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I socialdemocratici di Giuseppe Saragat e la nascita del centro-sinistra (1958-1968)
di Michele Donno
La fase di incubazione del progetto politico-parlamentare che sarebbe stato definito “centro-sinistra organico”, può esser datata a partire dall’incontro di Pralognan (agosto 1956) fra Pietro Nenni e Giuseppe Saragat e dalle successive gravi vicende della rivolta ungherese, che portarono al distacco del Partito socialista italiano dai comunisti e ad una rinnovata definizione dell’“autonomismo” socialista.
A far data dal 1956, quindi, uno dei principali obiettivi dei socialdemocratici italiani fu quello di ricondurre il PSI nell’area politica moderata, e il Partito socialista democratico italiano, con il decisivo contributo del suo leader Saragat, ebbe un ruolo fondamentale in questa azione di avvicinamento e persuasione, affinché venissero definitivamente recisi i legami con il Partito comunista italiano e il PSI avviasse una nuova stagione di collaborazioni governative.
Nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del maggio 1958, la propaganda del PSDI fu, quindi, incentrata sul tema della riunificazione del socialismo italiano e sulla creazione di un nuovo partito socialista, riformista ed europeista, che garantisse l’unità dei lavoratori e rappresentasse una valida alternativa anche per i socialisti del PSI. Al centro del dibattito politico-elettorale vi erano poi le permanenti questioni legate all’arretratezza del Mezzogiorno, alla disoccupazione e alla crisi dell’economia agricola. Nonostante tutto, si registrava, in quella fase, una ripresa della produzione industriale (soprattutto metallurgica, meccanica e chimica) sostenuta da una politica di opere pubbliche che favoriva l’assorbimento di manodopera; il piano Vanoni aveva orientato positivamente gli investimenti dell’Istituto per la Ricostruzione industriale e la nascita del Mercato comune europeo contribuiva ad allargare i confini dell’iniziativa economica privata. Le esportazioni crescevano mentre le importazioni erano costituite in gran parte da beni strumentali. Tutto ciò era accompagnato da una crescita contenuta di consumi e salari.
I risultati delle elezioni segnarono per i partiti dell’area democratica di centro una crescita di consensi rispetto alle elezioni politiche del 1953; anche il PSDI registrò un leggero incremento di voti (dal 4,5 al 4,6 per cento dei consensi). La maggioranza dei socialisti democratici, quindi, ritenne opportuno avviare trattative con la Democrazia cristiana per la formazione di un governo che varasse un programma di ampio respiro. Saragat e Amintore Fanfani, fautori del centro-sinistra, ritenevano necessaria l’attuazione di alcune riforme sociali, a costo anche di una rottura con il Partito liberale italiano; Saragat, in particolare, continuava a ritenere strategica l’alleanza fra DC e PSDI per il consolidamento delle istituzioni democratiche e repubblicane, obiettivo prioritario quest’ultimo, che lo aveva spinto sin dal dicembre 1947 ad intraprendere la collaborazione governativa con Alcide De Gasperi1.
Il programma del nuovo governo Fanfani, con l’appoggio esterno del Partito repubblicano italiano, contemplava la nazionalizzazione dell’energia elettrica, nuove leggi sulla contrattazione collettiva, una legge sulle aree fabbricabili e una politica tributaria – di cui era titolare il socialdemocratico Luigi Preti – finalizzata ad introdurre una imposizione fiscale progressiva. Ma il “governo a due” di Fanfani incontrò l’ostilità del PSI, oltre a quella della Confindustria, della Confagricoltura e della parte più conservatrice della DC.
Le diverse posizioni dei due partiti socialisti italiani portarono, in seno al comitato centrale del PSDI, ad un acutizzarsi del dissidio tra maggioranza e sinistra del partito, a tal punto che nei mesi successivi alcuni esponenti, guidati da Matteo Matteotti e Mario Zagari, uscirono dal PSDI dando vita, nel febbraio 1959, al Movimento unitario di iniziativa socialista, che confluì successivamente nel PSI. Questa scissione nelle fila dei socialisti democratici, che toglieva di fatto alla compagine governativa la “maggioranza autosufficiente”, ma anche la possibilità di ricostituire un governo tripartito con il PRI, e l’insorgere del fenomeno dei “franchi tiratori” in seno al gruppo democristiano portarono Fanfani alle dimissioni. Fu costituito, quindi, il governo monocolore Segni, sostenuto da DC, PLI, monarchici e, successivamente, anche dal Movimento sociale italiano.
