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Diario italiano (2011-2012). Il panorama economico da un autunno all’altro: Draghi e Monti (ottobre 1912)
di Massimo Lo Cicero
1. Premessa e sommario

Dall’autunno del 2011 a quello del 2012, nel nostro paese, il tratto dominante del panorama economico, che si evolve nel tentativo di trovare una configurazione dell’Unione Europea più adeguata della sua storia precedente sul terreno istituzionale e finanziario, e più coerente con quello che si pensa possa essere la configurazione delle relazioni internazionali, economiche e finanziarie – dopo la prima crisi sistemica del mercato globale, convenzionalmente datata al 2008, il fallimento di Lehman Brothers – è la presenza di Mario Draghi e Mario Monti, rispettivamente alla guida della BCE e del Governo italiano.
Mario Draghi, che è nato a Roma, il 3 settembre del 1947 è un economista, allievo di Federico Caffè: è stato professore ordinario, manager nelle istituzioni finanziarie internazionali, alla direzione generale del tesoro ed alla guida della Banca d’Italia, al Financial Stability Board, che è l’organismo nel quale sono stati elaborati i principi e le linee guida per orientare verso nuovi equilibri i mercati e le istituzioni finanziarie del mondo contemporaneo. Dal 1° novembre del 2011 è presidente della Banca Centrale Europea; ha pronunciato il suo primo discorso, in quella carica, al Parlamento Europeo il 18 novembre del 20111. Mario Monti è nato a Varese, il marzo 1943, è un economista, un accademico – è stato rettore e presidente della Università Bocconi esperto di economia e politica monetaria, ha studiato con James Tobin, premio Nobel ed economic advisor di Kennedy, ha lavorato per banche ed organismi internazionali. È stato per due volte Commissario Europeo, al mercato interno prima e poi alla tutela della concorrenza. Viene nominato Senatore a vita il 9 novembre 2011. Dal 16 novembre, due giorni prima del debutto di Draghi al Parlamento Europeo, ha assunto l’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana e allo stesso tempo di Ministro dell’Economia e delle Finanze dello stesso governo. Un incarico ceduto, successivamente (11 luglio 2012), al professor Vittorio Grilli, già Ragioniere Generale dello Stato e Direttore Generale del Tesoro negli anni precedenti, nominato, al momento della formazione del Governo presieduto da Monti, sottosegretario al Ministro dell’Economia e delle Finanze. Monti e Draghi hanno avuto percorsi di carriera e ruoli diversi, anche per motivi anagrafici, ma, per certi versi, paralleli. Il minimo comun denominatore è una lunga e fruttuosa collaborazione, in posizioni diverse ed in ruoli differenti, con Guido Carli: protagonista indiscusso della stagione politica, monetaria e finanziaria che ha accompagnato la progressiva affermazione professionale di entrambi2.
In questo articolo proponiamo una interpretazione del ruolo e delle conseguenze che la presenza di Monti e Draghi ha sviluppato nel rapporto tra lo stato dell’economia italiana, nel contesto europeo ed internazionale, e le manovre di politica economica necessarie al ritrovamento di equilibri più stabili che possano garantire una ripresa della crescita anche in Europa e non solo nel resto del mondo. Ovviamente, la presenza e la iniziativa di Monti e di Draghi ha avuto anche la funzione di arrivare ad una configurazione dei contenuti di quelle manovre che fosse adeguata al conseguimento dell’obbiettivo di lungo periodo: una ripresa equilibrata della crescita ed una riduzione delle diseguaglianze di reddito e di benessere che sono osservabili tra le nazioni che aderiscono all’Unione Europea ed all’interno di alcune economie nazionali. Il periodo di tempo che analizziamo non è lungo, si tratta solo di un anno, ma è stato abbastanza denso di avvenimenti.
Il metodo con il quale esponiamo l’analisi potrebbe apparire frammentario. Perché ci riferiremo a singoli nodi tematici che hanno visto la presenza di Monti o di Draghi come determinante. Ma, nel suo complesso, speriamo che dal testo emerga un profilo unitario e coerente di quello che è stato fatto, del perché sia avvenuto, di quali possano essere gli esiti di questi primi passi necessari per uscire dalla recessione ed avviare un processo espansivo dell’economia nell’Unione Europea.
Nel mese di ottobre del 2011 un insieme di eventi concomitanti hanno creato un vortice dove le politiche dell’Italia e quelle dell’Europa, nello sforzo di trovare un punto di convergenza, in un tempo molto ravvicinato, hanno rischiato di generare un punto di crisi, per l’Europa, che avrebbe finito con l’essere un punto di crisi rilevante anche per l’economia americana. Una incoerenza dichiarata, tra le scelte italiane e quelle europee, avrebbe generato una crisi dell’area euro che l’Europa stessa non avrebbe potuto sopportare. L’Italia è la settima economia del mondo ed è anche una delle prime tre economie industriali europee: è troppo grande per fallire, come si dice oggi delle grandi banche mondiali, perché la sua crisi diventerebbe una crisi di sistema. In questa fragilità c’è anche la forza dell’Italia: il governo della quale, messo alle strette dall’ultimatum di Francia e Germania, il “consolato” che reggeva le sorti della politica europea nelle persone di Sarkozy e Merkel, ha reagito con una proposta che era meglio non rifiutare da parte dei due leader che si percepivano anche come i principali attori politici dell’eurozona. La fragilità della legittimità su cui si fonda questa presunzione ha consentito ad una proposta molto discutibile, nei contenuti come nella forma – una lettera di intenti e non un impianto di politica economica approvato dal Parlamento e formulato dal Governo – di essere recepita ed ha offerto la ulteriore conferma che Berlusconi fosse un leader discutibile ma ancora non sostituibile, allo stato degli equilibri europei come di quelli domestici ed interni al nostro paese. Mentre, senza alcun mandato di rappresentanza democratica Merkel e Sarkozy davano i voti ai governi europei, si è realizzato un delicato processo di aggiustamento in due organismi decisivi per le sorti dell’eurozona.
Mario Draghi ha sostituito Trichet alla banca centrale Europea ed Ignazio Visco ha sostituito Draghi alla Banca d’Italia. Anche in questo caso si è sfiorato il rischio di un allarme rosso: ed, ancora una volta, per uno strano triangolo tra Europa, Francia ed Italia nel quale i francesi avrebbero subito un ridimensionamento nelle posizioni di governo delle autorità monetarie europee. Al di là del gossip sulle persone coinvolte, e dei loro comportamenti, questa tensione mostra come siano ancora fragili le fondamenta dell’edificio istituzionale europeo. Del resto se i nostri leader politici hanno proposto, per la banca centrale italiana, motivazioni legate all’essere nati al nord od al sud del Paese, come leva per la scelta del nuovo governatore, simmetricamente, i francesi ritenevano che la nazionalità fosse un elemento determinante per partecipare, in maniera bilanciata, al governo della BCE. Il fatto è che se l’Unione Europea definisce un perimetro politico, ed una istituzione che rappresenta i popoli inclusi in quel perimetro, poco conta dove siano nate le persone: conterebbe cosa sappiano fare e se siano adatte a ricoprire incarichi di responsabilità di cui dovranno comunque rendere conto ai popoli europei per i quali devono lavorare nell’ambito dei mandati che assumono. Se conta l’anagrafe, dentro e fuori dei perimetri dei paesi che aderiscono all’Unione, siamo ancora molto indietro rispetto alle ambizioni che ci proponiamo di avere negli sviluppi del nostro futuro europeo.
Ma veniamo, infine, al merito dei temi di politica economica che, una volta ottenuto dall’Italia l’assenso alla sua lettera di intenti ed una volta assestato il governo delle autorità monetarie, saranno al centro del tentativo di superare la recessione in atto ed avviare una fase di crescita. Alesina e Giavazzi avevano indicato almeno il sommario di una politica per la crescita: indicando con chiarezza che la crescita nasce dalla conoscenza, dalla capacità, dalle competenze delle persone e dalla coesione che si sviluppa tra le persone, piuttosto che dalla concertazione che le associazioni di rappresentanza, di singole categorie di persone, stipulano con le pubbliche istituzioni.
La politica economica italiana, più in generale ed in una prospettiva relativa al futuro prossimo, che stiamo per descrivere, sconta due errori di valutazione, entrambi maturati nell’ambito del Governo in carica.
Il primo errore sta nel non aver capito che la mancata crescita, antecedente la crisi, sarebbe stata una condizione che avrebbe condizionato pesantemente il rilancio della crescita dopo la crisi.
È stato importante sostenere famiglie e disoccupati con una operazione di redistribuzione del reddito ma, ad un certo punto, la torta da ridistribuire finisce in una guerra tra poveri, se non si mettono nel forno nuove torte da distribuire. Hanno congiurato in questa ipotesi tre retoriche negative che circolano nel paese: la convinzione che con l’economia sommersa siamo più ricchi di quanto pensiamo di essere; la convinzione che sia meglio accettare una decrescita del sistema e riequilibrare verso i beni pubblici una società troppo spostata verso i consumi privati; la convinzione che, come si dice nel Sud, «calati giunco che passa la piena» sia la migliore politica economica da seguire. Le tre retoriche non sono un sistema organico e coordinato di pensiero ma influenzano, da destra e da sinistra, l’opinione pubblica e ci trasformano, spesso, in un paese di serie B nonostante in Italia si potrebbe essere, come a volte abbiamo dimostrato nella nostra storia, un paese di serie A. Lasciamo da parte le retoriche negative che ci portiamo dietro e ricominciamo dal fatto che dobbiamo fondarci sulle nostre conoscenze, la nostra capacità di coordinarci tra noi, per creare organizzazioni grandi come sta diventando grande il mercato globale, e sulla nostra capacità di produrre e vendere sul mercato domestico e sul mercato internazionale ma anche sulla esigenza di comprare meno energia e meno prodotti alimentari all’estero, per aprire una stagione di crescita che è l’unica strada per essere, domani, in grado di ripagare il debito. Il debito si può sostenere se i tassi di interesse sono inferiori od uguali ai tassi di crescita del prodotto con cui lo dobbiamo ripagare. Dunque non dobbiamo fare salire troppo i tassi di interesse ma dobbiamo anche fare salire il tasso di crescita. Come si è detto implicitamente, fino ad ora, il nostro problema è lo squilibrio tra debito e prodotto interno lordo. Non avevamo bisogno di ottenere precipitosamente un bilancio in pareggio né di inserire questo principio nella carta costituzionale. Questa ossessione del rigore contabile è un punto elaborato dal “consolato” improprio che guida l’Europa e che danneggerà anche la Francia a e la Germania. Perché una Europa deflazionata sarà un mercato nel quale anche le loro economie avranno problemi a crescere. E non si può sempre essere esportatori verso i mercati non euro. Il secondo errore della politica economica italiana è stato quello di adottare come obiettivo chiave la riduzione del deficit e non la ripresa della crescita e l’alienazione di parte del patrimonio pubblico per ridurre lo stock di debito.
Nelle politiche per la crescita un ruolo decisivo lo avranno anche le banche e non solo gli interventi pubblici. E, se con il Fondo Salva Stati si fronteggia davvero il rischio dei titoli pubblici in portafoglio alle banche, le banche dovrebbero anche attrezzarsi per trovare e supportare nuovi progetti industriali che alimentino la crescita europea.



2. Lo stato delle cose alla nascita del Governo Monti: le conseguenze economiche del consolato Franco-Tedesco in Europa. Sei lezioni americane al nuovo governo italiano. (novembre 2011)

