Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIII - n. 6 > Rendiconti > Pag. 621
 
 
Il “Regno”, i Borbone e le grandi potenze nell’Ottocento
di Valentina Sommella
L’interessante volume di Eugenio Di Rienzo (Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012) ricostruisce in maniera estremamente particolareggiata e documentata il ruolo che Francia e Gran Bretagna svolsero nel declino del Regno delle Due Sicilie, con l’obiettivo di sottolineare come la scomparsa della dinastia borbonica nel Sud Italia non fu soltanto la conseguenza del processo di unificazione nazionale ma anche il risultato di una deliberata politica aggressiva messa in atto nei suoi confronti, a partire dalla metà dell’Ottocento, da parte delle «Potenze marittime» che avevano fondamentali interessi strategici nel Mediterraneo. Specialista del periodo in esame, già autore della biografia Napoleone III (Roma, Salerno Editrice, 2011) ed esperto conoscitore della politica estera francese nei confronti del nostro paese, l’Autore si sofferma nel saggio in oggetto sulle cause della lunga e sofferta agonia del regime borbonico. Senza trascurarne le ben note carenze causate da una mancata modernizzazione delle sue strutture politiche, economiche e istituzionali, analizzate qui nel dettaglio, Di Rienzo, attraverso lo spoglio di un’ampia documentazione proveniente dagli archivi diplomatici francesi, inglesi, austriaci, russi e spagnoli, evidenzia la determinazione franco-britannica a far valere in primo luogo i propri interessi economici e geopolitici nell’area.
L’analisi effettuata permette così di mettere in discussione la tradizionale lettura storiografica in base alla quale la politica estera dei sovrani borbonici si sarebbe attenuta, a partire dall’ultimo ventennio del XVIII secolo, a una docile e passiva acquiescenza ai dettami delle grandi potenze. La strategia di non allineamento sul piano dei rapporti internazionali fu invece perseguita con costanza e continuità dai vertici napoletani e abbandonata temporaneamente solo in casi specifici – come ad esempio in occasione dell’ingresso, nel luglio 1793, nella prima coalizione antifrancese – e aveva lo scopo di mantenere una propria autonomia e libertà d’azione che, seppur limitate, miravano a ottenere risultati concreti. Tale politica di equidistanza, confermata con vigore da Ferdinando II, succeduto al padre Francesco I nel novembre 1830, tendeva però a scontentare sia gli antichi alleati, ovvero le Corti del Nord, sia i nuovi potenziali partner, ovvero Francia e Gran Bretagna, come avvenne in occasione della prima guerra carlista. La reazione britannica fu infatti estremamente decisa, come appare evidente dalla sua diretta conseguenza, la cosiddetta Sulphur War, scatenata dalla decisione del governo borbonico di accettare in seconda istanza la proposta di un cartello francese che richiedeva la concessione per dieci anni del monopolio dello zolfo siciliano. L’accordo, che modificava in tal modo il regime commerciale vigente estremamente favorevole alla Gran Bretagna, comportò infatti la vibrata protesta inglese che si concretizzò in una serie di diffide, richieste di indennizzo e ultimatum culminanti in una vera e propria azione di forza antiborbonica nel Mediterraneo. L’iniziale risposta di Ferdinando II fu ferma e determinata ma quella che l’Autore definisce a giusto titolo «la strategia [britannica] d’imperialismo commerciale camuffata dalla difesa dei principi del libero scambio» sortì ugualmente l’effetto sperato di costringere Napoli all’abrogazione dell’operazione commerciale effettuata e al risarcimento dei danni provocati alle imprese anglo-francesi, nonostante la mediazione di Luigi Filippo d’Orléans avesse indicato come eccessive le richieste inglesi. Il superamento della Sulphur War con gli accordi del 1845-46 migliorerà le relazioni commerciali tra le due potenze ma non quelle politico-diplomatiche, esacerbate dal mantenimento a Napoli dell’ambasciatore Temple in spregio alle ripetute richieste di sostituzione da parte del governo borbonico e dal ritorno agli Esteri di Lord Palmerston nel gabinetto Russell che avrebbe ripreso, di qui fino al 1860, la sua precedente politica di avversione nei confronti delle Due Sicilie.
