenze per l’Allgemeine Zeitung, che l’Italia non fosse pronta per lo Stato federale, ma che ad essa fosse necessario uno Stato unitario, che promuovesse nei cittadini il senso della collettività e della prevalenza dell’interesse generale sul particolare, proprio come unico rimedio all’eccessiva e negativa tendenza storica al regionalismo, al particolarismo, al «Localpatriotismus», al provincialismo, al municipalismo. La medesima consapevolezza del condizionamento dato dal corso della storia italiana, insomma il medesimo senso per la storia e le sue ragioni, unito alle «esigenze della lotta antimonarchica e anticlericale»6, induceva, al contrario, Ferrari a invocare un assetto federale del nuovo Stato italiano. Del resto, Hillebrand fu un convinto sostenitore dell’unitarismo e della politica di Bismarck anche per la sua patria tedesca. Al pari di altri nazional-liberali della sua generazione, quella dei nati negli anni ’20, ma altresì al pari dei democratici radicali (e questa è certamente una delle ragioni della risonanza di Mazzini in Germania) anch’egli fu pervaso da uno spiccato senso «für die geistige Erziehungskraft des Großstaates»7, e non poteva, pertanto, apprezzare fino in fondo la visione di Ferrari, alla quale egli accenna nel suo necrologio, e che oggi appare così “attuale”, della federazione europea delle “piccole patrie”, della federazione delle “regioni europee”.
Non solo. Nel caleidoscopio della vita politica italiana dalle corrispondenze inviate da Hillebrand all’Allgemeine Zeitung si ricava chiaramente che, a differenza di Ferrari, egli parteggiava per la Destra, e, in particolare, ammirava Sella e il gruppo della Destra piemontese attorno a lui.
Vi è, tuttavia, ancora un punto di contatto tra i due: la comune contrarietà all’annessione affrettata del Meridione. In essa Ferrari vide la causa della, ai suoi occhi, rovinosa scelta accentratrice compiuta nei primi anni ’60 e della rinuncia ad un ordinamento regionale; Hillebrand vi scorse l’origine dei mali e delle debolezze che affliggevano il nuovo Regno e che avevano determinato il sostanziale fallimento di quel movimento anche ideale che era stato il Risorgimento. Il 22 aprile 1882 scriveva a Pasquale Villari:
La vostra grande disgrazia è stata la spedizione de’ Mille. È duro dirlo ad un Meridionale; ma voi siete sincero e coraggioso abbastanza per dirvelo voi stesso, l’Italia meridionale è il grande impedimento ad uno sviluppo sano dell’Italia. L’ho pensato nel ’60 e lo penso anche oggi. L’Italia meridionale sarebbe venuta in tempo, come ci verrà la Baviera col tempo; e la differenza di coltura, di costumi, di pensieri etc. è molto più grande fra l’Italia del Nord e quella del Mezzogiorno che fra Prussia e Baviera8.

Anche nel necrologio9 a Ferrari Hillebrand aveva espresso questo parere: secondo lui l’Italia senza Napoli e la Sicilia avrebbe potuto forse essere, nel 1876, una vera e libera grande potenza di 15 milioni di abitanti, come lo era stata la Prussia nel 1815, invece di essere una falsa grande potenza di 27 milioni, legata mani e piedi.
Su questo tema dell’annessione troppo affrettata del Meridione al resto d’Italia Hillebrand ritorna spesso altrove10, con argomenti dei quali il lettore odierno può apprezzare l’acutezza, e che, allora, suonavano certamente attuali e persuasivi, almeno per una cospicua parte dell’opinione pubblica estera, ma che, tuttavia, nella prospettiva storica finiscono per risultare smentiti, senza contare il fatto, come ha notato Mauro Moretti, che egli in tal modo mostrava «scarsa sensibilità per lo sforzo volto al consolidamento di una tradizione nazionale e di un patrimonio ideale»11. A ciò si aggiunge la loro astrattezza, singolare in uno spirito che, in politica, attribuiva grande importanza al senso per la realtà, alla sostanza: egli non chiarisce, infatti, al lettore come e da chi riteneva dovesse governarsi il Meridione e parte del Centro d’Italia durante la fase di “transizione” da lui auspicata. Né egli pare porsi un elementare quesito, naturale conseguenza della sua opinione sull’opportunità di uno svolgimento molto “graduale” del processo di unificazione italiana: avrebbero le potenze europee assistito inerti alla progressiva espansione di un forte Regno dell’Italia settentrionale e centrale, analogo alla Prussia del 1815? O non avrebbero piuttosto alcune di esse avuto un forte interesse ad ostacolare tale espansione, proprio come fecero con la Prussia negli anni ’60?