Sei economisti americani, tutti abbastanza autorevoli, indicano nell’autunno del 2011, soluzioni per i problemi della crisi europea, del debito sovrano, della fragilità delle banche e della moneta unica, radicalmente diversa dal Sarkozy & Merkel Consensus che rappresenta, quasi da un anno, una sorta di mantra: fondato sul rigore fiscale e sul rimando delle scelte da attuare per contrastare questa crisi. Nel mese di novembre, mentre queste diagnosi apparivano sulle pagine dei magazine internazionali, si è formato in Italia un nuovo Governo, al quale è stato concesso un ampio sostegno parlamentare al momento del suo insediamento. Il 4 dicembre, in presenza di una prima manovra anticrisi, che il Governo italiano avrebbe varato nel pomeriggio, due economisti italiani hanno presentato una critica molto puntuale di un insieme di provvedimenti, ventilati ed annunciati, che si collocavano piuttosto nel solco del Sarkozy & Merkel Consensus, e forse anche nella scia di un approccio riconducibile al precedente ministro dell’economia, Giulio Tremonti. Il Governo Monti, insomma, avrebbe scelto di continuare su una strada, quella del Governo precedente, che larga parte dell’opinione economica e politica degli Stati Uniti, riteneva sbagliata, o controproducente, rispetto alle esigenze necessarie per uscire dal clima recessivo nel quale versano le economie avanzate del mondo, ed in particolare Stati Uniti ed Unione Europea, dopo la prima crisi finanziaria globale. Ma procediamo con ordine.
Gli economisti americani, le opinioni dei quali possono essere lette nei link allegati a questo testo, sono sei: Krugman, Rogoff, Roubini, Frankel, Shiller ed Eichengreen. Assai critici sulla manovra del Governo Monti, sono anche, e resteranno in seguito, Alesina e Giavazzi, anche di questo articolo offriamo il link3.
Il minimo comun denominatore delle critiche americane alle opinioni della coppia Sarkozy-Merkel è il rifiuto di una opzione fondata solo sul rigore fiscale ed una politica monetaria restrittiva per arginare la crisi europea: questa politica conduce ad una deflazione generalizzata, ed inutile, del mercato nel vecchio continente. La deflazione, a sua volta, riduce le prospettive di crescita a medio termine e rende ancora più pericoloso, di conseguenza, sia il divario di produttività – un dato che si legge tra i paesi europei del nord-est e quelli del sud-ovest – che la dimensione del quoziente tra debito e prodotto interno lordo nei paesi più fragili, sotto il profilo della produttività. Le ampie dimensioni dei loro debiti pubblici, che non possono essere ridotte solo con avanzi progressivi di bilancio, rapportate a volumi decrescenti o stazionari del reddito prodotto, saranno considerate una conferma e non una smentita della fragilità del debito sovrano di quei paesi e dell’intera Unione Europea. Perché quella fragilità si combinerà con la necessità di ricapitalizzare le banche europee, le quali, nelle more di questa eventualità, dovranno rallentare e forse ridurre la dimensione del credito in essere alle imprese. Allargando la spirale recessiva avviata dalla riduzione delle spese pubbliche e dei consumi, alimentata dall’incremento di tassazione, e dalla restrizione della base monetaria europea che si combinerebbe con un razionamento del credito generato dal ripiegamento imposto alle banche. Un simile scenario, sostengono gli economisti americani, comprometterebbe la stessa possibilità di ridare uno slancio espansivo all’insieme delle economie avanzate: sarebbe un ostacolo agli sforzi che l’economia americana, e la sua classe dirigente, stanno ponendo in essere per rimettere in moto la crescita e lo sviluppo economico. Stiglitz, anche prima di novembre, aveva annunciato chiaramente che le politiche europee stavano generando un contagio negativo sull’opinione pubblica americana che comprometteva, come le idee di economisti morti da tempo spesso avevano condizionato negativamente i governi in carica, gli sforzi di ridare una prospettiva espansiva al reddito ed all’occupazione4.
Vediamo in dettaglio i sei punti sollevati dagli economisti americani.
Nouriel Roubini individua due gruppi distinti e diversi di economie nell’ambito dell’eurozona: la periferia ed il cuore della stessa. Da una parte i piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) e dall’altra il cuore dell’eurozona (Germania, Austria, Olanda e Francia). La periferia, a bassa produttività, consuma più di quanto produca e produce deficit nella bilancia corrente dei pagamenti. Il cuore produce più di quanto consuma e risulta esportatore netto, sia sul mercato domestico dell’Unione Europea che su quello internazionale. La periferia, i piigs, si divide a sua volta nella scelta della copertura finanziaria per i propri eccessi di consumo: Spagna ed Irlanda hanno esagerato nel debito privato, gli altri hanno fatto un cattivo ricorso al debito pubblico: hanno finanziato spesa corrente e progetti il cui rendimento netto sociale era inferiore al costo del debito emesso dagli Stati per finanziare quelle spese e quegli investimenti. Nel cuore europeo, che esporta e cresce, c’è una moderata tensione sui prezzi e, di conseguenza, il Sarkozy&Merkel Consensus non prevede né politiche di quantitative easing monetario né una funzione di prestatore di ultima istanza per la Banca Centrale Europea, capace di assorbire le tensioni sul debito, pubblico e privato, generate dalla periferia.
Roubini aggiunge anche una singolare considerazione che riguarda il nostro paese, indirettamente. Ricordando la compensazione tra sud sussidiato e nord esportatore negli anni del miracolo italiano e ricordando, anche, che lo squilibrio tra Germania e Grecia, od altri paesi piigs, non si può chiudere se non nel perimetro di un medesimo Stato nazionale e di una medesima banca centrale. Condizione non osservabile nel caso dell’eurozona5. Krugman riprende e rilancia le tesi di Roubini. Ed arriva ad una conclusione drastica, dopo aver chiarito che, nell’aprile del 2011, si sia verificato un salto di qualità nella dinamica della crisi. Quando la Banca Centrale Europea aumentò i tassi di interesse per ridurre l’inflazione in tutta la eurozona. Ma la Grecia sta all’Europa come Miami agli Stati Uniti. Dunque i mercati finanziari, secondo Krugman, hanno perso la fiducia nell’Euro come moneta unica e condivisa ed hanno pensato che i tassi debbano essere riportati in alto in tutta l’eurozona. «Non è difficile vedere perché – dice letteralmente Krugman – la combinazione di austerità per tutti ed una banca centrale morbosamente ossessionata dall’inflazione renda impossibile per paesi indebitati sottrarsi alla trappola del debito e sia, di conseguenza, una ricetta per allargare sia il default del debito, che la fuga dai depositi ed un collasso finanziario generale». Krugman conclude, rivolgendosi agli americani, di rispondere – a chi crede che le politiche espansive cambieranno l’economia americana in quella greca – che, se si taglia la spesa durante una recessione, allora, gli Stati Uniti diventeranno come l’Europa6. Ma ci sono altre quattro dimensioni, oltre la macroeconomia, che vanno prese in esame. La prima riguarda la sostenibilità del capitalismo, dell’economia monetaria di produzione, nella quale da alcuni secoli si è venuta configurando, secondo modalità alternative e differenziate, l’insieme delle relazioni economiche. Il tema è affrontato da Kenneth Rogoff. Qui la questione si pone tra il darwiniano, ed autoritario, modello cinese del capitalismo in uno stato autoritario, e non in una democrazia, ed il capitalismo europeo, che combina benefici sociali e tutela della salute con un ragionevole orario di lavoro ed una larga disponibilità di tempo libero. Ma si pone anche, come una incognita, il destino della straordinaria corsa che, dalla rivoluzione industriale in poi, e fino agli sviluppi della rivoluzione digitale e delle bolle finanziarie seguite alla sua comparsa, ha allargato la ricchezza ma anche la diseguaglianza. In due diverse dimensioni. Da una parte l’assoluta incapacità di gestire beni naturali, come l’acqua ed il clima, e dall’altra il costo, insostenibile, di regimi puntuali e circoscritti di welfare e protezione sociale, nel perimetro dei paesi di antica industrializzazione. Nel mondo della finanza, infine, esiste un problema: lo straordinario cambiamento delle tecnologie utilizzate non ha permesso una riduzione dei rischi specifici di quel mondo, l’industria della finanza, anzi, e per certi versi, li ha ingigantiti. Anche per le dimensioni che assume l’azzardo morale quando si dilata la percezione, prima ancora della conoscenza, su quello che rappresentano i prodotti ed i servizi offerti ai propri clienti. Rogoff, di fronte a questi problemi, conclude che, in presenza di una crescente disuguaglianza, di inquinamento ambientale e costo della salute, ma anche di instabilità finanziaria e di una paralisi operativa – per motivi autoritari o per sfilacciamento della democrazia – dei regimi politici, il futuro del capitalismo non sembra così sicuro nei prossimi decenni di quanto non appaia ora7. A questo giudizio di Rogoff si possono collegare le ultime tre lezioni. La prima delle quali riguarda le neuroscienze e la finanza. Dice Shiller che oggi le neuroscienze ci hanno spiegato meglio come si formano i nostri comportamenti. E che oggi l’economia somiglia al nostro cervello: un network di persone che comunicano l’uno con l’altro con molti e diversi canali. «Il cervello, il computer e l’economia: tutti e tre sono strumenti (piattaforme?) il cui scopo è risolvere il fondamentale problema informativo di coordinare le attività di numerose entità – i neuroni, i transistor o le singole persone». Keynes, ricorda Shiller, riteneva che molte delle decisioni economiche vengono assunte in condizioni in cui non sono note le probabilità del rischio in esse implicito. Ed ancora oggi «il problema dell’economia, sostiene Shiller, è che ci siano spesso tante interpretazioni quanti sono gli economisti che descrivono la crisi». Insomma, per chiudere le contraddizioni del capitalismo, dobbiamo prima ritrovare le capacità di comunicazione, e di coordinamento, che rendono i mercati, qualche volta, capaci di funzionare come se ci fosse una mano invisibile che li guida. Ma anche evitare che qualcuno, più autoritario e meno democratico di quanto sia accaduto nei secoli alle nostre spalle, pensi di guidare davvero e con una unica mano visibile le scelte dello sviluppo e della crescita8. Si arriva, infine, alla lezione di Frankel, che commenta i nuovi governi tecnocratici con i quali si cerca di arginare la deriva della crisi europea negli ultimi mesi. Non siamo di fronte ad un punto di politica economica ma ad un punto che riguarda la natura e la capacità della classe dirigente, in generale. Dice Frankel che è arrivata l’ora dei tecnocrati ma anche che «molti economisti hanno compreso i rischi sottostanti l’unione monetaria in Europa. Sono i politici che hanno sottostimato le difficoltà quando essi hanno optato per la integrazione monetaria». Si torna quindi al problema dei linguaggi e dei comportamenti, della conoscenza delle conseguenze, e della capacità di guidare l’azione collettiva. Frankel non parla solo di problemi generali ma anche di questioni attuali e conclude dicendo che «né Papandreu né Monti potranno realizzare miracoli tecnocratici se non creano strumenti politici per rendere realizzabili politiche che ritengono giuste»9.
Anche l’ultima lezione ci riporta all’attualità, a partire dal titolo dell’articolo di Eichengreen: L’oscurità europea in pieno giorno!
Se Sarkozy e la Merkel intendono difendere davvero l’Euro devono capire che la sola istituzione che possa farlo è una banca centrale europea che abbia la copertura politica necessaria per preservare il sistema dell’eurozona creato nel tempo. «Se l’Euro deve diventare una moneta normale, l’Europa deve avere una banca centrale normale». Anche sull’Italia le opinioni sono nette: «L’Italia ha bisogno di tempo per mettere in atto le proprie politiche per la crescita»10. È vero ma, allora, è altrettanto vero – e questo lo diciamo noi per concludere questa rassegna – che non si può mantenere una incertezza di contorno alle terapie che, di volta in volta, ed in una frammentata successione temporale vengono annunciate. In gioco ci sono sia il destino dell’economia mondiale che il destino dell’Europa. Oltre quello dell’Italia, che, dell’Europa è una parte importante e significativa.
La crisi europea è chiaramente una crisi di democrazia, prima ancora che un problema di politica economica, di scelte sulla politica economica. Ma anche la crisi italiana si può ricondurre a questa tipologia. Gli ultimi venti anni, quelli della seconda repubblica, non hanno aggiunto nulla di nuovo, ed hanno peggiorato molte delle condizioni, che si erano già presentate nella crisi del 1992. La sterilità della politica ha ulteriormente compromesso, in questi venti anni, la nostra economia. Ora possiamo rimettere in movimento la nostra crescita solo se saremo capaci di mettere in movimento la crescita europea e di trovare una intesa tra Europa e Stati Uniti, perché si possa creare un nuovo assetto al mercato globale: che è una opportunità e non un problema. Ma per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso il Governo Monti doveva darci una prospettiva ed un percorso dentro quella prospettiva. E questa sfida si è realizzata solo in parte. Lasciare incertezza sul futuro, non indicando il percorso, ed annunciando solo singole parti di un disegno generale è un errore di comunicazione politica ma anche un ostacolo al raggiungimento di politiche che si ritengono giuste. Le lezioni americane, che abbiamo citato, ci dicono che dobbiamo abbandonare il Sarkozy&Merkel Consensus ma dobbiamo anche indicare la direzione in cui pensiamo di poter ritrovare la crescita. L’Agenda Monti, come è stata definita, ha oscillato, con variegata intensità su vari temi. Agire sul debito, ridimensionandolo cedendo beni mobiliari ed immobiliari dello Stato, è una scelta necessaria per ridurre la fragilità finanziaria. Agire sulla pressione fiscale, e sul deficit corrente dello Stato, impattando solo sui contribuenti che le tasse hanno già pagato non è una scelta accettabile. Ma anche pensare di trovare tutti gli evasori in un giorno e farli pagare di colpo è davvero incredibile prima ancora che improbabile. Ritrovare, invece, i termini di un linguaggio che generi nuovi e diversi comportamenti collettivi, in direzione di un vantaggio comune, avrebbe potuto aiutarci a riordinare il Welfare ed a migliorare le strutture della finanza e la capacità di produrre nelle fabbriche. Ritrovare un linguaggio ed un traguardo comune tra i paesi europei e tra Unione Europea e Stati Uniti non ridurrà i nostri rischi, in un mare che è ancora molto agitato, ma ci consentirà di navigare in una flotta compatta, dove alcuni possano aiutare gli altri e gli altri possano aiutare i primi. Un gruppo coeso è sempre meglio di un branco di cani sciolti. Ma deve essere governato. Ed il Governo Monti non ha sempre trovato il registro giusto per formulare politiche coerenti con la soluzione dei problemi da affrontare ma anche per dare, ad ogni cittadino, un contesto di senso ai motivi per i quali esse devono essere realizzate.



3. Il debutto di Mario Draghi indica ma non svela i tratti di una politica monetaria amica della crescita. (gennaio 2012)

Con la conferenza stampa di gennaio Mario Draghi inizia un percorso che condurrà progressivamente alla formulazione di una politica monetaria molto diversa da quella del suo predecessore11.
Sono importanti tre sue affermazioni: «We never precommit» non annunciamo cosa potremmo o vorremmo fare, annunciamo quello che abbiamo fatto. Ecco la prima delle tre. Questa affermazione è assai significativa, perché spiega come si deve comportare il banchiere centrale quando l’incertezza sul futuro è molto elevata, ed i rischi sono in agguato, essendo generati dall’azione degli operatori che sfidano proprio l’elevata incertezza. Se quegli operatori sono condizionati da una limitata razionalità, e da credenze poco fondate mentre l’autorità monetaria annuncia ipotesi ma non provvedimenti, aumenta la confusione delle lingue: le decisioni non sono mai effetto di una piena razionalità. Meglio annunciare quello che hai deciso di fare e non legarsi le mani con una ipotesi; gli operatori agiranno sugli effetti della decisione e non sulla base delle loro credenze.
Il fatto che non ci sia liquidità nel sistema non significa che non ci sia moneta. Seconda affermazione implicita di Draghi. Se le banche che hanno avuto accesso ai finanziamenti della BCE non sono le stesse che hanno depositato quella liquidità acquisita sulla medesima BCE, come viene riportato dalle cronache, siamo di fronte ad un quadro molto interessante. Ci sono banche liquide e banche poco liquide. Evidentemente le prime depositano fondi sulla BCE perché cercano di decifrare cosa accade dietro il velo dell’incertezza, prima di investire. Le seconde hanno avuto accesso ai finanziamenti ed hanno ripristinato condizioni tollerabili di liquidità. Altre banche cercano liquidità con aumenti di capitale, e fanno bene perché avranno più capacità di investire grazie all’incremento dell’equity ed al leverage che consentiranno i prestiti della BCE. Insomma, il problema è che la mancanza di fiducia, sul valore degli asset delle altre banche, e la incertezza sulla dinamica del sistema, hanno azzerato il mercato interbancario: le banche non si fidano delle banche e quelle liquide non trasferiscono abbastanza fondi a quelle illiquide. Dunque la BCE fa bene ad offrire strumenti a coloro che, non avendo accesso al credito delle altre banche, almeno si finanziano sulla banca centrale. In questo modo Mario Draghi fa funzionare la BCE come banca delle banche.
Terza affermazione importante: Mario Draghi ribadisce che la BCE sarà l’agente del Fondo Salva Stati. Notizia qualificante anche questa. Se la BCE sarà l’agente del Fondo non farà la banca degli Stati ma realizzerà al meglio le scelte del Fondo di ritirare dal mercato titoli di Stato. Ottimizzando la missione del Fondo e non passando il confine che lo statuto della BCE gli impone: non monetizzare il deficit pubblico sottoscrivendo debiti dello Stato; si tratta di una sorta di undicesimo comandamento del monetarismo fiscale, che piace alla cultura politica tedesca e che quella francese tende ad imitare. Mario Monti cerca compromessi su questo terreno, imponendo una sorta di monetarismo fiscale in Italia per ottenere dall’asse franco tedesco una politica monetaria keynesiana ed amica della crescita. Ed ecco la originalità di Mario Draghi: i Governi fanno politiche fiscali restrittive e la banca centrale, vincolata da una filosofia di fondo costruita sui principi del monetarismo fiscale, fa una politica keynesiana ed espansiva.
Cose che capitano e che spiegano come le regole vadano interpretate. Ma spiegano anche come la cosa che conta davvero sia l’etica delle conseguenze nei comportamenti di chi, interpretandole, assume decisioni nel ruolo che ricopre. Meno male che Mario Draghi sia stato scelto come presidente della BCE. Se ne compiacciono, come abbiamo appena detto, gli economisti americani, che ci ripetono, a piè sospinto, che le restrizioni fiscali si fanno sul fronte della spesa e non su quello delle entrate tributarie ma, in particolare, si fanno quando la domanda privata si espande sui mercati, perché lo Stato non spenda peggio dei privati. E non quando si contrae la domanda privata: questo è, al contrario, il caso in cui la politica fiscale dovrebbe essere espansiva e creare opportunità di crescita. Meno male che, con gli Stati europei cultori del monetarismo fiscale, convive un banchiere centrale di robusta cultura keynesiana e duttile almeno quanto lo era Guido Carli.
Mario Draghi, si può leggere nel testo integrale la fonte del quale viene citata in nota, commenta anche le politiche che il Governo Monti ha iniziato a disegnare, come quella con cui Monti intende rinnovare il mercato del lavoro. Draghi non nomina l’articolo 18, ma avverte che è necessario cancellare le rigidità del mercato del lavoro e rendere più flessibili i salari. «Le riforme strutturali devono essere fatte, per favorire la crescita economica e creare posti di lavoro». Si tratta di un percorso ineludibile in uno scenario ancora condizionato dalla crisi del debito sovrano. Ne segue un richiamo ad affrontare due nodi fondamentali che, se sciolti, potrebbero agevolare nel mese successivo un nuovo taglio dei tassi. Draghi aggiunge anche che «l’incertezza economica rimane elevata […] e che l’inflazione resterà sopra il 2% nei mesi a venire e poi scenderà». Per risolvere la crisi è importante «varare con urgenza il nuovo trattato fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact”) e il rafforzamento dell’Efsf, il fondo salva-stati».
Eventi che si tradurranno in fatti ma non nei tempi attesi da Draghi.
La direzione di marcia, comunque, ha indicato una prospettiva che diventerà sempre più robusta nonostante i ritardi della primavera nel 201212.