Nel PSDI, intanto, confluiva Alleanza socialista, un gruppo di ex comunisti guidato da Eugenio Reale, uscito dal PCI nel 1956.
Nel marzo 1959, Aldo Moro venne eletto segretario della DC e diede il via, con il congresso nazionale di novembre, al dibattito sull’“apertura a sinistra” e sull’ipotesi di una collaborazione governativa con il PSI. Il ruolo di Moro e dei socialisti democratici fu fondamentale nell’opera di attenuazione dei contrasti con i socialisti di Nenni e di varo dell’esperimento di sostegno esterno del PSI alle compagini ministeriali monocolore democristiane tra il 1960 ed il 1963. Così sarebbe avvenuto con il terzo governo Segni e con il terzo e quarto governo Fanfani.
I lavori del XII congresso nazionale del PSDI (Roma, novembre 1959) furono aperti da Saragat, il quale, dopo aver riaffermato la strategia internazionale del partito, a sostegno dell’alleanza atlantica e volta a favorire la distensione con l’Unione Sovietica, si soffermò sulla situazione generale italiana, sottolineando la necessità di varare un programma economico innovativo, attraverso una differente politica fiscale e una riforma scolastica più qualificante ed il rilancio dell’economia agricola e del sistema industriale. Saragat riteneva che questi obiettivi non potessero essere perseguiti da un governo quadripartito, ma piuttosto da un governo sostenuto da DC, PSDI e PRI, che – a suo dire – avrebbe portato il PSI a rompere con i comunisti, e insisteva nel sostenere come la responsabilità maggiore per l’attuazione di una politica di centro-sinistra gravasse soprattutto sulle correnti più moderate della DC. È noto, poi, come, nella DC stessa, la destra di Giulio Andreotti e Mario Scelba, con il sostegno del Vaticano e della Confindustria, fosse recisamente ostile all’“apertura a sinistra”. Uguale atteggiamento, ma con diverse motivazioni, emergeva dall’interno del PSI, con le componenti più “classiste” e filo-comuniste, avverse all’ipotesi governativa.
Il VII congresso nazionale della DC (Firenze, novembre 1959) confermò la divisione del partito in due articolati schieramenti di centro-sinistra e di centro-destra. Quest’ultimo, che ottenne la maggioranza dei voti congressuali, era favorevole alla formula governativa di Antonio Segni e avrebbe perciò aumentato le difficoltà di manovra del PSDI, nettamente schierato, invece, per una formula di centro-sinistra.
Segni, tuttavia, si dimise nel febbraio 1960, costretto soprattutto dalla decisione del PLI di fare venir meno il proprio appoggio, nella speranza di favorire in questo modo la ricostituzione di un governo quadripartito e neutralizzare le forze di centro-sinistra, sbarrando la strada ad una eventuale apertura al PSI.
Il presidente designato, Fernando Tambroni, fortemente osteggiato da Saragat, perché considerato politicamente inaffidabile, tentò di formare un governo con il sostegno del PLI, del MSI e anche del PSI, che inizialmente condivise la scelta del Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, di incaricare un esponente di primo piano della sinistra democristiana. Ma il governo monocolore alla fine fu costituito con i voti determinanti del MSI; per questa ragione, un gruppo di ministri democristiani lo abbandonò dopo poche ore dalla sua formazione, costringendo Tambroni alle dimissioni.
Saragat propose un governo sostenuto da DC, PSDI e PRI. L’incarico fu dato a Fanfani, il quale, a causa dei dissidi interni al gruppo parlamentare democristiano, rinunciò. Tambroni venne rinviato alle Camere. Agli inizi di luglio, con Tambroni presidente del Consiglio dei ministri, doveva inaugurarsi a Genova il congresso del MSI. La città fu teatro di gravi disordini, con manifestazioni seguite da un duro intervento delle forze dell’ordine, e i socialdemocratici chiesero la costituzione di un governo di emergenza nazionale. DC, PRI e PSI accettarono di trattare e, nonostante le reazioni della destra e dei comunisti, l’accordo venne raggiunto e Tambroni fu costretto a rassegnare le dimissioni.