Le principali fonti del mondo intellettuale di Ferrari sono individuate da Hillebrand in due storici francesi, Quinet e Michelet, i quali, secondo lui, gli avrebbero dischiuso la filosofia tedesca. Soprattutto Quinet lo avrebbe iniziato a quest’ultima e, in particolare, non tanto a Hegel, della cui presenza negli scritti di Ferrari solitamente si legge nella letteratura storica e filosofica, bensì a Kant12. Quinet e Michelet lo avrebbero avvicinato alla Germania, agli studi storici, alla filosofia della storia, una disciplina della quale uno storicista e ammiratore di Herder, quale era Hillebrand, curiosamente asserisce essere «fortunatamente in via di estinzione». A differenza della letteratura storica moderna, che ha praticamente ignorato l’influsso esercitato sul pensiero di Ferrari dai due storici francesi13 per sottolineare, invece, l’apporto che a esso diedero “protosocialisti” utopisti quali Fourier, Saint-Simon o Proudhon14, Hillebrand non menziona neanche una volta il nome di questi ultimi e ignora i risvolti, o presunti risvolti, socialisti del pensiero di Ferrari15. Egli rileva inoltre che da Quinet e Michelet Ferrari avrebbe anche mutuato il suo stile particolare, del quale, peraltro, egli sottolinea le carenze di forma, chiarezza e ordine nella composizione. Nei limiti consentitigli dalla natura del suo scritto Hillebrand accenna brevemente all’originalità e allo spessore di talune idee o intuizioni di Ferrari, ma ne biasima la qualità della loro trasposizione in forma scritta, gli rimprovera, cioè, una mancanza di ordine logico, di sistema nell’esposizione, come altri dopo di lui (ricorderò solo le osservazioni di Gentile e Volpe)16 avrebbero rilevato. In fondo al necrologio si trova un fugace, acuto accenno ad una delle principali debolezze e aporie di fondo della filosofia della storia di Ferrari, che finisce per negare all’uomo ogni autonoma e consapevole capacità di agire nella storia, di fare la storia.
Dal 1860 fino alla morte Ferrari sedette sui banchi della Sinistra, dai quali condusse la sua battaglia per il federalismo, per il decentramento e per un’Italia rinnovata, laica, democratica, che si facesse carico del problema sociale e si ispirasse ai principii del 1789. Ma fu una battaglia politica solitaria, e altrettanto isolato fu Ferrari, con le sue convinzioni filosofiche, negli ambienti di pensiero italiani, come mette in evidenza Hillebrand proprio all’inizio della sua commemorazione17, e come la storiografia ha sempre e di nuovo in seguito ripetuto, ponendo l’accento sul suo isolamento culturale, politico e umano18, o parlando di lui come di una figura sostanzialmente «solitaria tra i ‘vinti’ della democrazia»19.




Karl Hillebrand, Giuseppe Ferrari, in Augsburger Allgemeine Zeitung, 11 luglio 1876, pp. 2963-2964.

La morte improvvisa di Giuseppe Ferrari susciterà echi di dolore in tutta la Penisola. Ferrari era un isolato con le sue convinzioni politiche e filosofiche. Alla giovane generazione egli era estraneo e incomprensibile, e anche tra i suoi coetanei solo i dotti lo conoscevano veramente: la maggiore e migliore parte della produzione che egli lascia è scritta in lingua straniera, così come all’estero egli trascorse la maggiore e migliore parte della sua vita. E tuttavia il nome di Ferrari è ben noto in Italia, anzi è un nome popolare. L’impressione che quell’uomo eminente produceva anche sulla cerchia più ristretta era così profonda che ad essa si univano sempre gruppi più ampi di persone. Il vero spirito e la vera erudizione esercitano una forza irresistibile: perfino coloro che non comprendono il primo, né sanno apprezzare la seconda, li distinguono quasi istintivamente dal falso spirito e dalla falsa erudizione, che credono di ingannare almeno il profanum vulgus con la loro oscurità e la loro massa. Solo pochi, anche tra i colti, vollero o furono in grado di seguire fino in fondo l’“oscuro” (o skoteinÒj avrebbe potuto a buon diritto chiamarsi, al pari dell’antico filosofo)20, tanto egli amò il cammino non lineare, ma a nessuno venne in mente di ignorarlo come si farebbe con un confuso utopista e sognatore. Nelle sue opinioni politiche e filosofiche Ferrari non era un italiano dei giorni nostri, dato che era federalista e scettico, non scettico nel senso banale del termine – di questi l’Italia ne possiede abbastanza – bensì scettico nel senso della filosofia speculativa: egli era del tutto libero nel suo intimo, forse l’unico italiano, oggi, a non essere stato cattolico. E, infatti, in Italia anche i nemici del Cattolicesimo sono avvinti alle catene di questo loro avversario: egli non lo era. I suoi connazionali, però, avvertivano questa sua superiorità e appunto per ciò non mettevano in dubbio né la nobiltà dei suoi sentimenti, né il patriottismo dell’anti-unitario. Non lo avrebbero fatto così facilmente nei confronti di nessun altro. Di nascita Giuseppe Ferrari era milanese, e la sua gioventù cadde in un periodo in cui proprio in Lombardia vi fu un vivace risveglio di vita intellettuale e tutti gli sguardi erano rivolti ad essa; un periodo in cui Manzoni e Romagnosi promettevano una terza rinascenza della letteratura italiana. Ferrari fu allievo prediletto di quest’ultimo, al quale egli si aggregò allorché nel 1832, appena ventenne, lasciò l’Università di Pavia col titolo di dottore in utroque iure, e a lui dobbiamo un ottimo scritto sul Filosofo21. Il giovane erudito non rimase tuttavia a lungo sotto l’influenza del pensatore metodico e positivo. Il suo vero maestro fu Quinet, al quale egli ben presto si legò di un’amicizia intima. E, infatti, già nel 1837 si era trasferito in Francia22, dove contava di poter godere di una libertà di pensiero e di parola maggiore che sotto il dominio austriaco, e dove poco prima il ministro dell’Istruzione, Guizot23 – e sarebbe stato meglio per il suo bene e per quello della Francia e di Luigi Filippo se fosse rimasto in quel posto! – aveva spalancato le porte dell’istruzione pubblica ad un altro connazionale di Ferrari, Pellegrino Rossi24. Anche Ferrari, come Libri, Collegno, Malagutti [sic]25, si conquistò il suo posto alla Université de France – non senza difficoltà. Respinto una prima volta all’esame di Stato a causa dell’audacia delle sue opinioni filosofiche, solo nel 1840 fu chiamato a Strasburgo in qualità di professore presso la Faculté des Lettres26, dove ben presto, come poco prima a Parigi, si trovò coinvolto in violenti conflitti. Già il suo predecessore, l’Abbé Bautain27, era stato costretto a retrocedere di fronte al bellicoso vescovo, che aveva preso molto a male il fatto che il signor abate avesse negato la possibilità di giungere alla fede in Dio mediante la filosofia. E ora arrivava addirittura uno straniero, un puro kantiano – e, infatti, questo era divenuto Ferrari sotto l’influsso di Quinet – il quale, nonostante la scuola spiritualistica allora imperante, osava dimostrare l’incapacità della ragione umana di conoscere l’essenza delle cose in sé. Ne nacque un’aspra polemica; come sempre in questi casi si levarono accuse di abusare dell’ospitalità, e il ministro dell’Istruzione, che a quel tempo era Villemain28, cedette, come cedette ogni volta che la Chiesa lo incalzò. Ferrari fu rimosso dalla sua cattedra29, che gli fu restituita solo nel 184830 dal ministro repubblicano Carnot31, sebbene egli già molto tempo prima avesse conseguito il titolo di agregé mediante concorso.