3. Gli apostoli della crescita. Dodici Stati Nazionali dell’Unione Europea dettano l’agenda politica alla Commissione: una spinta positiva per fare funzionare la farraginosa governance che disciplina il vecchio continente. (marzo 2012)

I primi passi del Governo Monti, come in ogni brusco trapasso, sono stati lenti ed, a volte, anche contraddittori. Troppi cambiamenti ed un doppio handicap: da una parte una ridondanza di ministri tecnici che erano anche alti dirigenti della pubblica amministrazione. Un Governo tecnico dovrebbe comunque essere un Governo che si pone in una relazione dialettica con la dimensione e le culture della pubblica amministrazione. Coinvolgere alti dirigenti nella struttura del Governo genera un paradosso: i “macchinisti” vengono trasferiti nella “macchina” della pubblica amministrazione che dovrebbero gestire, e che in effetti gestivano anche prima del trasferimento in questione.
Questa condizione genera una successiva contraddizione: la distanza che si crea tra Governo e Parlamento, che pure ha votato a larghissima maggioranza la nomina del Governo, in ragione della stretta relazione tecnica, tra Ministri ed alti dirigenti, confusi nella medesima funzione. La mancanza di un canale di comunicazione tra Governo e Parlamento non ha consentito di utilizzare in maniera compiuta la dimensione latitudinale della maggioranza e la profondità della cultura professionale dei ministri in carica. Molti provvedimenti hanno finito per essere manipolati troppe volte ed, anche dopo approvazione, non hanno generato tempestivamente gli atti amministrativi necessari perché essi fossero trasformati in atti e processi e non rimanessero solo dichiarazioni programmatiche o di principio. La prima impressione, nel trapasso dall’inverno del 2011 alla primavera del 2012, poteva anche sembrare opaca od appannata. Ma in primavera arrivano due segnali importanti: uno dal fronte del Governo, che si proietta, grazie al protagonismo del presidente del Consiglio dei Ministri, in una dimensione europea. L’altro da parte di Mario Draghi, che avvia una virata significativa rispetto alla stagione della presidenza precedente della BCE, quella governata da Jean-Claude Trichet.
Eppur si muove, viene voglia di dire del Governo Monti alla fine del febbraio del 2012: si manifesta una spinta per aggredire il sentiero della crescita e ridurre burocrazie ed ambiguità nella costruzione del mercato unico europeo. David Cameron e Mario Monti, insieme con altri dieci capi di Stato e di Governo, inviano una lettera al presidente della Commissione ed al presidente del Consiglio Europeo, e per conoscenza ai componenti dello stesso Consiglio, dal denso contenuto politico.
Una lettera che è un vero e proprio manifesto che riapre il confronto su cosa sia, dove debba andare e come possa arrivare ai suoi traguardi il grande mercato unico europeo. Si tratta di una lettera che espone un’agenda politica in otto punti programmatici, con una premessa impegnativa e netta: «Ci incontriamo a Bruxelles in un momento pericoloso per le economie in tutta Europa. La crescita è in stallo. La disoccupazione è in aumento. L’Europa dispone di molti assets “fondamentali”, ha radici solide. Ma la crisi che stiamo affrontando è anche una crisi di crescita […] Abbiamo bisogno di ripristinare la fiducia tra cittadini, imprese e mercati finanziari».
Gli otto punti dell’agenda sono questi:
1. migliorare le regole del mercato unico
2. creare un vero mercato digitale
3. costruire un mercato interno dell’energia
4. dare vita all’Area europea della Ricerca
5. favorire gli accordi commerciali nel mercato globale, governare la globalizzazione rifiutando suggestioni autarchiche
6. ridurre l’onere delle regole comunitarie per imprese e cittadini
7. promuovere un mercato del lavoro che possa produrre occupazione ed integrare gli attori più deboli e meno tutelati
8. costruire un sistema di intermediari finanziari che produca lavoro ed offra servizi utili alla popolazione ed alle imprese

Si tratta di sfide impegnative, che ripropongono temi già affrontati ma anche, e troppo spesso, impantanati nella burocrazia dell’Unione Europea: dalla strategia di Lisbona alle politiche per le piccole imprese, per l’ambiente e l’energia. Ma si tratta anche di novità importanti: ridurre i costi della burocrazia e trasformare i sistemi bancari, guardare in positivo all’integrazione con il mercato globale e non considerare l’Unione Europea un’isola autarchica. Non sono cose da poco. Ed il tono di chi scrive è abbastanza deciso, esprime leadership e chiarezza di indirizzo politico, e manifesta una certa insofferenza per la lentezza con cui il processo che doveva condurre al mercato unico si è svolto fino ad ora. Sette capi di Governo rappresentano paesi dell’area euro, gli altri sono solo partecipanti al mercato unico. Siamo proprio nel regime di governo che compete a chi scrive: i protagonisti della creazione del mercato unico che dettano il compito ed il ritmo dell’azione alla Commissione. A prescindere dalle differenze tra l’area euro e l’area del mercato interno allargato all’insieme degli Stati che aderiscono all’Unione. La governance europea non è semplice nella sua tortuosa organizzazione interna ma esiste. La Commissione è l’organo esecutivo, l’alta direzione, dalla macchina di Bruxelles. Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, insieme al suo presidente ed al presidente della Commissione.
L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori. Quando l’ordine del giorno lo richiede, i membri del Consiglio europeo possono farsi assistere da un ministro e, nel caso del presidente della Commissione, da un membro della Commissione. È stato istituito nel 1974 come forum di discussione informale tra i capi di Stato o di governo. Ha acquistato uno status formale nel Trattato di Maastricht del 1992, che gli conferisce la funzione di dare impulsi ed orientamenti politici per lo sviluppo dell’Unione. Con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, primo dicembre 2009, diventa una delle sette istituzioni dell’Unione.
In parole povere, nel febbraio del 2012, un gruppo, significativo sul piano numerico, dei componenti il Consiglio Europeo ha proposto un manifesto politico di azione comune alla Commissione ed ha invitato i rimanenti componenti del Consiglio Europeo ad implementare questa agenda. Si tratta, ripetiamo, di riprendere la strada del mercato unico senza passare solo dalla scorciatoia, rivelatasi poco efficace, della moneta unica. Ma lo chiedono anche paesi che utilizzano l’euro. Sbaglierebbe chi creda che questa agenda sia destinata alle strategie del duo Merkel & Sarkozy. Questa agenda è dedicata chiaramente al futuro possibile dell’Europa e potranno partecipare alla sua stesura, se e quando vorranno, anche la Merkel e Sarkozy, come tutti gli altri componenti del Consiglio Europeo. Ma questa agenda include, anche in questa fase che non ha ancora scontato il cambio di Governo in Francia, uno spettro di obiettivi che vanno oltre il pensiero unico della recessione come necessità dell’austerità nella finanza pubblica che ha dominato gli anni alle nostre spalle. La politica torna in primo piano e questo è stato certamente un importante gesto politico, alla scala internazionale, del presidente Mario Monti.
L’Italia, insomma, dimostra di essere ancora uno dei protagonisti nella formazione di una nuova Europa. E l’esistenza degli Stati nazionali viene interpretata come un fattore innovativo, e non solo come un dato istituzionale sclerotico da superare in vista di un nuovo soggetto politico europeo che non sia collegato alla identità degli Stati nazionali esistenti. Scrive Dani Rodrik sulla centralità europea degli Stati nazionali:
Non appena si parla di restituire potere allo Stato-nazione le persone rispettabili corrono al riparo come se si trattasse di una piaga […] (ma) non dovremmo accantonare completamente l’eventualità che in futuro si sviluppi una vera coscienza globale, insieme alle comunità politiche transnazionali […] le sfide odierne non possono essere affrontate da istituzioni che non esistono (ancora). Per il momento, le persone devono optare per soluzioni adatte ai governi nazionali, che rimangono la speranza migliore per l’azione collettiva. Sarà anche un relitto lasciatoci in eredità dalla Rivoluzione francese, ma lo Stato-nazione è tutto ciò che abbiamo13.

Da oggetti rappresentativi del passato gli Stati nazionali diventano le nuove “caravelle” potenziali che potrebbero aprire la strada ad una radicale trasformazione dell’Unione Europea: se questo avvenisse potremo dire, in un prossimo futuro, che la politica abbia ripreso il controllo della situazione e che la crisi europea, ed i suoi effetti di contagio sulla ripresa americana e globale, potrebbero essere evitati. Speriamo che questo possa accadere davvero. Gli eventi di questa primavera, tuttavia, ci propongono, ancora una volta, un singolare paradosso potenziale: stiamo ridimensionando le patologie innescate dalla prima crisi del mercato finanziario globale ma non siamo ancora in grado di trovare una strada che porti l’Unione Europea al superamento della trappola in cui essa è caduta negli ultimi dieci anni. Come se le “caravelle” di cui abbiamo parlato, come metafora degli stati nazionali dell’Unione, abbiano saputo sottrarsi alle onde della crisi ma non siano ancora in grado di approdare sulla spiaggia europea, il nuovo mondo che dovrebbe formarsi, questa volta, al di qua dell’Atlantico
Sappiamo che l’Unione Europea ha generato una moneta unica per un mercato unico ma non è stata capace di trasformare quella moneta unica in una moneta che fosse davvero un bene pubblico, come capita a tutte le monete, dietro le spalle delle quali, si presenti l’ombra rassicurante di uno Stato sovrano. Un grande economista, James Tobin, spiega negli anni Settanta, che la moneta è un bene pubblico: citando il caso del dollaro e degli Stati Uniti. Di Euro non si parlava ancora, evidentemente. Ma spiega anche come lo stesso Governo, in quanto motore dello Stato, sia un bene pubblico. Ed il suo compito sia offrire beni pubblici, come la moneta14.
A che serve la moneta come bene pubblico? in un mondo imperfetto, cioè inefficiente rispetto ai mercati “ideali” – quelli di piena competizione e piena informazione – essa riesce ad offrire molte opzioni di scambio, per merci e servizi, aggiuntive rispetto a quelle che sarebbero disponibili in un mondo dove si barattano merci e si compensano, quando è possibile, debiti e crediti che non siano liquidabili, separatamente, attraverso la moneta. La moneta, come il linguaggio, fluidifica il sistema che collega le persone, fisiche e giuridiche, agli scambi. Come il linguaggio che, non a caso, Tobin affianca alla moneta come bene comune. Cosa dicevano i padri dell’Europa? Dicevano, appunto, che aggiungendo una moneta comune ad un mercato unico si sarebbe avuto un effetto iperadditivo: l’insieme degli scambi sul mercato unico sarebbe stato più grande della somma degli scambi tra tanti mercati segmentati. Il processo si è inceppato per motivi evidenti. Se le economie, sottostanti ai mercati segmentati, sono troppo diverse tra loro – in termini di produttività delle imprese e di produttività di sistema, quella che deriva dalla rete dei beni pubblici disponibili, cioè offerti dai singoli governi nazionali – si devono dare una regolata. Ma, senza un coordinamento politico che generi una compensazione tra i più forti ed i più deboli, perché si riduca la differenza di potenziale che essi singolarmente esprimono, non si ottiene l’effetto iperadditivo. Se, in aggiunta, si pongono standard oggettivi e vincolanti rispetto alla produzione di beni pubblici, allora non si permette a chi non è stato in grado di farlo, di migliorare la propria produttività di sistema e si aumenta la differenza tra virtuosi, perché sono già forti, e pasticcioni della finanza pubblica, perché in precedenza hanno sbagliato e sono rimasti troppo deboli. Fare dell’unione una entità coordinata di poteri nazionali, tendenzialmente convergenti verso un’unica entità statuale, era la strada per far procedere insieme moneta unica e sovranità nazionale condivisa. Savona, Wolf e Vaciago presentano, specularmente con la conferenza stampa di Mario Draghi nella qualità di presidente della BCE, (8 marzo 2012), una interessante rassegna di idee su questi temi15.
Ma ci troviamo di fronte ad un ulteriore paradosso. La Banca Centrale Europea sta creando le condizioni per mettere sotto controllo sia l’inflazione che la turbolenza finanziaria, avviatasi sui debiti sovrani europei. Quei debiti sovrani, e questa è la verità interna dell’esistenza razionale dello spread tra i titoli di Stato emessi da paesi latini e quelli emessi dalla virtuosa Germania, sono diversi perché molto diversa è stata la qualità e l’efficacia della spesa realizzata grazie all’indebitamento. Ora, però, non si può immaginare di mettere la medesima camicia di forza sia a chi è forte, e genera reddito netto esportando, ma anche a quelli che sono deboli, presentano una bassa produttività e non possono esportare sul mercato mondiale.
Senza contare che, anche con un bilancio in pareggio, si possono e debbono fare debiti per avere in futuro infrastrutture ed investimenti.
Come diceva Schumpeter il debito è un potenziale biglietto di ingresso in un futuro migliore. Se usi bene le risorse che gli altri ti prestano: ovviamente. Dunque, e per parlare di Italia e non solo di Europa, bisognava vendere attività dello Stato per ridurre il debito e bisogna emettere euro bond, di cui rispondano tutti gli Stati europei, o potenziare il Fondo salva Stati e dargli una struttura più estesa nelle dimensioni e nei poteri, per creare beni pubblici ed infrastrutture in Europa: riequilibrando, per questa strada, lo scarto, eccessivo, nella produttività dei fattori e dei sistemi nazionali in Europa. C’è uno spread, una differenza, che dobbiamo davvero ridurre: quello della capacità di produrre troppo diversa tra le economie che sono incluse nell’Unione Europea.
E, da ultimo, ma non è meno importante, bisogna capire anche cosa significa alzare la guardia sull’inflazione. Draghi ha dato una sentenza salomonica: tutti siamo convinti che non si debba tollerare una crescita generalizzata dei prezzi; tutti siamo nella stessa barca. Come dire che è necessario agire insieme, perché altrimenti andiamo tutti a fondo, ma che è anche necessario non giocare con la benzina nei pressi del fuoco.
Le manovre di politica monetaria non convenzionali sono singolari e non ripetitive: se sono non convenzionali non possono, per definizione, essere considerate una routine. Ma cosa genera l’inflazione nei paesi europei? Molte cause: anche in questo caso si deve osservare la differenza dell’origine, prima di aggredire il sintomo della patologia che si manifesta in ragione di una causa. Nella draconiana azione di inasprimento fiscale, che il governo Monti ha dovuto realizzare per ritrovare la reputazione del nostro paese, nel mondo e nei rapporti con la Germania, ci sono stati anche enormi aumenti delle tariffe e di alcune tasse. Questi aumenti generano un rincaro dei costi, si pensi alla benzina o alla patrimoniale sugli immobili, e di conseguenza inflazione ma anche una variazione dei prezzi relativi. Un litro di benzina vale due tazze di caffè ora: ma non c’è una crescita generalizzata dei prezzi. Alcuni prezzi aumentano troppo rispetto agli altri e, chi ha un reddito limitato, deve privilegiare alcune spese vincolanti, come le tariffe per luce, energia ed acqua, e sacrificarne altre. Si possono tagliare le unghie ai monopoli dei servizi pubblici? Sarebbe una buona spinta alla concorrenza tra reti. Se, almeno una parte della pressione fiscale aggiuntiva il Governo la utilizzasse per chiudere il cuneo fiscale – cioè la differenza tra il salario incassato dal lavoratore ed i contributi previdenziali e le tasse, che raddoppiano il valore del salario effettivo, pagato dalle imprese – noi avremmo un eccellente opportunità.
Le nostre imprese vedrebbero scendere il costo del lavoro e migliorerebbe la produttività netta dei loro processi operativi. Potrebbero tenere stabili i prezzi interni e potrebbero esportare, perché la loro produttività netta migliorerebbe. Questa sarebbe stata una correzione fiscale non inflattiva: non una spesa per la spesa, un keynesismo “bastardo”, spendere per spendere.
La relazione virtuosa tra Governo e moneta, tra credito bancario e spesa pubblica per investimenti, la catena continua tra banca centrale ed azione di Governo è il messaggio di Keynes, che Tobin ripropone con grande efficacia, come abbiamo già detto.
La moneta non è un velo ma una relazione sociale tra credito e crescita, tra debito e finanziamento: senza la moneta non c’è la crescita.
Ma dietro la moneta deve esserci lo Stato ed è in moneta che banche ed imprese devono regolare il processo di investimento che, alla fine, genera la crescita. Più politiche – legate al ciclo tra banche centrali, banche e Governi – sarebbero molto più efficaci di tante stravaganti fantasie sulle politiche industriali. Si spera che le migliori idee sulle politiche industriali siano quelle degli imprenditori di successo, in un mondo normale. E che la cosa migliore da fare sia offrire adeguati beni pubblici, ed una fiscalità intelligente (come la riduzione del cuneo fiscale) al sistema delle imprese. Forse questa misura aiuterebbe anche la ricerca di migliori regole per il mercato del lavoro. Certamente ci risparmierebbe le geremiadi pro e contro il “mitico” articolo 18.
Una cosa è certa. Il triangolo tra banche centrali, banche e Governi funziona quando esiste una politica credibile alle spalle del Governo. Anche in questo caso l’Italia presenta una singolare differenza rispetto agli altri paesi europei. Ha un governo qualificato dai tecnici che esso esprime ma non ha un sistema politico che lo sostenga attivamente: il sistema politico pratica il benign neglect verso il Governo. Ma questo è uno spread (una differenza) che non si può misurare con i numeri e che è veramente difficile spiegare agli altri paesi del mondo e dell’Europa. Rischiamo, dunque, di essere troppo originali per esistere davvero come attori decisivi della scena internazionale, del teatro politico in cui si deve rappresentare una strategia economica capace di farci guadagnare un futuro migliore.



4. Monti, e la Merkel, ma anche tutti i leader europei devono restare uniti nel processo di convergenza verso l’uscita dalla crisi. Aspettando una Europa liberale ma non liberista. (giugno 2012).

«Siamo al Chicken Game tra le nazioni europee?» Se lo chiede Barbara Spinelli, evocando la mitica sfida tra le due auto, che corrono una contro l’altra, in Gioventù Bruciata16. Chi sarà il pollo che si ritira dalla competizione, per paura, accettando implicitamente la sua sconfitta: Monti o la Merkel? Preferiamo la risposta più pacata di Alesina: «In questi giorni l’Europa sta rischiando di perdere qualcosa di ben più importante della moneta unica: la cooperazione economica, se non addirittura una cooperazione politica pacifica. Il livore antitedesco che si respira nel Sud Europa e in Francia è molto pericoloso, stucchevole e in gran parte infondato»17. Ma le cinque successive considerazioni di Alesina, pur essendo necessarie, non sono ancora sufficienti per disegnare un risultato affidabile del vertice europeo. Un risultato che deve offrire una ragionevole base di sostegno alla fuoriuscita dell’economia europea dalla sua crisi ed alla nuova convergenza politica che possa governare i modi ed i tempi di quella fuoriuscita.
Ai tedeschi, sostiene Alesina, si imputano cinque colpe che non hanno: non sono stati più generosi con la Grecia e altri paesi in difficoltà; si sono arricchiti con le esportazioni verso i paesi mediterranei; si sono avvantaggiati da un euro «basso» rispetto al livello di un ipotetico marco; dovrebbero consumare di più, un’altra chimera; hanno colpe gravi, infine, le banche tedesche, quelle che si sono buttate nel marasma del subprime americano. Ma tanti sbagli hanno fatto anche le banche spagnole, greche, irlandesi e francesi. Alesina ha ragione, nella sua difesa dei tedeschi, perché ritiene che essi abbiano usato davvero l’euro come uno scudo: una difesa, protetti dalla quale, essi si sono impegnati a riorganizzare il regime di produttività della propria economia reale con energiche riforme, capaci di riordinare i processi lavorativi e la produttività di sistema del loro paese. Molti paesi dell’Europa latina, che oggi sono in difficoltà con le proprie finanze pubbliche, hanno lasciato perdere ogni tentativo di riordinare la propria economia reale e di aumentare la produttività di sistema, riordinando la pubblica amministrazione ed il sistema delle infrastrutture.
La moneta unica, l’euro, è stato uno scudo utile anche per loro, perché diminuiva il livello dei tassi di interesse e permetteva di aumentare progressivamente il livello del debito pubblico con disavanzi crescenti. Se questi disavanzi, tuttavia, avessero generato investimenti – per razionalizzare la pubblica amministrazione aumentare la capacità di ricerca della scuola e delle università, migliorare la sanità e la magistratura, dilatare la rete della banda larga ed altro ancora – allora anche i “cattivi” paesi latini avrebbero conseguito i risultati della esportazione e della crescita che ha conseguito la Germania.
Dunque il problema non è il disavanzo, che diventa debito pubblico e rimane imposta differita nel tempo, ma è la incapacità di investire e di gestire la crescita, aumentando la produttività media di sistema.
Il problema è reale ed il debito è necessario per finanziare la crescita, quando si è capaci di gestirla evidentemente. Se si rifiuta il debito come tale si perde anche la opportunità della crescita. Perché è proprio la leva del debito che alimenta l’accelerazione della crescita.
Mario Monti lo ha riconosciuto in parte come un dato positivo, ricordando alla Camera dei Deputati che «gli investimenti pubblici produttivi sono una mia antica convinzione teorica». Antonella Rampino18 lo rimanda a Keynes, un liberale che non era liberista, ma nell’accento di Monti si sente l’eco di Adamo Smith che scriveva, appunto, nelle pagine de La Ricchezza delle Nazioni, come le opere pubbliche fossero infrastrutture di sistema: le guardava, insomma, dal lato dell’offerta e non da quello della domanda effettiva. Monti, in effetti, ha anche ricordato al Parlamento la sua lettera alla Commissione ed al Consiglio di Europa firmata da Cameron e da molti altri capi di Stato e di Governo. Probabilmente il gesto, simbolico ma anche di contenuto, più significativo che egli abbia compiuto in direzione ed a sostegno della crescita. Ma un gesto che rimane nella prospettiva di un’apertura alle opportunità della globalizzazione, che crea nuovi mercati e nuove soluzioni tecnologiche e che, aumentando la competizione, comprime per questa strada la molla dell’inflazione.
Ma non ancora quella della crescita. Mentre siamo all’indomani dell’incontro del quadrilatero: Germania e Francia da una parte, Italia e Spagna dall’altra. L’asse, che ha retto l’Europa, è il primo delle due coppie ma l’Italia è certamente la prima tra i paesi latini mentre la Spagna le rimane seconda. Dunque, fermo restando il criterio di Alesina, non sono cattivi i tedeschi ma sono maldestri una larga parte degli altri popoli europei. Certamente dobbiamo anche capire cosa non ha funzionato nella costruzione, ambiziosa e fragile, dell’Europa e della sua moneta unica: orfana di una vera e propria banca centrale. Perché, se quella costruzione fosse stata davvero affidabile, allora non saremmo ridotti come siamo, nonostante la crisi americana. E quello che non ha funzionato è proprio l’aver trascurato la lezione di Keynes: la percezione della moneta come relazione sociale e non come valore intrinseco, la convinzione che la base della crescita non sia il risparmio che diventa investimento ma una spesa, intelligente, che allarga la dimensione del reddito e crea nuove risorse, che possano coprire il debito che quella spesa ha reso possibile. Allargando la massa monetaria disponibile in periodi di recessione, anche se resta stagnante una liquidità che è solo l’altra faccia della disoccupazione.
Cosa dovrebbero dire, e poi realizzare, i gruppi politici che dirigono l’Europa, allora, nel summit del prossimo week end? Non beccarsi tra loro come i polli di Renzo; non beccarsi tra europei ed americani, nella speranza di trovare la colpa della crisi sempre a casa degli altri.
Oggi Stati Uniti ed Europa devono stare uniti, al centro del centro del mondo, e non contrapporsi per accusarsi reciprocamente delle colpe altrui. Ma sarebbe interessante che lo spirito della crescita e la magia, che trasforma il debito in investimenti capaci di ripagarlo, una brezza keynesiana e non solo liberale, possa aiutare la ricostruzione di una Europa capace di ricondurre le banche e le finanze pubbliche verso una soluzione che non sia il divorzio tra potere statale e governo della massa monetaria. Una vigilanza sulle banche rimandata alla BCE, come quando Einaudi portò alla Banca d’Italia l’ispettorato e la vigilanza sulle banche italiane, ed un Fondo Salva Stati che possa sottoscrivere, in emissione, quote di nuovo debito sovrano da parte degli Stati, ed una cessione di attività reali, che riduca lo stock dei debiti pubblici senza aumentare la pressione fiscale per generare avanzi primari, sarebbero tutte buone notizie e segnali chiari di questo zefiro keynesiano. Bisogna, insomma, che le cose, che verranno annunciate, siano chiaramente avvertibili come un percorso diverso ed altro rispetto a quello che ha dato luogo all’euro nei dodici anni alle nostre spalle. Se i mercati avvertiranno questa diversità se ne faranno una ragione e lasceranno i Governi liberi di lavorare per il cambiamento.




5. L’architettura della nuova Europa: la politica monetaria, la relazione tra banche centrali ed i mercati, della valuta governata da ogni banca centrale. Tre stelle polari per trovare la rotta della crescita economica nonostante la nebbia dell’incertezza sia ancora troppo densa. (luglio 2012)

Esistono sia una catena, che lega il debitore ed il creditore, che la speranza di entrambi, debitore e creditore, che la possibilità del secondo di rifarsi in futuro possa diventare la fonte di ripianamento del credito vantato dal primo: in un ragionevole tasso di tempo ed in quello stato del mondo che vede trasformarsi in un fatto l’evento, atteso dal debitore, di potere ricreare un patrimonio adeguato se i creditori fossero disposti a finanziarli. Una speranza che è un classico della letteratura finanziaria. La frase di Paul Krugman, riportata in nota si trova in un paper del 1988, ma la stessa storia si legge nelle pagine del Mercante di Venezia, ed anche andando più indietro ancora nel tempo. E questa frase giustifica anche l’affermazione di Amartya Sen, secondo il quale il banchiere è la figura più spregevole della comunità ma anche la più necessaria, per garantire la continuità della coesione interna della comunità, grazie alla crescita che egli è capace di alimentare19.
L’articolo di Krugman appare nei riferimenti bibliografici di un paper, elaborato da Daniel Gros, Cinzia Alcidi ed Alessandro Giovanni – tutti ricercatori del CEPS – dal titolo molto intrigante: Central Banks in Times of Crisis, The FED versus the ECB. Un paper consegnato al Parlamento Europeo nei giorni precedenti l’audizione di Mario Draghi al Parlamento Europeo stesso. Per aggiornare lo stato delle cose, e ce ne erano di cose da aggiornare, rispetto alla sua audizione precedente, il 25 aprile 2012.
Dalla primavera a questo luglio torrido la scena della crisi europea è assai diversa; mentre le manovre della banca centrale, come le operazioni di politica economica ed istituzionale – che sono state realizzate dai singoli Stati e tra gli Stati, che partecipano all’Unione Europea – lasciano intravedere la nuova architettura della moneta, della finanza e della politica europee. Un’architettura che è la premessa della crescita: il punto di arrivo per il vecchio continente, debole già prima della crisi del 2008, ricaduto, nella seconda metà del 2011, in una spirale recessiva in ragione della crisi cumulata tra i debiti sovrani degli Stati europei e la fragilità patrimoniale delle banche europee.
Mario Draghi, nella sua periodica audizione del 9 luglio20, ha individuato le quattro leve che potrebbero ribaltare la situazione del vecchio continente: «The central message of that vision is this: the euro is here to stay – and the euro area will take the necessary steps to ensure that. In my view, the core of the report submitted by President Van Rompuy is the identification of four building blocks: First, a financial market union that elevates responsibility for supervision of banks to the euro area level. Second, a fiscal union that reinforces oversight of budgetary policies at the euro area level and also provides some fiscal capacity to support the functioning of the currency area.
Third, an economic union with sufficient mechanisms to ensure that countries can achieve sustained prosperity without excessive imbalances. And finally a political union that strengthens the legitimacy of EMU among euro area citizens and deepens its political foundations». La catena delle relazioni si può interpretare in questo modo: la formazione di un unico mercato finanziario genera l’esigenza di una vigilanza sulle banche, gli intermediari che muovono i mercati, al medesimo livello europeo. Alla moneta ed alla finanza si deve adeguare anche la scala delle politiche fiscali: così facendo si consolida il funzionamento dell’area valutaria che si fonda sull’euro. L’unione deve fare in modo che vengano ridimensionati gli squilibri reali, oltre che quelli finanziari e monetari, dei vari paesi che ad essa aderiscano. Dunque devono realizzarsi anche le condizioni politiche che traducano in un quadro di legittimità i comportamenti dei cittadini e gli istituti e le procedure sulle quali si fonda questo vero e proprio governo dell’area valutaria fondata sull’euro.
Non è un traguardo che si raggiunge con un salto dalla situazione attuale all’ipotetico punto di arrivo. Questo è il classico caso in cui il processo è il traguardo ed il risultato dipende dal sentiero che costruiamo per arrivare alla fine del viaggio. Rimanendo in “viaggio” ed evitando, in altre parole, la lunga pausa di oltre dieci anni che ha congelato la relazione tra la moneta unica e la sua funzione di leva per ottenere una nuova dimensione politica dell’Europa. Congelamento di un processo che ha impedito, appunto, la realizzazione dell’obiettivo che ci attendevamo di ottenere. Dobbiamo rimetterci in cammino, e dobbiamo tenere sotto controllo i cambiamenti che introduciamo nell’architettura istituzionale europea e nelle modalità con le quali le classi dirigenti, di ogni nazione, si atteggiano rispetto a questa modificazione radicale della sovranità: dalle nazioni singole all’Unione come un tutto. La premessa del ragionamento di Draghi – the euro is here to stay – and the euro area will take the necessary steps to ensure that – sembra un punto di partenza abbastanza robusto per affermare che il sentiero per arrivare alla nuova Europa possa essere ragionevolmente costruito.
Nella sua audizione, tuttavia, Mario Draghi non ha dimenticato di essere un banchiere centrale: la intuizione di un percorso istituzionale, che consolidi nel medio periodo la robustezza politica dell’Unione Europea, non lo distrae dai contenuti e dalla gestione della politica monetaria. Su questo punto la prima parte del suo discorso è stata molto netta e si può descrivere, e commentare, in tre ordini di problemi.
Il tasso di riferimento, al quale la banca presta denaro, è sceso di 25 punti base: è diminuito di un quarto del totale, essendo l’uno per cento il livello originario del tasso stesso. Qualcuno ha osservato che il mercato dava per scontata questa decisione e, dunque, che essa era, ormai e di fatto, ininfluente. Ma la riduzione del tasso di riferimento si è affiancata all’annullamento del tasso di deposito, quello che le banche ricevono se depositano fondi monetari sulla banca centrale.
La riduzione del tasso al quale si concede credito, e l’azzeramento del tasso che si distribuisce sulle giacenze liquide, hanno un effetto combinato. Aprono lo spazio potenziale della politica del credito per le banche. Costa meno il denaro, non rende la giacenza liquida, si può e si dovrebbe immaginare una ripresa del credito, acquistando titoli pubblici, ma anche concedendo credito alle imprese ed alle famiglie. Draghi ha ricordato che imprese e famiglie sono alle prese con i problemi della recessione ed, in altre parole, con il fatto che la loro domanda di credito è bassa: essendo bassa l’attesa a breve termine di una ripresa nella formazione del reddito per entrambe: «Weak loan growth largely reflects the current cyclical situation, heightened risk aversion and balance sheet adjustments by households and firms, which weigh on credit demand». Questa politica monetaria espansiva necessaria, dunque, deve trovare una sponda nella politica fiscale dei Governi. Essi devono aumentare la dimensione dei tagli alla spesa pubblica per ottenere una combinazione più efficace dei flussi di spesa ma anche per poter ridurre la pressione fiscale, eccessiva, che riduce la capacità di reddito delle famiglie e delle imprese ed allarga la spirale recessiva. L’Italia è un caso classico di questo rischio latente ed, infatti, anche il nuovo governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha posto il medesimo tema all’attenzione del Governo Monti.
Politica monetaria e politica fiscale devono giocare di conserva; ma ogni paese deve giocare, nel mercato della moneta in cui opera, in sintonia con le proprie istituzioni. Contano, nella ricerca di questo perimetro ottimale della politica monetaria quattro ordini di motivi: la struttura finanziaria ed economica di ciascuna economia, l’entità e la natura della crisi che viene subita, gli strumenti operativi di ogni banca centrale ed il contesto, di mercato e di regole, in cui agisce la banca centrale. Trascurare queste differenze, ed appiattire, in un unico paradigma di riferimento, la relazione tra problemi da risolvere, strumenti da utilizzare ed obiettivi da conseguire, potrebbe offrire un quadro distorto dei risultati e della portata delle azioni intraprese: «Therefore, the appropriate way to measure a central bank’s actions is to do so in its own institutional and economic setting and against its own objectives». Conclude Mario Draghi nell’audizione di luglio 2012.



6. Il Fondo Monetario Internazionale formula la sua diagnosi sullo stato dell’economia mondiale. Mario Draghi mantiene i propri impegni: gli annunci realizzano gli effetti delle manovre di politica monetaria (luglio 2012)

Bisognerà ricordare bene la diagnosi formulata dal Fondo Monetario Internazionale nella seconda metà di Luglio nel 2012. Il 16 di luglio il Fondo ha rilasciato tre adeguamenti del giudizio sul futuro prossimo dell’economia. Sono tre Outlook che, come di consueto, presentano la scena economica, quella finanziaria, e quella relativa alla finanza pubblica, alla scala del mercato globale. La prima immagine indica che il profilo della dinamica del prodotto lordo interno – un indice contestato ma ancora rappresentativo della dinamica della crescita – è stagnante. A partire dal rimbalzo che segue la crisi del 2008. Prima, e dopo la crisi, la gerarchia della dimensione della crescita, misurata dal tasso percentuale di espansione di ogni trimestre su quello precedente, è identica: la crescita del mondo è una media tra le economie che si stanno dilatando e quelle che sono le economie più rilevanti per dimensione, e storia accumulata alle proprie spalle, ma che, proprio per questo, forse, rimangono sotto il profilo della media mondiale nel terzo millennio. Quello che sconta anche un percorso accidentato: l’attentato alle torri gemelle, la nascita dell’euro, l’implosione dell’impero sovietico e la nascita di un equilibrio che vede gli Stati Uniti ancora dominanti ma non certo egemoni. Partner autorevoli di un G20: un gruppo abbastanza esteso di potenze politiche. Le economie avanzate hanno uno strappo recessivo nel 2011; il Fondo Monetario si aspetta un doppio strappo espansivo nel transito dal 2012 al 2013 per le economie avanzate. Un profilo più piatto ma leggermente ascendete per quelle avanzate. Non si intravede una robusta espansione ma sembra che, lentamente, il mondo stia riprendendo la strada della crescita.
Su questa scena mondiale Mario Draghi ha proposto, alla fine del mese di luglio, il suo giudizio sulle sorti a breve termine del sistema dei paesi che adottano l’euro. Nella intervista a «Le Monde» (21 luglio 2012) e poi nel discorso che tiene a Londra (26 luglio 2012)21. Non voglio “vendervi” una suggestione, ha detto ai giornalisti presenti a Londra, ma voglio darvi un giudizio franco e leale su come noi, da Francoforte, vediamo la situazione della moneta unica. Parla, dunque, il capo della Banca Centrale Europea: l’istituzione che amministra la moneta unica ed il suo futuro. La metafora alla quale ricorre è notevole: non sappiamo perché prima del 2008 l’euro abbia volato alto, ma lo ha fatto «c’era qualcosa nell’aria». Sappiamo, ora e dopo la crisi, che qualcosa è cambiato nell’aria ma abbiamo capito come, ora, l’euro possa e debba restare la base monetaria della futura crescita europea. Debba diventare davvero un’ape in grado di volare. E faremo tutto quello che dobbiamo e sappiamo fare perché questo avvenga. Dopo l’intervista di Draghi a «Le Monde», Barbara Spinelli solleva una fondata obiezione sui tempi e le circostanze con cui si muove la politica europea per ridare fiato alla moneta che essa, la politica europea, ha individuato come lo strumento capace di rimettere in moto il vecchio continente. E contesta non solo la lunga, eccessiva durata dell’esperimento della moneta unica, che sconta il trauma dell’allargamento, ed il dualismo tra paesi dell’area euro e paesi del mercato comune, ai quali non si impongono né misure monetarie né misure fiscali. Contesta il ritardo nel realizzare il salto di qualità necessario per ridare fiato all’esperimento della moneta unica ed utilizzare quella moneta unica, riadeguata ai suoi scopi, e la politica fiscale, come leve per uscire dal profilo recessivo del mondo, e dei paesi avanzati, dei quali Stati Uniti ed Europa sono larga parte.
Nessuno di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l’euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo – scrive la Spinelli su «la Repubblica» del 25 luglio – Nessuno sa come intenda procedere la Banca Centrale Europea. Draghi ha detto a Le Monde che l’euro è irreversibile, che la BCE “è molto aperta e non ha tabù”. Ha detto perfino che “non siamo in recessione”. Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di Stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno ad Atene e votandola all’espulsione. Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio BCE, aveva detto alla rivista Stern che bisogna “aver rispetto per gli sforzi greci”. Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: “Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio”. La maggioranza nella BCE non sembra d’accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all’ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l’ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiamo noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono di governare l’Unione. Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e BCE: nei libri di storia, se finisse l’euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s’insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato E mentre si cristallizza questo “tempo imbalsamato” i popoli europei – in particolare quelli dell’Europa latina, che subiscono la combinazione tra crisi del debito sovrano, per i risultati confusi ed inefficienti delle amministrazioni pubbliche, e le crisi bancarie, che paralizzano la ripresa del circuito del credito e la trasformazione del risparmio in investimento – resteranno “appesi, come d’autunno le foglie sugli alberi22.

Le opinioni di Barbara Spinelli evocano una questione che le supera, nel loro contenuto. Anche perché le foglie d’autunno cadono, con elevata probabilità, e non credo questo sia l’esito che la Spinelli intravede od, almeno, vorrebbe intravedere. Sono opinioni che, anche per chi non le condivida del tutto, come chi scrive, eccitano la riflessione e ci aiutano a pensare come atteggiarsi in questo tempo gravato dall’incertezza, e dalla paura che essa diffonde. l’obiettivo degli europei, e dei loro alleati, non può essere quello di continuare a dividersi tra “amici” di una politica economica keynesiana e “nemici” della stessa, perché seguaci del perfido teorema di Angela Merkel e della nazione che, dal suo punto di vista, il cancelliere difende.
La situazione in cui ci troviamo è diversa. Come in ogni crisi un fatto risulta evidente: nessuno sa gestire la situazione e, proprio per questo esiste uno stato di crisi. Dunque non dovremmo solo contrapporre diagnosi e terapie, confezionando ricette, più o meno elementari. Dovremmo provare a trovare la strada per uscire dalla spirale negativa utilizzando al meglio gli strumenti di cui ciascuno dispone per fare e non solo per smontare le tesi dell’altro. Il più efficace, fino ad ora, è stato Mario Draghi, che usa al meglio delle sue capacità il proprio ruolo: quello di presidente della BCE. Durante la crisi, insomma, non valgono le regole: perché la crisi è l’effetto di un default delle regole. Che sono necessarie ma non sono affatto sufficienti per dare stabilità al sistema. E, proprio per questo, devono essere interpretate e poi sostenute da comportamenti coerenti con i traguardi che si devono raggiungere. Sono i comportamenti fondati ed adeguati, che riportano verso un equilibrio accettabile il sistema, in attesa della prossima crisi.
Mario Draghi usa sia una politica monetaria non convenzionale che una politica di comunicazione molto puntuale e tempestiva. Lo abbiamo già detto prima. Prende corpo, insomma, una discussione che si misura con una terna di problemi: la qualità della classe dirigente europea; la natura dell’economia globale e l’impianto delle istituzioni che la possano adeguatamente governare, l’esigenza di lasciarsi alle spalle i processi e gli strumenti che, nell’ambito del perimetro di uno Stato nazionale, potevano essere utilizzati per trovare un ragionevole equilibrio tra la dimensione economica, fiscale e finanziaria della crescita economica23. Siamo entrati in una stagione dell’economia monetaria di produzione che non sopporta, se non altro per ragioni di scala demografica, una semplice riproduzione, alla scala mondiale, degli strumenti che abbiamo utilizzato nel corso del Novecento nell’ambito degli Stati nazionali. Siamo in una terra relativamente incognita ma ne calpestiamo comunque il suolo. Come ha detto Draghi, c’era qualcosa nell’aria che faceva crescere l’esperimento dell’euro e con l’avvento della crisi ci accorgiamo di come sia cambiato il contesto e di quanto debbano cambiare le nostre opzioni analitiche ed i nostri comportamenti conseguenti rispetto a quelle opzioni.
Nel mondo si fronteggiano masse notevoli di monete e di titoli ma non si riesce a trovare un equilibrio ragionevole tra flussi di risparmio e flussi di investimento. Finanza e crescita devono ritrovarsi per farci ritrovare l’espansione dei beni e dei servizi e consentire un’adeguata redistribuzione della ricchezza, prodotta da quella espansione, per garantire le persone ed i popoli che stanno alimentando questa stessa espansione. Le economie avanzate devono rivisitare se stesse e costruire istituzioni larghe quanto l’economia mondiale: integrandosi con le economie emergenti. Si tratta di una trasformazione radicale dei rapporti tra gli individui e del numero di individui che partecipa a quei rapporti. Non è in gioco solo l’equilibrio tra finanza ed economia reale. Si deve trovare una nuova e più adeguata relazione tra economia monetaria di produzione e democrazia. La soluzione del compromesso democratico e delle politiche keynesiane all’interno dei perimetri degli Stati nazionali non si può riprodurre tal quale alla scala sovranazionale. Come al solito possiamo capire quali siano le domande alle quali rispondere ma non abbiamo ancora capito quali possano essere le risposte. Lo scopriremo agendo ed assumendoci la responsabilità dei rischi che genereremo facendolo. L’Italia e la Germania, da qui al 2013, e grazie alle loro vicende elettorali, saranno uno straordinario laboratorio politico per cimentarsi con questi problemi.
Ma torniamo alla nostra cronologia fondata su Monti e Draghi.
Il 2 agosto Mario Draghi ha tenuto fede agli impegni che aveva assunto a Londra il 26 luglio. Ma sarebbe strano considerare solo la coerenza di Draghi nel mantenere fermi a Francoforte i contenuti della politica monetaria e delle riforme, necessarie per superare lo stallo recessivo, ed i suoi rischi, che grava sull’area dell’euro e, di conseguenza, sul mondo intero, vista la dimensione economica dell’area dell’euro e del contorno che la circonda, fino alla periferia dell’Unione. Nei commenti, che raccontano la diffidenza dei mercati, che riduceva il corso delle azioni ed alzava gli spreads, dopo la conclusione della conferenza stampa di Draghi, manca un dato importante.
Il presidente delle BCE, quando parla a Londra, prende su di sé il rischio delle proprie opinioni e si assume, con coraggio, scelte difficili: un euro irreversibile, una BCE che sarà capace di fermare la pressione speculativa, un sistema di contorno (dal potenziamento del Fondo salva Stati ad uno scatto dei Governi Europei) che possa sviluppare una più forte coesione del vecchio continente e ne rafforzi la potenzialità della crescita e l’identità di un tratto politico e statuale.
Il presidente della BCE, che parla a Francoforte dopo la riunione dell’organo direttivo della banca ed in occasione dell’appuntamento periodico che espone formalmente i tratti della congiuntura economica e della politica economica che quella congiuntura deve governare, rappresenta non le sue opinioni ma quelle della banca centrale europea24. Il peso, e la diversa natura, in questo caso, di parole come irreversibilità dell’euro, argine alla speculazione sui titoli pubblici, innovazione della politica monetaria per rimettere in moto i canali creditizi, ammonimento ai Governi perché facciano davvero le riforme necessarie ad un regime di maggiore competizione per accelerare la crescita ed uscire dalla recessione, dovrebbero essere evidenti.
Draghi parla dopo che l’organo direttivo della banca ha metabolizzato queste linee guida e si presenta ai mercati, ed ai Governi, armato di una coesione, di una forza, che sarà, anche, un compromesso tra le opinioni dei cultori dell’austerità e quelli del salto politico verso una nuova fase dell’Europa, ma si traduce in una prospettiva. Si può formulare una opzione strategica e si può cadere sul campo perché altre forze si oppongono e sconfiggono quella strategia. Una cosa è certa: ad una nebulosa atmosfera di ambiguità confuse, e di sottintesi attendisti, si sostituisce oggi una determinazione che indica una direzione ed un metodo. Una determinazione che coinvolge non solo la banca centrale, ed il suo regime di governo interno, ma la politica di rinnovamento che i governi europei sostengono per uscire dal tunnel della lunga recessione generato dalla crisi del 2008. Non è cosa da poco ed hanno fatto bene i capi di Governo, dell’Italia e della Spagna, i due Stati nel mirino della speculazione, ad affiancarsi a Draghi ed ad impegnarsi sulle medesime opzioni di fondo della sua strategia Mario Draghi ha anche parlato dell’inflazione e della sua (presunta) minaccia: che i fautori del rigore ad ogni costo, e senza scopo puntuale, considerano alle porte. In un grafico pubblicato nel sito della BCE viene presentato un quadro storico dell’inflazione, dagli anni Novanta, prima dell’euro, ad oggi, dopo la prima crisi finanziaria globale. Tra il 1990 ed il 1992 si colloca il picco assoluto dell’inflazione in Europa: si sfora il 5% dell’aumento dei prezzi. Da allora, e grazie alle politiche di convergenza tra le monete che preparavano la nascita dell’euro, si scende con continuità e, nel 1999 si tocca il picco minimo: sotto il valore di 1%. Si tratta di tassi annui di incremento dei prezzi. Dal 1999 al 2001 si torna al 3% mentre l’euro scende sotto il valore del dollaro americano. Fino al 2008 si rimane in un canale che oscilla tra il 2% ed il 2,5%: una stagione di stabilità dei prezzi e di ridotta volatilità. Il 2008 porta in alto l’indice, che cresce fino al 4% nel 2009. Fino ad una riduzione dei prezzi, nel 2010 dello 0,5%, effetto della recessione ormai in atto. Poi si torna al 3% nel 2011 ma nel 2012 si scende al 2,5%. Spiega Draghi nella sua introduzione ai lavori della conferenza stampa:
Euro area annual HICP inflation was 2.4% in July 2012, according to Eurostat’s flash estimate, unchanged from the previous month. On the basis of current futures prices for oil, inflation rates should decline further in the course of 2012 and be below 2% again in 2013. Over the policy relevant horizon, in an environment of modest growth in the euro area and well anchored long-term inflation expectations, underlying price pressures should remain moderate. Risks to the outlook for price developments continue to be broadly balanced over the medium term. Upside risks pertain to further increases in indirect taxes, owing to the need for fiscal consolidation, and higher than expected energy prices over the medium term. The main downside risks relate to the impact of weaker than expected growth in the euro area, in particular resulting from a further intensification of financial market tensions. Such intensification has the potential to affect the balance of risks on the downside.

Si può certamente affermare, anche alla luce della ricostruzione di lungo periodo che abbiamo riassunto sopra, che non esiste, allo stato delle cose, alcun rischio di inflazione e che il nemico da battere non è certo l’aumento dei prezzi ma la recessione e la disoccupazione. Dunque, bisogna mantenere una politica monetaria espansiva, smussare le unghie alla speculazione sui titoli e spingere i Governi ad intensificare la flessibilità delle proprie economie: per competere nel mondo globale e per crescere, grazie al rafforzamento progressivo dei redditi interni, aumentando la produzione e riducendo la pressione fiscale, anche ridimensionando la spesa pubblica. Le ultime frasi di Mario Draghi vanno proprio in questa direzione.
Fiscal adjustment in the euro area is continuing in 2012, and it is indeed crucial that efforts are maintained to restore sound fiscal positions. At the same time, structural reforms are as essential as fiscal consolidation efforts and the measures to repair the financial sector. Some progress has also been made in this area. For example, unit labour costs and current account developments have started to undergo a correction process in most of the countries strongly affected by the crisis. However, further reform measures need to be implemented swiftly and decisively. Product market reforms to foster competitiveness and the creation of efficient and flexible labour markets are preconditions for the unwinding of existing imbalances and the achievement of robust, sustainable growth. It is now crucial that Member States implement their country-specific recommendations with determination.

Ora la palla passa ai Governi, che dovrebbero saper utilizzare una leva importante: la forza con cui la BCE potrà ridimensionare coloro che intendono speculare al ribasso sui mercati finanziari, contando sulla fragilità e la incapacità proprio dei Governi nazionali. Ma, se quei Governi, agiranno con determinazione, forti della difesa offerta dalla politica monetaria della BCE, l’impegno congiunto di queste due forze ci segnalerà come stia prendendo corpo l’identità nazionale dell’Europa. Confermando, in questo caso, che davvero l’euro sia diventato una scelta irreversibile: perché non è più la moneta unica di un grande mercato ma la moneta di un’entità nazionale unita e capace di competere sulla scena mondiale. Questo esito non è scontato ma, oggi, è possibile realizzarlo. Fallire potrebbe essere la sconfitta definitiva del progetto di Europa che stiamo immaginando.



7. Risparmio & investimento; moneta, titoli e tasso di interesse. La macroeconomia keynesiana e l’approccio “continentale” alla politica monetaria. Il sentiero stretto di Mario Draghi. (agosto e settembre 2012)

Dicono anche le cronache, che annunciano l’autunno, che Mario Draghi abbia trovato un sentiero possibile per governare l’uscita dalla crisi recessiva con strumenti adeguati di politica monetaria. Strumenti che la Banca Centrale Europea può utilizzare e che gli Stati nazionali europei, in difficoltà per problemi collegati al debito pubblico in circolazione sui mercati, devono attivare, presentando le ragioni e le dimensioni di quelle difficoltà al Fondo Salva Stati (Efsf), nella sua versione preliminare, ed a quello che sarà definitivamente lo strumento per agire sul mercato secondario dei titoli di Stato: il Meccanismo di Stabilità Europeo (EMS). Italia e Spagna sono i paesi che si potrebbero aggiungere a quelli che, come la Grecia ed altri, hanno già fatto ricorso a queste procedure. La BCE agisce come operatore sul mercato secondario dei titoli per le negoziazione relative alla loro acquisizione.
La BCE è una banca centrale autonoma, nella sua sfera d’azione, la politica monetaria e la stabilità della moneta, rispetto ai governi dei paesi che hanno adottato l’euro come moneta unica nelle transazioni commerciali e finanziarie.
E con questo abbiamo definito, seppure in termini elementari, il terreno sul quale hanno agito la BCE: pronunciandosi il suo organo di governo sui caratteri e le tecniche di queste manovre il 6 settembre del 2012 e pronunciandosi la Corte Costituzionale tedesca sui temi proposti alla sua attenzione che riguardano la legittimità dei fondi salva Stati, attuali ed in costruzione25. Non si tratta solo di una questione di tecnica bancaria e di diritto costituzionale: non sono solo procedure amministrative quelle che si discutono e si devono, poi, realizzare. Siamo all’inizio di un percorso complesso perché bisognerà governare la recessione europea avendo davanti, nei prossimi mesi, elezioni politiche in Germania, Italia e negli Stati Uniti. Avendo ormai alle spalle le elezioni francesi, che hanno segnato una trasformazione, insieme con la nascita del governo Monti, di un diverso quadro politico, nel quale deve collocarsi oggi una politica monetaria che sia efficace ma anche coerente con le opinioni e le convinzioni dei gruppi dirigenti delle nazioni europee. Del resto una crisi mondiale non può che vedere il coordinamento della Federal Reserve e della BCE: esercizio nel quale si stanno adeguatamente impegnando sia Draghi che Bernanke da tempo. I problemi, da risolvere dall’autunno del 2012 a quello del 2013, meno di un anno, nascono dalle elezioni che si terranno in Germania ed in Italia ed hanno un segno diverso.
L’Italia esce da un ventennio confuso ed inconcludente e deve trovare una prospettiva che le garantisca una fuoriuscita da un sistema politico che si è dimostrato complessivamente inconcludente; si deve garantire una prospettiva fattibile di espansione economica e deve trovare, insieme con le altre nazioni europee, una formula capace di consolidare il sistema monetario dell’euro e di sanare le contraddizioni (i deficit dei bilanci pubblici ed il disavanzo delle economie latine che si contrappone all’avanzo dell’economia tedesca) create, e non risolte, dall’attuale sistema monetario europeo.
La Germania, almeno una parte di quella nazione, ha paura di essere risucchiata nel vortice della bassa produttività e della ridotta competitività delle economie latine e non vuole assolutamente ritrovarsi nella fragilità finanziaria delle finanze pubbliche di quelle medesime economie latine. La partita da giocare, dunque, è difficile: perché esistono problemi e difficoltà oggettive ma non sembra ancora maturo un concerto condiviso dei risultati, e dunque degli strumenti idonei al raggiungimento di quei risultati, che si vogliono ottenere.
In Germania, in particolare, esiste una paura dell’inflazione, atavicamente accumulata nella storia economica di quel paese e nel ricordo del “rogo della moneta” che esplose nella repubblica di Weimar ed aprì la strada all’avventura del nazismo, ed alla sconfitta militare che ad essa seguì, da parte delle forze mondiali alleate. Sul terreno della politica economica, questa paura si traduce nella convinzione che la BCE voglia alimentare la spesa pubblica, inefficiente e crescente, delle economie latine: sottoscrivendo quote crescenti di progetti di spesa per investimenti e di previdenza sociale inconcludenti. Una parte dell’opinione pubblica tedesca teme che una BCE, che allarghi i cordoni della borsa verso i figli prodighi dell’Europa latina, possa assorbire e compromettere l’avanzo primario dell’economia reale tedesca, avanzo che è il frutto della loro capacità di competere sulla scena mondiale e dell’equilibrio dinamico che l’economia tedesca ha creato nel proprio regime di Welfare. Questa parte dell’opinione pubblica tedesca teme il saccheggio, da parte dei latini, del risparmio accumulato dai tedeschi. E non vede, purtroppo, che questa accumulazione di risparmio, se si prolungasse nel tempo e non venisse reinvestita, per alimentare la crescita, creerebbe le premesse per un rallentamento dell’economia tedesca stessa e della intera economia mondiale. Una Europa in recessione non è una buona cosa per l’economia mondiale. Mentre sprecare quel risparmio per seguire la cialtroneria latente dei welfare latini e delle loro degenerazioni sarebbe un disastro altrettanto grave.
Come spiegava, agli inizi del mese di agosto, Lucrezia Reichlin26, esiste un sentiero stretto che ci offre una ragionevole prospettiva di crescita economica in un paradigma keynesiano che si allontanò, negli anni tra le due guerre, dallo schematismo dell’approccio “continentale”, che qui sta per “europeo vs. anglosassone”, e dunque, ormai, anche americano. Un paradigma che si concentra solo sulla trasformazione reale del risparmio in investimento. Nell’approccio continentale l’interesse, il tasso dell’interesse, è il prezzo che si deve pagare al risparmiatore per trasferire all’investitore le risorse necessarie perché egli sviluppi i propri progetti espansivi. Keynes disarticola questa coppia, risparmio ed investimento, che viene tenuta in equilibrio da una unica chiave di volta: il tasso di interesse. Keynes considera, invece, il tasso di interesse come il costo opportunità della moneta.
La moneta, d’altra parte, ha il vantaggio di essere l’unico asset che compra ogni cosa: è liquida e non sempre quello che avete comprato con la moneta, può essere rivenduto al medesimo prezzo.
Se con la moneta un individuo compra titoli finanziari, pubblici o privati che siano, essi daranno un rendimento, ai risparmiatori che li sottoscrivono, inferiore a quello dei profitti che matureranno gli imprenditori, che utilizzano quelle risorse monetarie, loro trasferite dai risparmiatori, una volta pagati anche salari ragionevoli e prezzi efficienti delle materie prime e delle tecnologie per produrre. Il tasso di interesse che non ottiene chi detiene moneta, perché preferisce restare liquido, si forma tra la volontà di coloro che desiderano tenere moneta, senza ricevere un rendimento, e quella di coloro che accettano quel rendimento in una ragionevole sfida rispetto al rischio che, a sua volta, genera il rendimento secondo gli impieghi che vengono realizzati dalla moneta che i risparmiatori trasferiscono agli Stati ed alle imprese: per creare welfare affidabili ed investimenti che espandano il volume della ricchezza esistente.
Mario Draghi intende fronteggiare, con la BCE, una patologia dei mercati monetari e finanziari che è stata generata dagli squilibri reali europei ma che non deve indurre ulteriori squilibri. Vuole fare solo e semplicemente il mestiere del banchiere centrale: governare la politica monetaria. La BCE deve comprare sul mercato secondario, cioè non al momento dell’emissione dei titoli pubblici, ma da controparti che hanno comprato quei titoli in emissione, e che intendono venderli sotto la pari, al di sotto del prezzo di emissione, perché vogliono cogliere una doppia opportunità: innalzare i rendimenti (lo spread, la differenza, che guadagnano se un titolo, emesso a 100 viene pagato novanta ma liquida comunque un rendimento del 5%); ottenere anche il rimborso del capitale, sapendo che l’Europa latina può pagare lentamente ma paga e non è un insieme di organizzazioni statali fallite. La messa in sicurezza delle finanze pubbliche è avvenuta. E la si può migliorare ulteriormente. Dunque Draghi vuole evitare che gli spreads innalzino il costo del danaro, che per i prestiti bancari non potrebbe essere inferiore a quello che pagano gli Stati sovrani, e vuole evitare che esista, tra economie che intendono convergere verso una crescita comune, quelle europee, un divario elevato di tassi di interesse che crei vantaggi per i più forti e danni per i più deboli: mandando a quel paese l’ipotesi fondamentale della convergenza e della crescita comune. Draghi vuole rendere più stabile il mercato monetario e finanziario europeo perché vuole ottenere stabilità e crescita. Se Draghi non potrà compiere le operazioni di mercato aperto che, immettendo moneta contro titoli nel mercato secondario, normalizzeranno i tassi di interesse e li terranno convergenti e bassi, per poter alimentare la crescita, sarà compromesso proprio il valore che la Germania intende raggiungere: non ci sarà crescita stabile e non ci sarà convergenza delle economie europee.
La politica monetaria, post-keynesiana, di Draghi è la soluzione del problema che cerchiamo di superare e non è un danno per la crescita.
Ma concludiamo con l’Italia e con le conseguenze che la politica monetaria di Draghi potrebbe avere sugli equilibri istituzionali e sulla riorganizzazione del sistema politico nel nostro paese.
L’Italia non si può più consentire un “keynesismo bastardo”, spesa pubblica fuori controllo e bassa produttività, come accadde dalla fine degli anni Sessanta e dopo la crisi delle materie prime negli anni Settanta. L’economia italiana può aumentare la propria produttività e deve farlo per fronteggiare la crescente competizione internazionale che diventa, anche, un freno alla crescita dei prezzi imposta dai monopoli e dalle rendite di posizione locali. Meno tasse e meno spesa pubblica; ridimensionare le procedure pubbliche che finiscono per creare rendite collusione con quei privati che non accettano la competizione. Meno tasse ed aliquote più basse ma anche compressione dell’evasione fiscale e della economia grigia che sottrae risorse al paese che allontana la legittimità dalla ricchezza. L’Italia, e l’Europa, avranno un futuro sostenibile solo con una politica monetaria che sia capace di garantire la crescita di una economia più aperta verso il resto del mondo e più integrata con il clima delle innovazioni tecnologiche e sociali che il futuro ci potrà garantire. Ferma restando la convinzione che gli assetti istituzionali sono l’asset fondamentale per una crescita equilibrata. E questi asset istituzionali, nella politica come nella politica monetaria, sono sempre e solo il risultato del comportamento delle classi dirigenti, che li creano e che sono capaci di utilizzarli per arrivare ai risultati che quegli strumenti dovevano raggiungere.



8. Il rischio che la discussione italiana ripieghi su un profilo troppo domestico di fronte ai prossimi appuntamenti elettorali.

I mesi alle nostre spalle, quasi un anno di Governo Monti, nonostante le luci e le ombre di cui abbiamo parlato, possono essere valutati positivamente: per come sono stati impiegati i mezzi disponibili e per gli effetti che quegli impieghi hanno generato. Ma, per dirla tutta, ci troviamo ora in una situazione meno peggiore di quella dell’estate 2011: quando precipitò verticalmente la credibilità economica e politica del nostro paese. Questo aggiustamento si deve al ripristino della reputazione internazionale del paese – compito realizzato da Mario Monti – ed alla introduzione di una politica monetaria eterodossa ed ad una strategia di robusta comunicazione, che induce effetti sui comportamenti degli attori di mercato: misure, entrambe, predisposte e gestite con grande efficacia da Mario Draghi.
Monti e Draghi sono i pilastri di una trave che dobbiamo consolidare ed utilizzare nei prossimi dodici mesi.
Abbiamo un nemico esterno oggettivo, come hanno spiegato gli analisti del Fondo Monetario ai primi di ottobre, l’economia globale cresce meno di quanto avessimo previsto e si accentano gli squilibri tra i tassi di crescita delle tre aree del mercato mondiale27. Crescono meno di prima, ma con una dimensione del tasso di crescita pari, od anche superiore a tre volte quella degli Stati Uniti, il Far East, la Turchia ed i paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina. Crescono poco, intorno o meno del 2% l’anno Giappone, Canada e Stati Uniti. Ristagna intorno a tassi prossimi allo zero l’area dell’Euro e, più in generale, l’Europa.
La media della crescita mondiale si riduce nell’intorno di un 4% l’anno, forse, ma speriamo di no, nell’intorno inferiore di quel valore. ma cresce la varianza di quella media, che rappresenta il sintomo di squilibri finanziari ed economici, nei conti degli Stati come nelle bilance dei pagamenti, che persistono e che dovrebbero essere meglio governati: dagli Stati ma anche dagli attori dei mercati, imprese e banche. L’economia mondiale, insomma, è sospesa tra il rischio di una riduzione del tasso di crescita e di una mancata riduzione degli squilibri tra le economie nazionali e l’incertezza di una stagione di appuntamenti elettorali molto impegnativi. Negli Stati Uniti ed in Europa: in Italia ed in Germania.
Abbiamo anche un ostacolo decisivo: non conosciamo quale possa e debba essere la composizione dei nuovi assetti politici che determineranno l’impianto delle scelte che dovrebbero correggere la riduzione del tasso di crescita e la chiusura degli eccessi di squilibrio, sia sul terreno finanziario che su quello economico.
Nel caso italiano questa situazione contingente di ordine generale si colora di un tratto domestico inquietante. L’attenzione ai temi strettamente “locali” sembra prevalere. E qui si intende per locale il dato nazionale ed il collegamento tra gruppi ed associazioni di rappresentanza che lavorano piuttosto per obiettivi redistributivi, io vinco tu perdi, e non per obiettivi di espansione della crescita interna, che garantirebbero una soluzione win win: vincono tutti gli interessi in gioco perché si dilata la ricchezza disponibile e se ne può gestire la trasformazione secondo la composizione politica che si determina nella formazione delle istituzioni pubbliche. In Italia, nei prossimi dodici mesi, voteremo per eleggere un nuovo Parlamento, che eleggerà un nuovo Capo dello Stato. Nel Parlamento si formerà un nuovo Governo e molte grandi regioni, e qualche comune assai importante, dovranno riformulare la propria struttura politica. Un ingorgo elettorale che combinato con i problemi oggettivi che ci fronteggiano dall’orizzonte internazionale sembra un passaggio davvero temibile.
Come abbiamo già detto, la condizione di “meno peggio” alla quale siamo approdati deriva essenzialmente, se non del tutto, dall’iniziativa internazionale di Monti e Draghi. Sulla politica fiscale interna si può discutere dei mesi alle nostre spalle, troppe tasse ed imposte e troppo poca riduzione della spesa pubblica e mancata cessione di parte del patrimonio pubblico, che avrebbe potuto e dovuto compensare la riduzione del debito pubblico. Essendo il nostro problema rilevante la dimensione del debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo, come ha misurato lo spread generato dal mercato secondario dei titoli di Stato, che leggeva in quello squilibrio, e nella ridotta capacità operativa di offrire servizi adeguati da parte della pubblica amministrazione, un grado crescente di rischio. Troppo debito, troppe tasse e servizi troppo poco qualificati: anche perché previdenza, salari e stipendi del sistema pubblico ed interessi sul debito assorbono dosi crescenti di gettito fiscale e non riducono lo stock di debito in essere mentre la crescita non si manifesta. Siamo, insomma in una spirale che ha frenato un default clamoroso, nel quale sarebbe culminato il trend declinante dei venti anni alle nostre spalle, ma ci servono certamente due risultati: mantenere e consolidare la nostra reputazione internazionale come paese; migliorare la qualità della politica economica, riqualificando la relazione tra Governo e Parlamento e quella tra Governo e macchina della pubblica amministrazione, riordinando radicalmente anche la piramide, troppo complessa e ridondante, del decentramento amministrativo (comuni, provincie e regioni).
Questa nuova politica economica dovrà avere, sul piano interno, tre punti fermi: riduzione delle imposte e riequilibrio tra imposte dirette ed indirette a favore delle seconde; riduzione del cuneo fiscale, grazie alla riduzione della spesa pubblica ridondante28; riduzione del debito pubblico attraverso cessione di asset pubblici e non solo mediante accumuli di avanzo in conto reddito per ammortizzare, in molti decenni, la dimensione del debito.
Quale che sia il risultato della nuova composizione del sistema politico italiano, all’indomani della stagione elettorale che ci attende, si dovrebbero tenere fermi due punti: persistere nella centralità della reputazione internazionale e della nostra partecipazione alla riforma dell’Unione Europea come primo ed irrinunciabile punto di partenza per questo nuovo inizio; considerare Monti e Draghi due risorse umane irrinunciabili, per i prossimi anni, nella composizione della nostra classe dirigente e, per naturale ed ovvia conseguenza, nella predisposizione e nella successiva direzione delle politiche necessarie per ottenere, finalmente, una svolta dal declino alla crescita.