Tale ostilità si manifestò anche in occasione dei moti del ’48 che interessarono sia Napoli che – più diffusamente – la Sicilia. Se infatti la rivolta nella capitale fu rapidamente sedata da Ferdinando II, le operazioni di riconquista dell’isola che, sotto la guida del principe di Satriano Filangieri, avevano consentito il recupero immediato di Messina e di Milazzo, vennero invece lungamente interrotte dai tentativi di mediazione – o piuttosto di ingerenza – anglo-francesi. L’Autore mette dunque in evidenza come la rivolta separatista siciliana sia stata favorita e incentivata dai governi di Parigi e Londra e come soltanto le rivalità e le divergenze strategiche tra le due grandi potenze sul futuro assetto politico dell’isola permisero poi a Ferdinando II e a Filangieri di riprendere le ostilità che nel giro di una ventina di giorni posero fine alla ribellione con la presa di Palermo il 15 maggio del ’49. L’iniziativa borbonica era peraltro stata facilitata dall’elezione a Presidente della Repubblica francese di Luigi Bonaparte che, a differenza del precedente governo, si era dichiarato contrario alla nascita di uno Stato autonomo siciliano.
Ferdinando II dal canto suo si era mostrato fin dal principio molto favorevole all’ascesa al trono del futuro Napoleone III, individuando in lui un interlocutore privilegiato e un potenziale alleato in grado di contrastare le mire espansionistiche britanniche in Sicilia o di scongiurare il pericolo di un’annessione da parte del Piemonte del ducato di Parma e Piacenza, su cui la corte di Caserta rivendicava diritti dinastici. Le aperture del governo borbonico nei confronti di Parigi non ottennero tuttavia i risultati sperati, suscitando viceversa, anche in questo caso, oltre che la diffidenza delle Corti del Nord, soprattutto una forte reazione britannica e confermando dunque l’isolamento internazionale delle Due Sicilie. Isolamento ribadito alla conferenza di Parigi del febbraio 1856 in quanto la più che benevola neutralità assicurata alla Russia da Ferdinando II durante la guerra di Crimea aveva suscitato ancora una volta il risentimento franco-britannico, espresso dai ministri degli Esteri Walewski e Clarendon in numerose note che auspicavano con insistenza un miglioramento dell’ordinamento interno del Regno di Napoli attraverso l’adozione di una serie di riforme modernizzatrici e la liberazione dei prigionieri politici coinvolti nei moti del ’48.
L’apice del contrasto è però raggiunto nell’ottobre del 1856 con la rottura delle relazioni diplomatiche, causata dall’atteggiamento fermo e intransigente di Ferdinando II che, considerando le ripetute note franco-britanniche un’indebita ingerenza da parte di potenze straniere negli affari interni di uno Stato sovrano, aveva orgogliosamente rifiutato di cedere agli ultimatum inviatigli. La stipula, nel 1857, di una convenzione diplomatica tra il Regno delle Due Sicilie e la Repubblica Argentina – che consentiva l’esilio oltreoceano di cittadini napoletani in attesa di giudizio o già condannati per attività antigovernative – avrebbe potuto preludere a un miglioramento dei rapporti con Francia e Inghilterra, ma anche tale gesto si rivelò invece di per sé insufficiente e il conseguente forte risentimento della Corte di Caserta nei confronti delle due nazioni risulta nel memoriale, dai toni durissimi, del 20 marzo in cui si condannava esplicitamente il sostegno francobritannico ai fautori della rivoluzione che non soltanto trovavano ospitalità nei due paesi ma venivano anche finanziati economicamente e riforniti di armi e munizioni.