L’incarico di formare il governo fu conferito nuovamente a Fanfani, il quale varò un ministero monocolore votato da democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali; si astennero i socialisti; votarono contro comunisti, missini e monarchici. Saragat fu attivo protagonista dell’operazione e la formula politica raggiunta venne definita da Moro “delle convergenze parallele”.
Nel novembre 1960, alle elezioni amministrative, il PSDI, favorito dall’impegno profuso nella complessa “battaglia per il centro-sinistra e per la democrazia”, guadagnava oltre 200 mila voti, mentre il PSI ne perdeva 226 mila. Questo indiscutibile successo elettorale dei socialdemocratici scaturiva, quindi, dall’aver perseguito una linea politica chiara, accompagnata da una efficace riorganizzazione interna del partito, avviata con il congresso nazionale del 1959. In realtà, il PSDI, a poco più di dieci anni dalla scissione di palazzo Barberini e dalle prime elezioni repubblicane, aveva assunto maggiore sicurezza e capacità di manovra sullo scenario politico italiano, impiegando gli stessi strumenti di propaganda dei grandi partiti politici di massa. In questa rimonta, che proseguì fino al 1965, i socialdemocratici, oltre ad aumentare i consensi, ritrovarono soprattutto una crescente libertà d’azione nei confronti dei compagni socialisti.
Nel marzo 1961, si svolgeva, a Milano, il XXXIV congresso nazionale del PSI; la mozione degli autonomisti di Nenni, favorevole all’incontro con i lavoratori cattolici e ad un sostegno esterno ai governi riformatori, raccoglieva la maggioranza dei voti congressuali, anche se andava rafforzandosi la sinistra di Lelio Basso e Tullio Vecchietti.
Di lì a pochi mesi, gli esiti dell’assise del PSI trovarono un cauto apprezzamento anche in seno al VII congresso dell’Internazionale socialista che si tenne a Roma, nell’ottobre. Nel suo discorso di apertura, Saragat, richiamandosi ai contenuti del “Programma fondamentale” approvato dai socialdemocratici tedeschi nel novembre 1959, dichiarò, fra l’altro: «Noi siamo gli assertori più coerenti dell’indissolubile nesso tra giustizia sociale e libertà politica. Sono presenti in questo Congresso i delegati di Partiti Socialisti Democratici, che nei loro Paesi, con l’apporto di tutti i lavoratori, hanno creato forme altissime di democrazia politica e sociale, le quali hanno permesso di raggiungere un livello di vita mai conosciuto prima»2.
Nel gennaio 1962, aveva poi luogo, a Napoli, l’VIII congresso nazionale della DC, che avviava quella “cauta sperimentazione di nuove vie” proposta da Moro e finalizzata all’inserimento organico del PSI nella maggioranza governativa. La politica di centro-sinistra, sostenuta da Moro e Fanfani, veniva, quindi, fatta propria dalla maggioranza della DC e ciò, senza dubbio, rappresentò per il PSDI una grande vittoria. I risultati del congresso democristiano ebbero come conseguenza la formazione, nel marzo 1962, di un nuovo governo Fanfani sostenuto da PSDI e PRI e con l’astensione concordata del PSI.
Alla fine di novembre, si apriva, a Roma, il XIII congresso nazionale del PSDI. La relazione di Saragat fu preceduta dal saluto del Presidente del Consiglio dei ministri, Fanfani, il quale dichiarò, fra l’altro: «Nessuno dimentica ciò che è stato, ciò che è, da oltre quindici anni, il P.S.D.I. nella vita politica italiana [...] In oltre la metà del tempo di questa Legislatura, con le sue idee vive, con la lungimiranza dei gruppi dirigenti, con la lealtà dei Gruppi Parlamentari, il P.S.D.I. ha dato un appoggio necessario ed insostituibile alla vita e alla opera di tre Governi […] Della presente esperienza politica proprio l’on. Saragat fu pioniere ed essa ha bisogno ancora del contributo, dell’impulso, delle idee, del sostegno e delle garanzie del PSDI»3. Saragat si soffermò sull’impegno dimostrato dai socialdemocratici italiani per la costruzione dell’unità europea e su quei temi divenuti centrali nella sua attività politica e istituzionale: case, scuole, ospedali e riforma previdenziale; parlò dell’opera svolta dal governo di centro-sinistra e dei risultati raggiunti con la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ribadì la sua fiducia nella possibilità di uno sviluppo democratico interno al PSI, proponendo ai delegati di accettare la proposta avanzata dai compagni socialisti di un accordo “attorno ad un programma di cinque anni, centrato sulla politica di piano”, che non si sarebbe dovuta esaurire nella programmazione economica ma in una più generale azione comune sul fronte della politica interna ed estera.