Ferrari entrò in contatto con la cultura tedesca e con gli studi storici grazie alla mediazione di Quinet e Michelet. Da allora la filosofia della storia rimase la sua materia speciale, anzi, si può dire che con lui scompare l’ultimo e al tempo stesso il più temerario esponente di una disciplina che, per fortuna, è in via di estinzione. Un italiano la aveva chiamata in vita, un italiano era destinato a condurla quasi ad absurdum; ed è singolare che Ferrari abbia iniziato il suo percorso intellettuale proprio con un lavoro su quell’italiano. Fu in effetti Ferrari il primo a dischiudere il pensiero di G.B. Vico al mondo. Già prima di abbandonare l’Italia, aveva pubblicato un’edizione completa delle opere del filosofo napoletano32, che, poco prima Michelet aveva, per così dire, rivelato pubblicando una traduzione francese di parte dei suoi scritti33. Ma Ferrari scrisse un lavoro non disprezzabile anche sullo storiografo italiano che, due secoli prima di Vico, aveva gettato le basi della filosofia della storia, Machiavelli34. Ferrari superò i suoi due amici francesi per l’accuratezza e ampiezza del suo sapere, per la critica scientifica, per l’energia e originalità del suo pensiero. Ma non era uno scrittore, come i Francesi, e senza la forma che, sola, conferisce durevolezza al pensiero, le opere intellettuali non hanno vita. Il libro di Ferrari sul principio e i limiti della filosofia della storia35, al pari della sua storia delle rivoluzioni italiane in quattro volumi36, sono opere audaci, ingegnose e turgide di sapere; purtroppo, però, la loro composizione manca di quella chiarezza e di quell’ordine, che i Francesi, anche quando, come Michelet e Quinet, danno a vedere di indulgere a un’ispirazione estatica, non perdono mai di vista. Anche lo stile di Ferrari, che è visibilmente, pur se non intenzionalmente, ispirato allo stile dei suoi due amici, cade spesso nella mancanza di gusto. E, infatti, l’italiano, a differenza del francese, non ha quel vaglio nell’orecchio, che Rahel attribuì al nostro Heine, e che non fa passare nulla che contravvenga al gusto37.
Il 1848, anno nel quale Ferrari riebbe la sua cattedra, lo estraniò temporaneamente alla vera scienza. Per tre o quattro anni visse da pubblicista, pubblicò opuscoli e saggi – per lo più nella «Revue des Deux Mondes» – in favore dell’Italia e contro la Chiesa romana; anche volumi di filosofia della storia contemporanea, un’impresa sempre rischiosa, che non riuscì neanche a lui. Già dopo un anno fu di nuovo destituito dalla cattedra38, allorché il governo “liberale” di Odilon Barrot39 portò a termine il colpo di mano contro la Repubblica romana, iniziato dal governo repubblicano di Bastide40, e Ferrari, come è naturale, prese partito pubblicamente a favore dei suoi connazionali e sodali. Non si perdonò all’italiano di essere rimasto italiano mentre insegnava presso una facoltà francese e scriveva su riviste francesi. Si volle e si vuole aprire le braccia ospitali allo straniero, ma a condizione che rinunci a se stesso e alla sua origine.
Già nel 1859 Ferrari tornò in patria da deputato della Lombardia appena conquistata. In patria iniziò la sua lotta contro Cavour, per la quale soprattutto la sua notorietà si è diffusa tra una vasta cerchia di persone. Dallo studio della storia aveva attinto la persuasione che per sua natura l’Italia fosse un paese federalista, che la sua patria potesse realizzare la sua vocazione solo come Stato federale, e tradusse nella prassi le sue teorie storiche. Secondo queste ultime l’Antichità aspirò all’unità; il Medioevo e l’età moderna alla federazione. Ogni nazione dovrebbe, secondo lui, dissolversi in Stati indipendenti, e una comune confederazione europea dovrebbe riunire tutti questi Stati federali nazionali. A tale convinzione egli rimase fedele tutta la vita; accanto ad Alberto Mario fu l’unico federalista italiano superstite. Nel 1860 manifestare tali opinioni era ancor più pericoloso che oggi. Ferrari sollevò una vera tempesta, e, come di solito avviene, egli, il caldo patriota che all’estero aveva avuto un solo pensiero, quello della sua patria, fu accusato di tradimento allorché, contro Cavour e Garibaldi, si oppose all’annessione di Napoli e della Sicilia. Forse, in questo caso, il pensatore fu più lungimirante dello statista e dell’eroe. L’Italia senza Napoli e la Sicilia sarebbe oggi, forse, una vera e libera grande potenza di 15 milioni di abitanti, come lo fu la Prussia nel 1815, invece di essere una falsa grande potenza di 27 milioni, legata mani e piedi.
Nel Parlamento italiano Ferrari era considerato un oratore e si ascoltavano sempre con grande attenzione i suoi infiniti e confusi discorsi. In Italia la vera eloquenza è, infatti, una rarissima avis, e per ciò qui ci si accontenta di prestazioni oratorie che a Londra e a Berlino, per tacere di Parigi, sembrerebbero insopportabili. Negli ultimi anni Ferrari si era fatto più taciturno e si era di nuovo volto più alla scienza e all’insegnamento. Le sue conferenze di filosofia della storia attirarono in questo inverno e in primavera un numeroso e fine pubblico nella sua aula: deputati, senatori, anche signore – tra le quali la stessa principessa ereditaria41 – si sono accalcati per udire queste conferenze “di divulgazione popolare”, che non sempre meritano tale attributo. In pari tempo preparava una nuova opera che, pare, sia terminata e contenga il suo testamento di filosofia della storia. Il libro, così si dice, ha il titolo “Storia aritmetica”42, giustificato dal fatto che, in esso, la storia è ricondotta ad un problema d’aritmetica. Tali sono i tiri che la logica può giocare ad una persona. C’è da chiedersi se quel pensatore senescente abbia mai riflettuto sul fatto che una concezione della storia la quale riconosce solo forze cieche e irresistibili finisce in realtà per distruggere proprio il suo principio federativo, che, in fondo, deve risolversi nella libera autodeterminazione del singolo.
Poche settimane fa43 Giuseppe Ferrari era stato nominato senatore dal Ministero della Sinistra, sui banchi della quale egli aveva sempre seduto da sedici anni, e, come tale, poco tempo fa pronunciò alcune belle parole, degne di considerazione, in occasione del controprogetto sulla nuova formula di giuramento44. La sera del 1° luglio stava ancora bene e aveva fissato per il giorno dopo (l’altro ieri) la sua partenza per Milano, dove doveva recarsi per parlare della pubblicazione del suo ultimo libro. Un’emorragia ha posto rapidamente fine alla sua vita. Ferrari aveva 64 anni45.










NOTE
1 Questo tema è stato studiato: cfr. J. Petersen, Risorgimento und italienischer Einheitsstaat im Urteil Deutschlands nach 1860, in «Historische Zeitschrift», 234 (1982), pp. 63-99, pp. 78-79, con i rinvii bibliografici alla nt. 67 agli studi di F. Della Peruta e di K.-H Lucas. Il saggio di Petersen è stato tradotto in italiano: Il Risorgimento italiano nel giudizio della Germania dopo il 1860, e pubbl. in 1861-1887. Il processo d’unificazione nella realtà del paese, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1982, pp. 99-132, pp. 113-114. Aggiungo il contributo di W. Altgeld, Giuseppe Mazzini in den deutschen Quellen und in der deutschen Geschichtsschreibung, in Menschen, Ideen, Ereignisse in der Mitte Europas, hrsg. von W. Altgeld-Michael Kissener-J. Scholtyseck, Konstanz, Universitäsverlag Konstanz, 1999, pp. 39-51.^
2 Su Ferrari mi limito a rinviare alla voce di F. Della Peruta, Ferrari, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, 46 (1996), pp. 609-615, con ampia bibliografia retrospettiva, cui aggiungerei il libro di M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano, Bari, Dedalo, 1996, e quello di A. Bruch, Italien auf dem Weg zum Nationalstaat. Giuseppe Ferraris Vorstellungen einer föderal-demokratische Ordnung, Hamburg, Krämer, 2005, con elenco delle fonti e copiosa bibliografia alle pp. 177-203. Sul federalismo democratico e repubblicano di Ferrari e sulle differenze rispetto al federalismo repubblicano e sostanzialmente liberale di Cattaneo occorre leggere anche le pagine di G. Galasso, Il federalismo repubblicano, in Idem, Da Mazzini a Salvemini. Il pensiero democratico nell’Italia moderna, Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 177-207, rist. anast.: Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011.^
3 K. Hillebrand, Giuseppe Ferrari, in Augsburger Allgemeine Zeitung, 11 luglio 1876, pp. 2963-2964.^
4 J. Petersen, Politik und Kultur im Spiegel der deutschen Presse, in Deutsches Ottocento. Die deutsche Wahrnehmung Italiens im Risorgimento, hrsg. von A. Esch und J. Petersen, Tübingen, Niemeyer, 2000, pp. 1-17, p. 3.^
5 La migliore monografia su Hillebrand finora uscita è quella di W. Mauser, Karl Hillebrand. Leben, Werk, Wirkung, Dornbirn, Vorarlberger Verl.-Anst., 1960. L’Autrice di questa nota sta completando una nuovo biografia intellettuale di questo interessante personaggio, che uscirà, spero, nel 2013.^
6 G. Galasso, Il federalismo repubblicano, cit., p. 187.^
7 Così si esprimeva il suo amico Ludwig Bamberger, anch’egli esule nel 1849, rientrato in patria nel 1867, influente economista, sostenitore di Bismarck fino al 1878, e membro del Reichstag fino agli anni ’90: L. Bamberger, Erinnerungen, hrsg. von Paul Nathan, Berlin, Reimer, 1899, p. 43.^
8 Hillebrand a Villari, Arcachon 22 aprile 1882 (Biblioteca Apostolica Vaticana, Carteggi Villari 25), pubbl. in “Un anello ideale fra Germania e Italia”. Corrispondenze di Pasquale Villari con storici tedeschi, a cura di A.M. Voci, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006, pp. 355-358, pp. 356-357. Nella mia monografia su Hillebrand tornerò a parlare più distesamente su questa sua convinzione.^
9 Qui di seguito pubblicato in versione italiana.^
10 Per tutto questo rinvio alla mia monografia su Hillebrand (cfr. sopra, alla nt. 5).^
11 M. Moretti, Karl Hillebrand e la «Rassegna Settimanale», in Karl Hillebrand eretico d’Europa, a cura di L. Borghese, Firenze, Olschiki, 1986, pp. 79-125, p. 112.^
12 G. Gentile, La filosofia in Italia dopo il 1850. I. Gli scettici. Giuseppe Ferrari e Ausonio Franchi, in «La Critica», 1 (1903), pp. 81-94 e 182-201, ravvisò gli elementi che Ferrari riprese, pur se, a suo giudizio abbastanza superficialmente, da Kant. In Gentile non si trova, però, cenno del canale di mediazione che permise a Ferrari di entrare in contatto con la filosofia kantiana.^
13 Un’eccezione è C.M. Lovett, Giuseppe Ferrari and the Italian Revolution, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1979, che ha sottolineato il ruolo svolto da Michelet nell’evoluzione intellettuale di Ferrari.^
14 Mi limito a rinviare ai lavori di Della Peruta, Schiattone e Bruch, sopra citati.^
15 G. Monsagrati, A proposito di una recente biografia di Giuseppe Ferrari. Vecchie tesi e nuove ricerche, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 67 (1980), pp. 259-296, passim, ha formulato osservazioni circa i forti limiti del socialismo di Ferrari.^
16 G. Gentile, La filosofia italiana dopo il 1850, cit., passim, e G. Volpe, Ritorno di Ferrari?, in «Corriere della Sera» 1927, ripubbl. in Idem, Guerra. Dopoguerra. Fascismo, Venezia, La Nuova Italia, 1928, pp. 235-243, pp. 242-243.^
17 K. Hillebrand, Giuseppe Ferrari, in «Augsburger Allgemeine Zeitung», 11 luglio 1876, pp. 2963-2964.^
18 E. Sestan, nella sua Introduzione a: Opere di Romagnosi, Cattaneo, Ferrari, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, pp. XXXIX-XLIV (rist.: Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011).^
19 F. Della Peruta, Ferrari, Giuseppe, cit. Il giudizio di Della Peruta è stato ripreso anche da M. Martirano, Giuseppe Ferrari editore e interprete di Vico, Napoli, Guida, 2011, p. 43. Cfr. anche Monsagrati, A proposito di una recente biografia di Giuseppe Ferrari, cit., p. 267.^
20 Eraclito.^
21 G. Ferrari, La mente di Gian Domenico Romagnosi, Milano, Fanfani, 1835.^
22 Della Peruta, Ferrari, Giuseppe, cit., colloca questo trasferimento all’inizio del 1838.^
23 Guizot fu ministro dell’Istruzione dall’ottobre 1832 all’aprile 1837, con una breve interruzione.^
24 Nel 1833 P. Rossi ebbe la cattedra di economia politica a Parigi, al Collège de France, e, nel 1834, passò a insegnare diritto costituzionale alla Sorbona.^
25 Guglielmo Libri (1802-1869), Giacinto Ottavio Provana di Collegno (1794-1856) e Faustino Malaguti (1802-1878).^
26 La nomina di Ferrari a supplente della cattedra di filosofia a Strasburgo risale in realtà all’ottobre del 1841.^
27 Il filosofo e teologo Louis Eugène Marie Bautain (1796-1867), che dovette lasciate l’insegnamento a Strasburgo nel marzo del 1841.^
28 Abel-François Villemain (1790-1870), ministro dell’Istruzione dal 1839 al 1844.^
29 Già nel gennaio del 1842.^
30 Il 20 marzo 1848 fu reintegrato nella supplenza della cattedra di filosofia all’Università di Strasburgo.^
31 Lazare Hippolyte Carnot (1801-1888), ministro dell’Istruzione dal febbraio al luglio 1848.^
32 Uscita in sei volumi tra 1835 e 1837.^
33 Si riferisce a Les oeuvres choisies de Vico, edizione in due volumi uscita a Parigi nel 1835.^
34 G. Ferrari, Machiavel juge des révolutions de notre temps, Paris, Joubert, 1849; rist.: Paris, Payot & Rivages, 2003.^
35 Idem, Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’historie, Paris, Joubert, 1843.^
36 Idem, Histoire des révolutions d’Italie, 4 voll., Paris, Didier, 1858.^
37 Allude a un passo di una risposta del 19 ottobre 1830 di Friedrich v. Gentz ad una lettera di Rahel Varnhagen von Ense, nella quale quest’ultima aveva attribuito a Heine questo “Sieb” (setaccio, vaglio) stilistico nell’orecchio, che non faceva passare attraverso i suoi forellini nulla di scadente (F. von Gentz, Briefe und vertraute Blätter, hrsg. von Gustav Schlesier, Mannheim, Hoff, 1838, p. 210).^
38 In realtà lo fu già nel dicembre del ’48. Gli fu poi assegnato un insegnamento di filosofia nel liceo di Bourges, ma venne congedato anche da questo posto nel giugno del 1849.^
39 Hyacinthe Camille Odilon Barrot (1791-1873), dal presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte nominato capo del Governo nel dicembre del 1848, e rimasto in carica fino all’ottobre 1849.^
40 Jules Bastide (1800-1879), ministro degli Esteri nel Governo del generale Louis-Eugène Cavaignac durante la seconda metà del 1848, fino al dicembre, quando Luigi Napoleone Bonaparte venne eletto presidente della Seconda Repubblica.^
41 Margherita.^
42 All’adunanza del 23 dicembre 1875 Ferrari aveva letto ai membri del Regio Istituto Lombardo di scienze e lettere una breve memoria dal titolo L’aritmetica nella storia, poi però non ampliata e pubblicata in forma di libro.^
43 Il 15 maggio 1876.^
44 Non sono riuscita a trovare il testo di questo discorso. Forse si riferiva alla discussione sul testo di legge sul giuramento processuale, che divenne la legge 30 giugno 1876, n. 3184, mediante la quale venne modificato il concetto generale di giuramento nella legislazione italiana, privandolo di ogni connotazione religiosa e rendendolo un istituto laico. Tale concezione nuova ebbe, pertanto, ripercussioni anche per il giuramento parlamentare. Ciò a cui allude Hillebrand non è, comunque, un discorso parlamentare del Ferrari, perché di un tale intervento non vi è traccia negli Atti parlamentari d quell’anno.^
45 Qui Hillebrand si sbaglia: essendo nato il 7 marzo 1811, Ferrari aveva 65 anni quando morì.^
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