Post-fazione
Napoli 27 ottobre 2012


Il 24 ottobre 2012 Mario Draghi è stato invitato dal Deutscher Bundestang (il Parlamento tedesco) per una discussione sulle politiche della Banca Centrale Europea. Si tratta di un evento davvero inedito ma anche simbolicamente molto efficace. Il banchiere centrale risponde, normalmente, al Parlamento dello Stato nel quale circola la moneta governata dalla banca centrale di quello Stato. E sono numerose le testimonianze rese in Parlamento, ed i giudizi in esse formulate, sulle politiche fiscali proposte e realizzate dai Governi ed approvate dai parlamenti. Politica fiscale e polita monetaria sono le leve della crescita e della stabilità e, anche se qualcuno interpreta l’autonomia della banca centrale quasi come una forma di separatezza dall’iniziativa degli Stati, è evidente che, seppure nella reciproca autonomia, il Governo e la banca centrale debbano rispondere al Parlamento, che rappresenta la comunità di riferimento che utilizza la moneta del suo Stato, nelle rispettive autonomie intese come responsabilità piena: del Governo, per la politica fiscale, e della banca centrale per quanto riguarda la politica monetaria. C’è un annoso doppio problema, che si trascina da tempo: se la banca centrale debba, o non debba, finanziare la spesa in deficit dei governi aumentando la base monetaria e se la banca centrale debba considerare il perimetro della sua azione in termini di stabilità della moneta (contrastando l’inflazione) e di stabilità degli intermediari finanziari (vigilando sulle condizioni patrimoniale e la direzione manageriale degli stessi). In alcuni casi, cioè in alcuni Stati nazionali, la banca centrale non si limita a mantenere la stabilità dei prezzi e la stabilità dei sistemi finanziari nazionali ma allarga la propria azione all’impatto, che la politica monetaria genera sulle dimensioni dell’occupazione e, di conseguenza, sulla intensità del ritmo della crescita. Esiste, infatti, un fascio di percorsi potenziali, tra i molti possibili, per ogni paese, lungo i quali si possa ottenere stabilità dello sviluppo e stabilità monetaria come risultati paralleli. E la banca centrale ed il governo dovrebbero concorrere, seppure da fronti diversi, per ottenere questi risultati, migliori di quelli che potrebbero manifestarsi in uno scenario di recessione o di turbolenze monetarie.
L’evento al quale ha preso parte Mario Draghi, dunque, è simbolico per due motivi, fatte queste premesse che definiscono il perimetro possibile dell’azione affidata al banchiere centrale. Da una parte il Parlamento tedesco non rappresenta lo Stato nel quale circola la moneta governata dalla BCE, l’euro. Come è noto la nascita dell’euro ha dato luogo ad una singolare, e fino ad ora inedita, configurazione istituzionale: un sistema di banche centrali che ha creato una propria proiezione come ente consortile, la BCE appunto, per governare la moneta europea come moneta comune al sistema degli Stati che corrispondono a quelle banche centrali. Nella governance, il regime di governo, della BCE si prevede, infatti, la partecipazione dei governatori, delle banche centrali nazionali che partecipano alla BCE, ad un organo allargato di direzione della banca ed un comitato esecutivo, diretto dal presidente, che indirizza e gestisce sia il comitato esecutivo che il comitato allargato. In questo regime di transizione del sistema dell’Unione Europea verso una più chiara e definita identità istituzionale, del sistema di istituzioni di cui essa si compone, Draghi ha, in via preliminare, ricordato al membri del Parlamento tedesco come per lui fosse un onore partecipare a quella discussione. Ma ha anche aggiunto che, con regolare periodicità, il contenuto delle politiche della banca centrale, da lui presieduta, viene esposto nel Parlamento Europeo. Un organo assai diverso, ovviamente, dai parlamenti che rappresentano gli Stati nazionali europei che partecipano all’esperienza della moneta unica1p.
Ma questo evento, ovviamente, non si è limitato solo alla rappresentazione simbolica di questo processo che avanza nel vecchio continente: restando ferma la constatazione che la lentezza del processo abbia generato ulteriori fattori di aggravamento delle conseguenze della prima crisi finanziaria globale. Conseguenze che si leggono nella enfasi della crisi finanziaria degli Stati nazionali che partecipano all’esperienza della moneta unica e che hanno, ecco il punto, generato l’esigenza di una diversa, ed inedita, politica monetaria da parte della BCE, che viene definita come Outright monetary transactions (OMTs)2p.
Una traduzione letterale del termine outright sarebbe categorico, completo, netto, incontestato, od anche assoluto. In inglese la parola vale come aggettivo ed anche come avverbio, nelle medesime accezioni3p. Cerchiamo di interpretare questo genere di transazioni monetarie nel contesto degli interventi della BCE. Draghi le spiega con molta chiarezza proprio nel seguito del suo discorso al Bundestag:
We designed the OMTs exactly to fulfil this role and restore monetary policy transmission in two key ways. First, it provides for ex ante unlimited interventions in government bond markets, focusing on bonds with a remaining maturity of up to three years. A lot of comments have been made about this commitment. But we have to understand how markets work. Interventions are designed to send a clear signal to investors that their fears about the euro area are baseless. Second, as a pre-requisite for OMTs, countries must have negotiated with the other euro area governments a European Stability Mechanism (ESM) programme with strict and effective conditionality. This ensures that governments continue to correct economic weaknesses while the ECB is active. The involvement of the IMF, with its unparalleled track record in monitoring adjustment programmes would be an additional safeguard4p.

Ed aggiunge quali possano essere gli impatti di questo genere di transazioni sull’economia europea in quattro direzioni:
Before announcing the OMT programme, we considered very carefully the possible risks – and we designed our operations to minimise them. But I am aware that some observers in this country remain concerned about the potential impact of this policy. I would therefore like to use this opportunity to go through those concerns – one by one – and explain our views. First, OMTs will not lead to disguised financing of governments. We have specifically designed our interventions to avoid this. They will take place solely on secondary markets, where bonds that have already been issued are traded. If interventions take place, they will involve buying government debt from investors, not from governments. All this is fully consistent with the Treaty’s prohibition on monetary financing. Moreover, they will focus on shorter maturities and leave room for market discipline. Second, OMTs will not compromise the independence of the ECB. The ECB will continue to take all decisions related to OMTs in full independence. It will decide whether to intervene based on its own assessment of monetary policy transmission and with the aim of safeguarding price stability. The fact that governments have to comply with conditionality will actually protect our independence. The ECB will not be forced to step in for a lack of policy implementation. Third, OMTs will not create excessive risks for euro area taxpayers. Such risks would only materialise if a country were to run unsound policies. This is explicitly prevented by the ESM programme. And we have been very clear that each time a programme starts being reviewed, we will routinely suspend operations and resume them only if the review has been concluded positively. This will ensure that the ECB intervenes only in countries where the economy and public finances are on a sustainable path. Fourth, OMTs will not lead to inflation. We have designed our operations so that their effect on monetary conditions will be neutral. For every euro we inject, we will withdraw a euro. In our assessment, the greater risk to price stability is currently falling prices in some euro area countries. In this sense, OMTs are not in contradiction to our mandate: in fact, they are essential for ensuring we can continue to achieve it. Moreover, we see no signs that our announcement has affected inflation expectations. They continue to be firmly anchored. This is testament to our track record on price stability over the last decade and our credible commitment to maintaining price stability. The citizens of the euro area can be confident that we will remain permanently alert to risks to price stability. We have all the necessary tools at our disposal to maintain it and to withdraw any excess liquidity in case of upward risks to price stability”.
Il neretto è di chi scrive.
Nella spiegazione di Draghi viene evocato, ma non certo in maniera esplicita, un principio analitico sulla moneta: la moneta non è quello che è, dopo la scomparsa della moneta come merce, l’oro o l’argento; la moneta è quello che fa: è un metro del valore, l’equivalente generale degli scambi e, di conseguenza, un fondo di valore. Cosa sono queste transazioni monetarie che la Bce si accinge a mettere in campo per rendere più stabile il contesto dei tassi di cambio e della inflazione in Europa? Sono politiche che devono essere interpretate per quello che realizzano, per quello che ottengono come risultato. E, forse, out right indica proprio la possibilità anche se non l’obbligo di poter agire sulle due vie indicate: dalla moneta ai titoli e dai titoli alla moneta.
Ma, Procediamo con ordine. Draghi offre ai suoi ascoltatori, i membri del Bundestag, una spiegazione in due tempi.
Secondo Draghi bisogna, in via preliminare, ripristinare una relazione fisiologica nella trasmissione della politica monetaria. Se la banca centrale riduce i tassi di interesse ed espande la base monetaria si deve realizzare una moltiplicazione progressiva, attraverso i canali bancari: si genera in questo modo una relazione espansiva che si manifesta attraverso depositi e crediti, e che trasferisce progressivamente il risparmio, che ha assunto la forma di moneta, in investimento, attraverso la trasformazione di quella moneta prima in depositi, poi in crediti ed, infine, in investimenti che danno corso al processo della crescita economica. Questa trasmissione della politica monetaria come impulso per la crescita non riesce a prendere corpo nell’area dell’euro dopo le prime contromisure alla crisi finanziaria globale. Una dispersione enorme, nella dimensione relativa dei tassi di interesse, secondo le categorie di operazioni e secondo la natura dei titoli e dei prestiti ai quali essi si applicano, impedisce ai mercati interbancari di funzionare, in Europa, ed impedisce alle banche di svolgere il proprio ruolo nel trasferimento degli effetti espansivi della politica monetaria alla crescita delle imprese ed alla ripresa dei consumi delle famiglie.
Questo nuovo programma di transazioni monetarie (OMTs) – riportare moneta nel sistema comprando sul mercato secondario titoli pubblici che non abbiano una durata residua non superiore ai tre anni – è lo strumento per ripristinare l’equilibrio nei mercati interbancari perché riporta ad una configurazione più attendibile le dimensione dei tassi di interesse collegati ai titoli, pubblici e privati, esistenti nei mercati finanziari. Draghi spiega anche come la BCE abbia dovuto prima capire perché si manifestassero i disturbi nella trasmissione della politica monetaria e poi individuare uno strumento capace di riportare il sistema alla fisiologia tra moneta e titoli, tra crediti e debiti, tra risparmio ed investimenti. La sua diagnosi, che è anche quella cui è pervenuta nella sua complessità la BCE, si può esprimere in questi termini.
Nel trapasso tra il 2011 ed il 2012 si è generata nei mercati finanziari una eccessiva convinzione che la probabilità di uno scenario catastrofico, rispetto all’esistenza dell’euro, fosse una quasi certezza. Se una simile convinzione fosse stata condivisa dalla maggioranza degli operatori finanziari il default si sarebbe realizzato: facendo schizzare troppo in alto i premi per il rischio richiesti dagli investitori, per un evento che non aveva la quasi certezza di realizzarsi, ma realizzando una caduta del corso dei titoli per i paesi meno forti e più compromessi sul fronte della finanza pubblica; facendo scattare negli investitori anche la convinzione che Stati, prossimi alla crisi finanziaria, in presenza di alti spreads e bassi corsi dei titoli, non sarebbero stati capaci, in un tempo sostenibile, di ripristinare la stabilità della propria finanza pubblica.
Il programma OMTs consente di raggiungere un equilibrio, sotto il governo della BCE, capace di sostenere il risanamento degli Stati più fragili in un tempo ragionevole e compatibile con la ripresa della crescita: a condizione che vengano in tal modo ripristinate condizioni di normalità nel trasferimento tra risparmio ed investimento, nella ripresa degli effetti dei mercati interbancari in materia di trasmissione dei segnali della politica monetaria.
Ma come e perché la BCE crede di poter ottenere questi effetti?
Ecco le quattro risposte di Draghi. Le operazioni di moneta contro titoli agiscono sul mercato secondario, dove si acquistano titoli che non sono emessi da Stati sovrani per finanziare i propri deficit pubblici ma che sono già nella proprietà di attori economici (famiglie, imprese o istituzioni finanziarie), che li hanno sottoscritti nelle precedenti emissioni. La BCE non monetizza i deficit correnti generati dagli Stati.
La BCE agisce, anzi, in piena indipendenza dalla pressione dei Governi che si sentano incapaci di ritrovare l’equilibrio di sistema grazie al bilancio degli Stati che essi amministrano. Il Fondo Salva Stati, agente del quale sui mercati è di nuovo la BCE, ecco la terza ragione di ottimismo, supporterà gli Stati nei quali i Governi non saranno capaci, da soli, di arrivare all’equilibrio macroeconomico del sistema economico grazie alla composizione del proprio bilancio pubblico. Ultima, e davvero importante condizione, OMTs non genera inflazione perché la BCE sarà pienamente consapevole di non dover creare squilibrio tra massa monetaria e dimensione degli scambi tra le merci. E già ora la BCE osserva che non sia stata creata alcuna tensione inflattiva od aspettativa di crescita dei prezzi. Ed aggiunge, per bocca del suo presidente, di avere sia la possibilità di ritirare titoli dal mercato che di ritirare moneta dallo stesso. Ecco perché oggi non esiste la probabilità altissima, evento giudicato probabile nel trapasso tra 2011 e 2012, di un facile default del sistema dell’euro e del mercato che esso rappresenta. Ovviamente, conclude Draghi, «It is governments that must set right their public finances. It is governments that must reform their economies. And it is governments that must work together effectively to establish an institutional architecture for the euro area that best serves its citizens». E, davvero, non serve alcuna traduzione.
Ma serve anche che l’impulso, che i leader politici europei hanno dato alle operazioni di stabilizzazione del sistema, si allarghi ora alla ripresa della crescita ed alla continuità della stessa. La stagione elettorale che si propone nei prossimi mesi molto intensa, ed assai incerta negli esiti, potrebbe rappresentare un ostacolo ulteriore alla stabilizzazione delle aspettative sui mercati europei, rendendo più difficile il lavoro di Draghi e della BCE. Anche per questo abbiamo citato, nelle note a questa postfazione, i giudizi di Rodrik su mercati e democrazia, istituzioni e crescita, qualità delle risorse umane, che si assumono la leadership dei processi di cambiamento, e qualità dei risultati che quelle leadership lasciano sul campo dopo aver annunciato le proprie intenzioni. Il bilancio di questo insieme di elementi, riferendosi ai venti anni che ci precedono nella nostra esperienza italiana, è davvero deludente. Ne segue che all’orizzonte, incerto ma governabile, che Draghi prospetta nel suo discorso al Bundestag, nel nostro paese si aggiunge il rischio della flaccidità accumulata nei venti anni alle nostre spalle. Teniamone conto nelle prossime tornate elettorali.











NOTE
1 Questo è l’incipit del suo discorso: «Ladies and gentlemen, It is a privilege and a pleasure for me to be here today. As you know, this is the first time Ìm speaking publicly as President of the European Central Bank outside the ECB. I could not think of a more appropriate occasion than the European Banking Congress in the ECB’s home town. I understand that this congress was established about 20 years ago to strengthen the position of Frankfurt as a European financial centre, and thereby make the city attractive as a location – first for the European Monetary Institute and now for the ECB. Well, I am pleased to see how successful it has been! Before discussing the shift towards a much greater role of emerging economies, which is the theme of today’s congress, let me elaborate on the current situation in the euro area». Il testo integrale si può leggere at http://www.ecb.int/press/key/date/2011/html/sp111118.en.html.^
2 Per una ricostruzione della articolata traiettoria professionale, e del pensiero, di Guido Carli, si legga, in una bibliografia molto ampia, l’autobiografia, pubblicata poco prima della sua morte: G. Carli, in collaborazione con C. Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Editori Laterza, 1993.^
3 Per le tesi di Alesina e Giavazzi, si veda Troppe tasse e pochi tagli: Caro presidente no, così non va at http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_04/alesina_giavazzi-presidentecosi-non-va_0205d1da-1e50-11e1-b26c-4b15387dad1c.shtml.^
4 J.E. Stiglitz, Contagion of Bad Ideas, August 5, 2011, at http://www.project-syndicate.org/commentary/a-contagion-of-bad-ideas.^
5 N. Roubini, Down with the Eurozone, November 11, 2011, at http://www.project-syndicate.org/commentary/down-with-the-eurozone.^
6 P. Krugman, Killing the Euro, December 1, 2011, at http://www.nyti mes.com/ 2011/12/02/ -opinion/krugman-killing-the-euro.html?_r=2&.^
7 K. Rogoff, Is Modern Capitalism Sustainable?, December 2, 2011, athttp://www.projectsyndicate.org/commentary/is-modern-capitalism-sustainable.^
8 R.J. Shiller, The Neuroeconomics Revolution, November 21, 2011, at http://www.projectsyndicate.org/commentary/the-neuroeconomics-revolution.^
9 J. Frankel, The Hour of the Technocrats, November 25, 2011, at http://www.project-syndicate.org/commentary/the-hour-of-the-technocrats.^
10 B. Eichengreen, Europe’s Darkness at Noon, November 8, 2011, at http://www.projectsyndicate.org/commentary/europe-s-darkness-at-noon.^
11 La conferenza si tiene il 12 gennaio del 2012; ecco il testo integrale della stessa at http://www.ecb.int/press/pressconf/2012/html/is120112.en.html.^
12 Alla fine di febbraio 2012 Mario Draghi rafforza la sua strategia di comunicazione: un tratto che, insieme a quella che si affermerà come una politica monetaria non convenzionale, si traduce in un vero e proprio strumento di politica economica. Una moral suasion che è anche un effetto di annuncio su come vadano interpretati i fenomeni economici da parte delle autorità politiche. C’è in questa fenomenologia, mutatis mutandis ovviamente, nel tempo e nelle circostanze da affrontare, un tratto che potrebbe ricordare le relazioni sull’economia nazionale che Guido Carli, o Raffaele Mattioli, leggevano una sola volta in ogni anno. Mario Draghi ha rilasciato due interviste lunghe e inequivocabili, al «Frankfurter Allgemeine» e al «Wall Street Journal». Nella prima spiega ai tedeschi la situazione della Grecia e nella seconda spiega agli americani l’Europa, che ai loro occhi resta un oggetto misterioso e non classificabile alla voce “unione”. «I segnali positivi sono aumentati nelle ultime due settimane?» Chiede il giornalista. «Direi di sì, tuttavia l’incertezza resta elevata». Finisce così l’intervista del «Frankfurter Allgemeine» – il primo giornale tedesco – a Mario Draghi. Si può dire che il tono di Draghi sia positivo con riserva, prudente ma incoraggiante. La vera notizia, forse, è che un giornale tedesco dia tanta attenzione alla Grecia. E Draghi spiega che «Il paese ha cominciato ad agire […] la chiave per controllare il rischio è parte dell’implementazione del programma, che deve essere integrale». Al «Wall Street Journal» spiega che la ripresa in Europa procede molto lentamente «io stesso mi sono sorpreso dell’assenza di euforia, dopo l’approvazione del pacchetto (di riforme) e questo probabilmente vuol dire che i mercati vogliono vedere l’applicazione delle misure politiche». Politiche di austerità, che accomunano molti paesi europei e che Draghi definisce indispensabili: «non dovremmo negare che esse porteranno alla contrazione nel breve termine, ma nel futuro ci sarà il cosiddetto canale della fiducia che riattiverà la crescita; ma è qualcosa che non succederà nell’immediato, ed è per questo che le riforme strutturali sono così importanti, perché la contrazione di breve periodo sarà seguita da una crescita sostenibile di lungo periodo solo se queste riforme saranno manifeste». Draghi distingue, insomma, anche l’austerità “buona” da quella “cattiva”, sottolineando la necessità di tagliare la spesa corrente piuttosto che aumentare le tasse e tagliare gli investimenti. A proposito del welfare, Draghi spiega che il sistema sociale europeo è superato e che ora occorrono riforme per creare lavoro, specialmente per i giovani, e dunque la spesa e i consumi. L’Europa resta un caso difficile da capire per gli Stati Uniti, che sono appunto, un’unione di Stati. E Draghi spiega che l’unità fiscale deve essere preceduta dalla capacità, per paesi così diversi, di sapersela cavare da soli. Il testo completo delle due interviste si trova at http://www.ecb.europa.eu/ press/key/date/ 2012/html/ - sp120224_1.en.html ed at http://www.ecb.europa.eu/ press/key/date/201/html/sp120224. en. - html.^
13 D. Rodrik, The Nation-State Reborn, February 13, 2012, at http://www.project-syndicate.org/commentary/the-nation-state-reborn.^
14 «Social institution like money are public goods. Models of general equilibrium – competitive markets and individual optimizing agents – are not well adapted to explaining the existence and quantity of public goods. Another time-honored observation of monetary economists is the analogy of money and language. Both are means of communication. The use of a particular language or particular money by one individual increases its value to other actual or potential users. Increasing returns to scale, in this sense, limits the number of languages or money in a society and indeed explains the tendency for one basic language or money to monopolize the field. Theory must give away to history in explaining which language and what money – English and the dollar for our country – are adopted in any given community. Government itself is a public good, and one of its principal functions. Is to provide other public goods to its citizens. Naturally enough, nation-states regard the definition and coinage of money as one of their prerogatives and responsibilities. […] Failure of the conditions necessary for Arrow-Debreu equilibrium is one way to describe the reasons societies adopt, use and value money – a contorted and contrived way, to be sure, but one that comes naturally to economic theorists. So a monetary economy will not achieve such an equilibrium. Neither will barter, given the costs of commodity exchange markets and bilateral transactions. A monetary economy reaches a different second best, presumably a better second best, than a barter economy. After all, it does not preclude barter or futures transactions but adds other options. Question of this kind, about alternative regimes, should be distinguished from questions about quantitative variations within any one regime. For example, given a monetary economy and its institutions, market, and intermediaries, how does its equilibrium depend on the quantity of money? To say that real magnitudes don’t depend on the quantity is not to say that money is a veil in the sense that the economy achieves the same equilibrium that it would in the absence of any monetary institutions», scrive J. Tobin in Fromm and Klein, The Brookings Model: Perspective and recent Developments, North Holland, New York, 1975. Il testo di Tobin si può consultare anche at http://www.minneapolisfed.org/publications_papers/books/models/cp83.pdf.^
15 La conferenza è un impegno periodico e regolare (mensile) del presidente della BCE; in questo caso il testo si può leggere at http://www.ecb.int/press/pressconf/2012/ html/ is120308. -en.html. I commenti di Savona, Wolf e Vaciago si possono leggere (Paolo Savona) at http:/ - /www.formiche.net/dettaglio.asp?id=28132&id_sezione=104&blog=1; (Giacomo Vaciago) at http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-09/crescita-genera-crescita 074250. shtml? - uuid=AbpOSu4E; (Martin Wolf) at http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-03-06/rigore-tedesco-ingabbia-europa231851.shtml?uuid=AbcpdY3E.^
16 B. Spinelli, Il Vietnam dell’Europa, in «la Repubblica» del 27 giugno 2012, at http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1GUT0M.^
17 A. Alesina, Gli alibi facili che non aiutano, in «Corriere della sera» del 27 giugno 2012, at http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_27/alesina-gli-alibi-facili-che-non-aiutano9bb -d012a-c019-11e1-931f-9ffeafa6de3c.shtml.^
18 A. Rampino, Il premier in aula “ho il sostegno di una larga base, in «La Stampa» del 27 giugno 2012, at http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1GUUBA^
19 «I ragionamenti più diffusi, popolari, sembrano scontare che la gestione appropriata di un problema di debito è semplicemente subordinata alla distinzione tra liquidità e solvibilità. Se si trattasse solo di un problema di liquidità, il finanziamento dovrebbe essere offerto fino a quando il paese abbia trovato una sua via di uscita dalle difficoltà; se si tratta di un problema di solvibilità, serve una qualche procedura per gestire il fallimento. Ma anche una rappresentazione molto teorica, “astratta”, di queste condizioni dimostra che questo è un modo fuorviante per valutare lo stato delle cose, per descriverle. Non esiste alcuna situazione che sia solo un problema di pura liquidità; ci deve essere almeno un dubbio sul fatto che ci possa essere almeno una probabilità di insolvenza. Ma, anche se ci fosse una probabilità significativa che il debito non possa essere rimborsato per intero, comunque, potrebbe ancora esistere un interesse dei creditori a fornire finanziamenti sufficienti per evitare un default immediato. Mentre è opinione diffusa, e di larga condivisione, che esista un conflitto tra l’interesse collettivo dei creditori nel concedere quel finanziamento e l’interesse individuale, di ciascun creditore, ad uscire dalla sua posizione nel rapporto con il debitore». P. Krugman: Financing Vs Forgiving a Debt Overhang, National Bureau of Economic Research, Cambridge, MA 02138, USA Journal of Development Economics 29 (1988) 253-268. North-Holland.^
20 Il testo completo si legge at http://www.ecb.int/press/key/ date/2012/html/ sp120709. -en.html.^
21 «I asked myself what sort of message I want to give to you; I wouldn’t use the word “sell”, but actually I think the best thing I could do, is to give you a candid assessment of how we view the euro situation from Frankfurt. And the first thing that came to mind was something that people said many years ago and then stopped saying it: The euro is like a bumblebee. This is a mystery of nature because it shouldn’t fly but instead it does. So the euro was a bumblebee that flew very well for several years. And now – and I think people ask “how come?” – probably there was something in the atmosphere, in the air, that made the bumblebee fly. Now something must have changed in the air, and we know what after the financial crisis. The bumblebee would have to graduate to a real bee. And that’s what it’s doing».
Dice Mario Draghi alla conferenza di Londra del 26 luglio 2012. Il testo completo delle due interviste si legge at http://www.ecb.int/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html ed at http://www.ecb.int/press/key/date/2012/html/sp120721.en.html^
22 B. Spinelli, Noi, appesi come foglie d’autunno, in «la Repubblica» del 25 luglio 2012, at http://www.repubblica.it/politica/2012/07/25/news/spinelli_europa-39654351/.^
23 Alla fine di giugno l’Institute For New Economic Thinking (Inet), fondato da Soros e Stiglitz, ha creato un consiglio di economisti e promosso un manifesto per individuare i tratti di una politica economica possibile nell’area dell’euro: capace di ridare all’Europa una fondata prospettiva di crescita. Il manifesto proposto dai 17 economisti del consiglio ha un titolo efficace Breaking the Deadlock: A Path Out of the Crisis: rompere l’impasse, forzare il punto morto: un sentiero per uscire dalla crisi. Il manifesto è stato presentato il 23 luglio. Nel consiglio ci sono anche economisti tedeschi e vale la pena di leggere l’intervista a Lars Feld che Tonia Mastrobuoni propone su La Stampa del 28 luglio 2012. Così come risulta efficace, e sostanzialmente convergente verso la interpretazione di Barbara Spinelli, la rubrica “Numeri Primi” di Fulvio Coltorti, apparsa sul «Corriere della Sera» del 29 luglio 2012. Si vedano i testi at http://archiviostorico.cor riere.it/2012/luglio/29/Mercati_riformare_politiche_adeguare_co_9_120729033.shtml; http://www.lastampa.it/ 2012/07/28/ -economia/crisi-l-euro-rischia-la-distruzione-e-tra-i-tedeschi-l-umore-peggiora-9Pu8FmTSAQOOfNSlUU49VO/pagina.html; http://ineteconomics.org/sites/inet.civicactions. -net/files/ICEC_Statement_23-7-12.pdf^
24 Il testo della conferenza tenuta il 2 agosto da Mario Draghi a Francoforte si legge at http://www.ecb.int/press/pressconf/2012/html/is120802.en.html.^
25 Si veda Hans-Werner Sinn, L’Eurozona nel giorno del Giudizio, 27 agosto 2012, at http://www.project-syndicate.org/commentary/judgment-day-for-the-eurozone-by-hanswerner-sinn/italian.^
26 L. Reichlin, Qualcosa è cambiato così gira la BCE, sul «Corriere della sera», 5 agosto 2012, at http://archiviostorico. corriere.it/2012/agosto/05/ Qualcosa_cambiato cosi_agiraBCEco9 -120805009.shtml.^
27 Una diagnosi compiuta si può leggere nel «World Economic Outlook» rilasciata ad ottobre 2012 da IMF. Consultabile at http://www.imf. org/external/ pubs/ft/weo/ 2012/02/ pdf/text.pdf; è molto interessante anche il discorso di apertura del direttore del Fondo, Christine Lagarde, che si legge at http://www.imf.org/external/np/ speeches/ 2012/101212a.htm. Per una valutazione più compiuta si rimanda a M. Lo Cicero, Il mondo, l’Europa e l’Italia tra rischio ed incertezza, at http://www.finanzaecomunicazione.it/ massimo-lo-cicero/visioni-globali/il-mondo-leuropa-elitalia-tra-rischio-e-incertezza/.^
28 La spesa pubblica attuale, specie quella in conto capitale per “grandi opere”, genera modesti effetti espansivi mentre diminuire le imposte ed i contributi sui salari e sulle imprese genera un positivo effetto di spiazzamento per i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese che ha effetti espansivi più intensi di quelli generati dalla spesa pubblica per “grandi opere” ed altri progetti “nebulosi”.^



1p Scrive D. Rodrik «Come dimostra l’esempio americano, è possibile rinunciare alla sovranità (come hanno fatto la Florida, il Texas, la California e gli altri stati degli Stati Uniti) senza rinunciare alla democrazia. Ma combinare l’integrazione dei mercati con la democrazia richiede la creazione di istituzioni politiche sovranazionali che siano rappresentative e responsabili. Il conflitto tra democrazia e globalizzazione diventa più aspro nel momento in cui il processo di globalizzazione finisce per limitare l’esercizio delle politiche preferenziali a livello nazionale senza un’espansione compensativa dello spazio democratico a livello globale/regionale. L’Europa è già dalla parte sbagliata di questo confine, proprio come dimostrano le rivolte in Spagna e Grecia. Ed ecco il punto in cui il mio trilemma inizia ad essere mordace. Non si possono avere globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale allo stesso tempo, ma bisogna scegliere due elementi tra questi tre. Se i leader europei desiderano mantenere la democrazia, devono scegliere tra l’unione politica e la disintegrazione economica. Devono da un lato rinunciare in modo esplicito alla sovranità economica, oppure metterla, in modo attivo, a servizio dei suoi cittadini affinché ne traggano beneficio. La prima opzione implicherebbe ammettere la propria colpa di fronte all’elettorato e creare uno spazio democratico sovranazionale. La seconda opzione comporterebbe invece una rinuncia all’unione monetaria per poter implementare delle politiche monetarie e fiscali nazionali con l’obiettivo di una ripresa di più lungo termine. Più questa scelta viene posticipata, maggiori saranno i costi politici ed economici che dovranno in definitiva essere pagati». At http://www.project-syndicate.org/commentary/the-new-global-eco no -my-s—relative—winners/italian Ma, aggiunge anche, in un altro testo quasi parallelo cronologicamente che «Geographical distance is as strong a determinant of economic exchange as it was a half-century ago. Even the Internet, it turns out, is not as borderless as it seems: one study found that Americans are much more likely to visit Web sites from countries that are physically close than from countries that are far away, even after controlling for language, income, and many other factors. The trouble is that we are still in the grasp of the myth of the nation-state’s decline. Political leaders plead impotence, intellectuals dream up implausible global-governance schemes, and the losers increasingly blame immigrants or imports. Talk about re-empowering the nation-state and respectable people run for cover, as if one has proposed reviving the plague. To be sure, the geography of attachments and identities is not fixed; indeed, it has changed over the course of history. That means that we should not entirely dismiss the likelihood that a true global consciousness will develop in the future, along with transnational political communities. But today’s challenges cannot be met by institutions that do not (yet) exist. For now, people still must turn for solutions to their national governments, which remain the best hope for collective action. The nation-state may be a relic bequeathed to us by the French Revolution, but it is all that we have». At http://www.project syndicate.org/commentary/thenation-state-reborn.^
2p Mario Draghi afferma, nella conferenza stampa del 6 settembre 2012, al termine della riunione mensile degli organi dirigenti della BCE: «We will now report on the outcome of today’s meeting of the Governing Council, which was also attended by the President of the Eurogroup, Prime Minister Juncker, and by the Commission Vice-President, Mr Rehn. Based on our regular economic and monetary analyses, we decided to keep the key ECB interest rates unchanged. Owing to high energy prices and increases in indirect taxes in some euro area countries, inflation rates are expected to remain above 2% throughout 2012, to fall below that level again in the course of next year and to remain in line with price stability over the policyrelevant horizon. Consistent with this picture, the underlying pace of monetary expansion remains subdued. Inflation expectations for the euro area economy continue to be firmly anchored in line with our aim of maintaining inflation rates below, but close to 2% over the medium term. Economic growth in the euro area is expected to remain weak, with the ongoing tensions in financial markets and heightened uncertainty weighing on confidence and sentiment. A renewed intensification of financial market tensions would have the potential to affect the balance of risks for both growth and inflation. It is against this background that the Governing Council today decided on the modalities for undertaking Outright Monetary Transactions (OMTs) in secondary markets for sovereign bonds in the euro area. As we said a month ago, we need to be in the position to safeguard the monetary policy transmission mechanism in all countries of the euro area. We aim to preserve the singleness of our monetary policy and to ensure the proper transmission of our policy stance to the real economy throughout the area. OMTs will enable us to address severe distortions in government bond markets which originate from, in particular, unfounded fears on the part of investors of the reversibility of the euro. Hence, under appropriate conditions, we will have a fully effective backstop to avoid destructive scenarios with potentially severe challenges for price stability in the euro area. Let me repeat what I said last month: we act strictly within our mandate to maintain price stability over the medium term; we act independently in determining monetary policy; and the euro is irreversible». Il neretto è di chi scrive. Il testo si trova at http://www.ecb.int/press/ pressconf/ -2012/ html/is120906.en.html^
3p «The Forward Outright allows you to buy or sell a specific currency at a specified rate for a specific date in the future. A Forward can have a specific future value date or can be booked on a ‘window’ basis. The ‘window’ refers to the time period in which the contract can be exercised or ‘drawn down’. For example, a customer may need to pay a bill during the month of June, but does not have an exact date, in this case they can have a ‘window’ forward from Jun01 – Jun30, allowing them to ‘draw down’ at any time within that period. A deal is classified as a “forward” deal if the value date is greater than the spot value date. Forward outright trades are rarely entered into for periods in excess of one year». Questa definizione si trova nel sito web di AIB Customer Treasury Services at http://www.fxcenterusa.com/us/default.asp. Una società di un primario gruppo bancario. Secondo questo gergo da mercati monetari un forward out right è un derivato della tipologia dei contratti Foreward nel quale chi sottoscrive i contratti si impegna a riproporlo nel termine di un anno invertendo le contropartite. Il termine out right, attribuito alle politiche della banca centrale, potrebbe dunque indicare proprio quello che, nel seguito del discorso di Draghi, è detto esplicitamente e cioè che i titoli oggetto delle compravendite sul mercato secondario hanno una durata media inferiore a tre anni e che le politiche in questione agiranno sia per iniettare moneta contro titoli che titoli contro moneta se fosse necessario per evitare uno squilibrio di tipo inflattivo derivante da un eccesso di moneta nel sistema. Ma questa è solo una nostra interpretazione e la natura semantica del termine, dunque, potrà essere ulteriormente precisata solo dagli economisti della BCE.^
4p Il testo completo si legge at http://www.ecb.int/ press/key/date/ 2012/html/ sp 121024. -
en.html .^
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