Gli anni che vanno dal 1962, con l’avvio della politica di centro-sinistra e l’inserimento del PSI nell’area governativa, al 1966, l’anno della riunificazione e della Costituente dei socialisti italiani, furono segnati da importanti avvenimenti: l’elezione di Segni alla Presidenza della Repubblica; il Concilio Vaticano II; le elezioni politiche del 1963; la frattura provocata da Giorgio Amendola nelle fila del PCI; l’elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica; il XXXVI congresso nazionale del PSI che approvò, di fatto, l’unificazione con il PSDI.
Le elezioni amministrative del giugno 1962 registrarono un aumento dei consensi da parte del Partito socialista democratico italiano, che in questa fase crebbe ulteriormente passando da 100 a 200 mila iscritti.
La campagna elettorale per le elezioni politiche dell’aprile 1963 fu caratterizzata dal dibattito sulle politiche di centro-sinistra e sull’unità dei cattolici intorno alla DC.
I socialdemocratici, strenui sostenitori del centro-sinistra, considerando anche il fatto che il Concilio Vaticano II aveva aperto ai democristiani uno “spazio a sinistra” del tutto nuovo, puntarono chiaramente sull’elettorato di centro. Saragat fu uno dei più attivi protagonisti della campagna elettorale: dichiarò scomparso il marxismo come dottrina ufficiale, ponendo l’etica cristiana alla base del socialismo democratico. La DC, dal canto suo, alimentava una propaganda elettorale fondata sull’anticomunismo e sull’unità dei cattolici nella vita politica nazionale, così come chiedeva apertamente la stessa Conferenza episcopale italiana.
Avendo fermamente sostenuto la politica di centro-sinistra e altrettanto fortemente contrastato le strategie centrista e frontista, il PSDI uscì vincente dalle elezioni, ottenendo oltre mezzo milione di voti in più rispetto alle elezioni politiche del 1958 (dal 4,6 al 6,1 per cento dei consensi). Si registrava un arretramento della DC, una leggera flessione del PSI e il notevole avanzamento del PCI, che guadagnava oltre un milione di voti.
I socialdemocratici, soddisfatti dai risultati elettorali conseguiti, ma preoccupati dalla crescita elettorale dei comunisti, chiesero le dimissioni di Fanfani, attribuendogli una serie di “errori di direzione politica”, compiuti – a loro avviso – nei mesi precedenti al voto. In realtà, per rendere possibile il proseguimento del centro-sinistra, Saragat venne incontro alla DC, fortemente indebolita dagli esiti elettorali, cercando di tranquillizzare le correnti democristiane contrarie al centro-sinistra, proponendo un cambio alla guida del governo. Fu, quindi, varata una compagine ministeriale monocolore presieduta da Giovanni Leone.
Nell’ottobre 1963, si tenne un congresso nazionale straordinario del PSI, convocato per dare una soluzione definitiva alla complessa questione relativa all’ingresso dei socialisti nel governo e che vide prevalere la linea di Nenni con il sostegno di Riccardo Lombardi.
Dalla crisi del governo Fanfani si giunse, quindi, alla nascita, nel dicembre 1963, del primo governo organico di centro-sinistra, a partecipazione socialista, guidato da Moro e con Nenni alla vicepresidenza. Nella intensa discussione fra i partiti della coalizione di governo, non priva di toni alti e dure polemiche, il dato principale, che sarebbe stato evidenziato, fu quello della “nuova consapevolezza” raggiunta all’interno del PSI, sulla necessità di assumere responsabilità di governo, a fronte di una crisi economica nazionale che si aggravava. Nei mesi successivi, i socialisti democratici avrebbero costantemente rivendicato al loro partito la funzione di “cerniera”, svolta nei confronti del PSI, nella lunga fase di gestazione del centro-sinistra organico4.
Nel suo discorso programmatico, Moro fece esplicito riferimento al particolare impegno che sarebbe toccato ai socialisti con la redazione di un “piano quinquennale” (1965-1969), affidato al ministro Antonio Giolitti.
Entrava, per la prima volta, a vele spiegate, nell’azione di governo, il tema della programmazione economica, che i socialisti democratici, sin dal 1947, nei governi De Gasperi, avevano fortemente sostenuto – con l’azione di Roberto Tremelloni – contro le resistenze democristiane, liberali e confindustriali. Quella battaglia era stata vinta, soprattutto grazie alle condizioni poste dagli americani per la concessione degli aiuti del piano Marshall, che si richiedeva fossero inseriti in un piano economico nazionale, redatto dall’Italia e da ciascuno degli altri sedici paesi europei aderenti al Piano. Il lungo discorso programmatico di Moro trattava anche dell’impegnativo ruolo assegnato ai socialisti democratici: Saragat, ministro degli Affari esteri, Tremelloni, ministro delle Finanze, Preti, ministro senza portafoglio per la Riforma della Pubblica amministrazione.
Ritornò all’attenzione, nel discorso di Moro, anche il tema dell’atlantismo, connesso con quello dell’europeismo, sul quale Saragat e i socialdemocratici, sin dalla scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947, avevano impegnato una battaglia culturale, soprattutto nei governi De Gasperi, a fronte della netta opposizione di socialisti e comunisti5.
Il governo Moro affrontò numerose e importanti questioni politiche, fatte proprie dai socialisti democratici sin dall’immediato dopoguerra.
Ciascuno di questi temi meriterebbe un discorso a sé: dalla proposta di uno statuto dei lavoratori alla riforma regionale; dai problemi della scuola statale alla nuova legge urbanistica, molto attesa, sino ad importanti provvedimenti sull’economia e sul Mezzogiorno; ed infine, più significativi fra tutti, il “Piano casa” e la molto controversa riforma dei patti agrari6. In questo impegnativo programma, i temi della legge urbanistica e della programmazione quinquennale rappresentarono motivo di forte contrasto con la destra democristiana, gruppi del potere economico e parti della Confindustria, provocando la crisi e la caduta del governo nel luglio 1964.
Anche sulla politica estera le “convergenze” fra Moro e Saragat furono forti. Molte delle tematiche, affrontate da Moro nella sua azione di governo, già da tre lustri costituivano patrimonio culturale del PSDI e furono riprese da Saragat, il quale, richiamandosi proprio alle posizioni del Presidente del Consiglio dei ministri, avrebbe costantemente rimarcato la forte distanza della compagine governativa, sui temi della politica estera, rispetto al PCI7.
Un altro aspetto assai significativo del rapporto fra Moro e i socialdemocratici, durante il primo governo del leader democristiano, fu quello inerente le politiche economico-finanziarie, di cui era responsabile Tremelloni8.
A scorrere i verbali del Consiglio dei ministri del primo governo Moro, si nota una costante presenza dei disegni di legge del ministro Tremelloni, che ammontano a qualche decina. Di ciò, un solo dato è, in questa sede, possibile evidenziare: l’impegno di Tremelloni verso una semplificazione e razionalizzazione delle norme burocratiche. Del resto l’esponente socialista democratico si era formato una lunga esperienza su questi temi, sin dal triennio 1947-1949, allorquando, chiamato alla direzione italiana del piano Marshall, si era fatto sostenitore, presso De Gasperi, di un’opera di svecchiamento normativo e di funzionalizzazione degli apparati burocratici agli obiettivi individuati dal Piano9. Come si può comprendere, quello affidato da Moro a Tremelloni era un compito immane: liberare l’economia italiana dai persistenti vincoli e dagli intralci normativi dello Stato autocratico fascista e adeguare le norme alla realtà internazionale ed europea in costante evoluzione. È sufficiente ricordare, a questo proposito, i numerosi provvedimenti di semplificazione e di detassazione sulle esportazioni italiane, ai quali forse sarebbe da attribuirsi il risultato positivo di un aumento delle merci in uscita, nel corso di otto mesi, di circa il 10 per cento10.