Un relativo miglioramento nelle relazioni con la Gran Bretagna fu possibile soltanto grazie al mutato clima di politica interna londinese, con la sostituzione, nel febbraio 1858, del governo whig di Palmerston con quello tory guidato da Lord Derby e da Lord Malmesbury agli Esteri. Nel periodo in cui erano all’opposizione, i tories avevano del resto già criticato aspramente la politica estera di Palmerston e Gladstone, da cui era necessario prendere le distanze perché giudicata compiacente nei confronti del Piemonte e viceversa immeritatamente ostile nei confronti di Ferdinando II con cui erano state interrotte le relazioni diplomatiche per motivi di opportunismo politico propagandisticamente camuffato da alibi e giustificazioni umanitarie. In questo contesto, l’Atto reale di grazia, emanato a fine dicembre ’58, con il quale si accordava l’esilio perpetuo a una novantina di prigionieri politici (Poerio compreso), avrebbe potuto suggellare il disgelo con l’Inghilterra se non fosse stato contestualmente accompagnato da un’altra disposizione governativa che prescriveva che i sudditi indagati per delitti politici sarebbero stati giudicati sommariamente da un apposito consiglio militare. Tale ordinanza, accolta molto male dall’opinione pubblica britannica e dagli stessi Derby e Malmesbury, ebbe l’effetto di ritardare ulteriormente la ripresa dei rapporti diplomatici che si intrecciò dunque alle vicende della guerra del ’59, nell’ottica di rafforzare la scelta neutralista di Ferdinando II, di evitare che egli si unisse alla coalizione franco-sarda e tutelare in tal modo ancora una volta gli interessi inglesi nel Mediterraneo, minacciati da una probabile sconfitta dell’Austria e da un conseguente rafforzamento dell’influenza francese in Italia e russa nell’Adriatico. L’ufficiosa designazione di George Elliot come incaricato d’affari a Napoli fu pertanto seguita dall’ufficiale ripresa delle relazioni diplomatiche con la nomina di un ministro plenipotenziario, peraltro facilitata dal rimpasto governativo attuato il 4 giugno del ’59 da Francesco II che, succeduto al padre Ferdinando II, pur riconfermandone la politica interna ed estera, inseriva nel suo esecutivo esponenti della “vecchia guardia” ma anche alcuni progressisti e un nome illustre come quello di Filangieri, nominato presidente del Consiglio e ministro della Guerra, cosa che suscitò la speranza inglese di poter effettivamente risolvere la crisi apertasi nel Regno delle Due Sicilie dopo il 1848.
La breve parentesi liberale in Inghilterra era però destinata a lasciare nuovamente il posto, nello stesso giugno del ’59, al governo conservatore guidato da Palmerston, con Gladstone cancelliere dello Scacchiere e Russell agli Esteri, che ridimensionava nettamente la precedente politica filoasburgica adottata da Malmesbury e superava le iniziali reticenze relative alla situazione italiana optando per un prudente appoggio al Piemonte. La posizione del Regno Sardo è peraltro rafforzata a livello internazionale dagli sviluppi della guerra, dalle sconfitte austriache di Magenta e Solferino, che segnarono, com’è noto, il tramonto dell’influenza asburgica sulla penisola, e dall’annessione della Toscana, dei ducati di Parma e Modena e delle Legazioni pontificie della Romagna, ove le dinastie regnanti non furono reintegrate in deroga alla pace di Zurigo. Di Rienzo mette bene in evidenza come il sostegno inglese sia riconducibile anche al timore che la posizione di preminenza austriaca fosse sostituita da un più pericoloso dominio della Francia, la quale, il 24 marzo 1860, aveva già acquisito Nizza e la Savoia con il trattato di Torino che, sanzionato dai successivi plebisciti del 15-23 aprile, avrebbe paradossalmente reso proprio Garibaldi “straniero in patria”. L’avvicinamento britannico alla monarchia sabauda è dunque necessario e funzionale a contenere «la crescente aggressività della politica estera bonapartista» (esaminata nel dettaglio dall’Autore in questa sede relativamente ai rapporti con l’Italia e in maniera esaustiva nel suo Napoleone III). Ciò a detrimento viceversa del Regno delle Due Sicilie, come denunciato dal principe di Satriano, favorevole dal canto suo a un’intesa con la Francia per arginare le manovre inglesi in Sicilia e nel Mediterraneo e come dimostrato dal rifiuto opposto da Russell alle richieste del ministro degli Esteri austriaco Rechberg di avviare trattative bilaterali per la stipula di una convenzione militare per il mantenimento dello status quo sancito a Vienna nel 1815.