I rapporti fra Moro e i socialisti democratici si consolidarono in occasione del varo del secondo governo dello statista democristiano, all’indomani della crisi del luglio 1964.
La crisi governativa si originò dai contrasti interni alla maggioranza sul problema della scuola privata, ma già da alcune settimane il governo era in fibrillazione a causa del dissenso del ministro del Tesoro, il democristiano Emilio Colombo, in merito alla legge urbanistica. Una forte resistenza, tuttavia, si era manifestata anche negli ambienti economici rispetto al piano di sviluppo quinquennale, che il ministro del Bilancio, il socialista Giolitti, era stato incaricato di redigere.
Superata la crisi di luglio, la compagine ministeriale del secondo governo Moro risultava pressoché identica a quella del primo. Pur nella esiguità numerica della rappresentanza ministeriale socialista democratica, emerge un particolare impegno governativo e parlamentare dei sottosegretari Giuseppe Lupis, agli Esteri, e Pier Luigi Romita, ai Lavori pubblici, con la presentazione di numerosi disegni di legge sugli Istituti europei ed i rapporti fra Italia e Jugoslavia e sulla ricostruzione del Vajont e l’ampliamento della rete autostradale, soprattutto nel Mezzogiorno.
Il dibattito parlamentare, alla presentazione del secondo governo Moro, fece affiorare ulteriori punti di convergenza fra il Presidente del Consiglio dei ministri e i socialdemocratici, che erano rimasti in ombra nella discussione sulla fiducia al primo governo.
Il tema principale fu la dura critica, che divenne “antitesi radicale”, alle posizioni del PCI, protagonista in quei mesi di una fortissima campagna di accuse alla coalizione di centro-sinistra e in particolare al PSI. Moro, a questo proposito, con il varo del suo secondo governo, affermò il postulato della netta differenziazione fra le forze di governo e il PCI «sui grandi temi della libertà nella società e nello Stato»11.
Nel lungo dibattito sulla fiducia al primo governo Moro, infatti, le proposizioni e i toni forti anticomunisti erano rimasti del tutto assenti. Ma nei sei mesi che intercorsero fra i due dibattiti parlamentari sulla fiducia al primo e al secondo governo Moro, la situazione nella sinistra italiana si era deteriorata rapidamente. Il Presidente del Consiglio dei ministri lo comprese, rimarcando le distanze “culturali” e “ideali” fra la coalizione di centro-sinistra e l’opposizione comunista.
Un secondo forte elemento di convergenza fra Moro e i socialdemocratici, nell’ambito del secondo governo del leader democristiano, è individuabile nell’ampia serie di provvedimenti fiscali adottati a favore delle imprese e dei nuovi investimenti industriali, di cui fu artefice il ministro delle Finanze, Tremelloni. Le finalità di questi provvedimenti furono quelle di favorire la produzione e, quindi, l’occupazione industriale e si può ritenere, con buona fondatezza, che anche da essi abbia tratto impulso la ripresa dell’economia, registrata durante il terzo governo Moro, alla quale certamente contribuì il delinearsi di un ciclo economico favorevole sul piano internazionale.
Un altro aspetto interessante nell’azione politica del secondo governo Moro fu la presentazione, da parte del Ministro degli Esteri, Saragat, di una Dichiarazione per un nuovo trattato, volto a “istituzionalizzare” il processo d’integrazione europea anche sul piano politico, progetto che fallì per l’opposizione francese. In quella fase, la politica estera del governo italiano puntava ad un consolidamento dell’alleanza atlantica, e dei legami con gli Stati Uniti d’America, e al rafforzamento delle istituzioni europee. Sin dal primo governo Moro, Saragat riteneva necessario assecondare la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, soprattutto sulla limitazione degli armamenti atomici, accentuando il carattere difensivo del Patto atlantico. Sul piano della politica europea, il ministro degli Esteri socialdemocratico si distinse per un notevole attivismo, di stampo antigollista e filobritannico.
L’ultima fase del secondo governo Moro e il terzo governo Moro si svolsero quando Saragat era divenuto Presidente della Repubblica. L’elezione di Saragat avvenne nel dicembre 1964, al termine del 2 ° scrutinio; votarono in suo favore i tre partiti “laici”, socialisti, democristiani e, infine, anche i comunisti. Il neoeletto Capo dello Stato continuò a considerare quella dell’unità socialista una questione prioritaria, realizzabile – a suo dire – attorno alla figura di Nenni.
Con i congressi nazionali straordinari, il PSDI e il PSI giunsero alla tappa finale del processo di riunificazione, per dar vita, con l’assemblea plenaria della Costituente socialista, al nuovo partito unificato. Nel dicembre 1965 si svolse, a Roma, il congresso del PSI. La mozione di maggioranza sosteneva l’esigenza di “aprire di nuovo la strada all’unità di tutte le forze socialiste”. L’assise proponeva al PSDI di avviare una fase di azione comune a tutti i livelli, per attuare gli impegni di governo o eventualmente per sostenere una comune politica di opposizione. Il congresso del PSDI si svolse, poche settimane dopo, a Napoli, nel gennaio 1966. I socialdemocratici confermarono, senza alcun dubbio, la volontà di chiudere definitivamente il capitolo della scissione di palazzo Barberini.
La crisi governativa del gennaio 1966, successiva al voto della Camera dei Deputati sulla scuola materna di Stato, che vide l’opposizione della parte più clericale della DC, rappresentò il primo banco di prova per l’azione comune dei due partiti socialisti. Il presidente Saragat non nascose la sua propensione ad un reincarico a Moro, nonostante l’opposizione di alcuni settori democristiani. Il nuovo governo Moro fu, comunque, costituito alla fine di febbraio e la legge sulla scuola materna venne, infine, accettata dalla DC.
Moro, nel discorso di presentazione del suo terzo governo, ribadì la compattezza della compagine ministeriale e, soprattutto, la visione unitaria in politica economica. Ciò apparve un buon viatico per la definizione normativa delle procedure di programmazione, alla quale il Presidente del Consiglio dei ministri dedicò parte significativa del suo intervento. Al di là dell’eloquio, sempre assai involuto, il proposito di Moro, circa una politica di programmazione che si legasse alla riforma regionale, appariva riprendere molti dei temi da tempo proposti dai socialisti democratici, in particolare da Tremelloni.
Per quanto riguarda il processo di riunificazione socialista, esso ricevette un significativo impulso dalla partecipazione del PSI, come “ospite fraterno”, al congresso dell’Internazionale socialista di Stoccolma (maggio 1966).
Alla fine di luglio, il comitato paritetico, costituito sotto la presidenza di Nenni, approvò i documenti dell’unificazione, che vennero sottoposti, quindi, alla Costituente socialista. I contenuti della Carta dell’Unificazione sono sintetizzabili in tre punti principali: netta differenziazione dall’ideologia e dalla politica comunista, con l’esclusione di ogni possibilità di azione comune tra socialisti e comunisti; accettazione dei principi e del metodo del socialismo democratico; rispetto delle alleanze e dei patti internazionali sottoscritti dall’Italia.
Il 30 ottobre 1966, a Roma, nacque il Partito socialista unificato.
Con la riunificazione dei socialisti di Nenni e Saragat, sembravano esser venute meno le ragioni che avevano portato alla scissione di palazzo Barberini. In realtà, le due anime storiche del socialismo italiano si mostrarono subito insofferenti ad una coabitazione che, soprattutto alla base, apparve fin dagli inizi forzata.
Alle elezioni politiche del maggio 1968, caratterizzate da una radicale contestazione della classe politica da parte dei giovani studenti, due terzi dei deputati socialisti eletti provenivano dalle fila del PSI ed un terzo dal PSDI. Sia le elezioni amministrative parziali del novembre 1966 sia le elezioni politiche del maggio 1968 non furono favorevoli ai socialisti. Alle elezioni politiche, infatti, i due partiti riunificati registrarono in totale una flessione dei consensi che superava il 5 per cento. Le due anime, massimalista e riformista, del partito socialista, quindi, si rivitalizzarono sino ad arrivare ad uno scontro totale incentrato, in particolare, sulla politica di centro-sinistra, sui rapporti con il PCI e sulla ripresa della collaborazione governativa con DC e PRI, lasciando eventualmente al congresso nazionale la decisione se ritornare o meno al governo.
Alla fine dell’ottobre 1968 si svolse, a Roma, il primo congresso nazionale del PSU che divenne Partito socialista italiano - Sezione dell’Internazionale socialista. Le cinque correnti che si erano confrontate durante la fase precongressuale non riuscirono a trovare un punto d’incontro sui principali temi politici e organizzativi; il congresso, quindi, non fu in grado di approvare una linea politica chiara e unitaria. Nel comitato centrale del novembre successivo, i socialisti si pronunciarono, con una esigua maggioranza, per il ritorno al governo, considerando conclusa l’esperienza del ministero monocolore presieduto da Leone. Nel dicembre, fu costituito il governo Rumor, con Francesco De Martino alla vicepresidenza.
L’unità socialista, tuttavia, durò pochi mesi ancora, minata dalla complessa situazione sociale italiana, segnata dalla dilagante ondata di violenza antisistema, e soprattutto dall’insofferenza della sinistra di Lombardi e De Martino, in aperto dissenso con la componente socialdemocratica del partito. Anche la DC viveva una fase di grave crisi interna e di contrasto fra le numerose correnti.
Negli ambienti politici più moderati prese corpo, a questo punto, l’idea che, per arginare l’avanzata comunista e dei gruppi extraparlamentari, fosse necessario richiamare al governo i liberali, escludendo quei socialisti più vicini all’estrema sinistra.
In questa complessa situazione, quindi, i precari equilibri interni al partito socialista vennero definitivamente meno e nel luglio 1969, dopo mesi di tensioni e accuse reciproche, i socialisti italiani tornarono a dividersi; il processo di riunificazione, così tanto voluto e alimentato da Saragat e Nenni, si risolveva in un ennesimo fallimento.
Più in generale, sui risultati delle politiche dei governi di centro-sinistra la discussione storiografica resta ancora aperta e certamente ad essa può giovare una più approfondita conoscenza del lavoro svolto dalla delegazione socialista democratica al governo.








NOTE
1 A questo proposito rimando al mio Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 195-209.^
2 VII Congresso dell’Internazionale Socialista, intervento di Giuseppe Saragat, in “L’Internazionale Socialista 1864-1964”, presentazione di Alessandro Schiavi, a cura dell’Istituto Studi Socialisti di Firenze, Cassino-Roma, IPEM, 1964, p. 146.^
3 Partito Socialista Democratico Italiano, XIII Congresso Nazionale, Resoconto sommario, in Archivio Centrale dello Stato (abbr: ACS), Ministero dell’Interno, Gabinetto, Partiti politici, Partito socialdemocratico italiano, 1944-1966, busta 75, fasc. 180/P/94, pp. 2-3.^
4 Cfr. Atti del Parlamento italiano (abbr: API), Camera dei Deputati, Discussioni, seduta del 16 dicembre 1963, intervento di Flavio Orlandi, pp. 4183-4184.^
5 Sull’atlantismo e l’europeismo dei socialisti democratici italiani rimando al mio Il piano Marshall e la “parabola terzaforzista” del Partito socialista dei lavoratori italiani, in «Ventunesimo Secolo», rivista di studi sulle transizioni, n. 13, giugno 2007, pp. 153-182.^
6 Cfr. API, cit., seduta del 12 dicembre 1963, intervento di Aldo Moro, pp. 3952-3964.^
7 Cfr. API, cit., seduta pomeridiana del 5 marzo 1964, intervento di Giuseppe Saragat, pp. 5503-5504.^
8 L’intensa attività politica e istituzionale di Roberto Tremelloni è testimoniata dalla documentazione custodita presso il Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa di Milano.^
9 Sull’atteggiamento positivo dei socialisti democratici italiani dinanzi al piano Marshall rimando ai miei Roberto Tremelloni e l’attuazione del piano Marshall in Italia, in «Ventunesimo Secolo», n. 10, luglio 2006, pp. 89-118, e I socialisti democratici italiani fra questione meridionale e piano Marshall, in «L’Acropoli», rivista bimestrale diretta da Giuseppe Galasso, 12 (2011), pp. 482-490.^
10 Cfr. ACS, Archivio Aldo Moro, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei ministri del 24 aprile 1964, busta 40, fasc. 2.^
11 API, cit., seduta del 30 luglio 1964, intervento di Aldo Moro, p. 8662.^
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