Emblematico in tal senso è il celebre episodio delle fregate inglesi Argus e Intrepid che, inviate ufficialmente al fine di proteggere la comunità britannica residente a Marsala, con la loro presenza paralizzarono in realtà l’azione della flotta borbonica e facilitarono quindi la riuscita dello sbarco dei Mille, come ammesso, seppur con alcune reticenze, dallo stesso Garibaldi nelle sue memorie. La durissima nota di protesta presentata il 12 maggio da Carafa ai rappresentanti del Regno Sabaudo e della Gran Bretagna e trasmessa a tutte le potenze – delle quali il ministro degli Esteri borbonico ottenne invano il sostegno – fu ritrattata poco più di mese dopo a causa delle proteste inglesi. Negata sulla carta, la responsabilità britannica venne però ribadita nel giudizio della commissione d’inchiesta napoletana chiamata ad accertare le responsabilità dei comandanti delle navi borboniche durante lo sbarco, assolti perché esso «fu premeditato e protetto da estraneo intervento e […] di conseguenza la condotta degli inquisiti doveva ritenersi irreprensibile in ogni senso». Da parte della Gran Bretagna la mancata reazione della flotta borbonica fu interpretata come «an act of International courtesy» nei confronti delle navi battenti bandiera britannica, dando origine a una lettura storiografica ufficiale che tendeva a escludere ogni contributo inglese alla «liberazione del Mezzogiorno» e alla conseguente fine del Regno delle Due Sicilie. Lettura rimessa invece in discussione dall’Autore anche in base all’esame dei documenti diplomatici del Regno Sabaudo che attestano la forte gratitudine nei confronti dell’Inghilterra per l’appoggio garantito alla “causa italiana”. L’Autore sottolinea ad esempio come l’aiuto inglese all’unità d’Italia sia inequivocabilmente riscontrabile nel rifiuto opposto da Russell e Palmerston alla proposta francese di un intervento congiunto per impedire ai garibaldini − che avevano preso Messina il 28 luglio e poi conquistato la Sicilia – di oltrepassare lo Stretto e risalire quindi la penisola.
Nel contrasto interno alla politica inglese tra il partito filoitaliano, rappresentato da Palmerston, Russell, Gladstone, etc., e quello favorevole invece alla tutela dello status quo in Italia (e quindi al mantenimento del regime di Francesco II), di cui facevano parte la regina Vittoria e il principe consorte Alberto, l’opposizione tory e più in generale l’opinione pubblica conservatrice, fu infatti la prima ad avere la meglio e a decidere per un non intervento che, unito alla defezione della flotta borbonica, non poté che sancire la fine del Regno di Napoli, vittima di un duplice «tradimento», interno e internazionale. Unico, ultimo sostegno a Francesco II, rifugiatosi a Gaeta, fu quello di Napoleone III che, tuttavia, nel gennaio 1861 fece rientrare le sue navi, ricevendo in cambio la riconoscenza sabauda e la cessione di Mentone e Roccabruna. Tuttavia, l’appoggio inglese allo sbarco dei Mille e all’occupazione da parte dei Savoia del Regno di Napoli, Stato sovrano e neutrale, poneva seri problemi di violazione del diritto internazionale. Tali problemi misero in difficoltà il governo Palmerston, al punto che lo stesso Lord Russell fu in seguito costretto ad ammettere che il caso italiano aveva costituito «un’eccezione alla regola» – cui la Gran Bretagna non aveva potuto non derogare – «di lasciare a ogni Stato sovrano il potere di reprimere una ribellione nel suo territorio».
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft