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Persona e comunitarismi
di Emilio Renzi
1. Globalizzazione comunità persona

Comunità si addice a persona. Al tempo della globalizzazione lo spazio che si addice alla persona è la dimensione della comunità. La globalizzazione è il tempo della nostra storia in corso. Lo spazio del nostro tempo storico è il mondo intero e insieme il punto in cui si incrociano i fili delle reti wireless o senza fili1.
Il paradosso è evidente nell’esperienza quotidiana e nello sguardo possibile. Le facoltà predittive ansimano dietro al veloce movimento del reale. La futurologia è a quanto sembra un «sapere» archeologico; la SF o Science Fiction o fantascienza è un genere declinante, forse per eccesso di inveramento. In compenso, se così si può dire, il nuovo potere mondiale o capitalismo finanziario è dovunque e in nessun luogo, è un moderno Leviatano dalle molte maschere ma senza un volto proprio, propri nomi e cognomi2.
Eccitato o smarrito, convinto di star cavalcando gli eventi o migrante per bisogno e terrore, l’individuo cerca uno spazio di convivenza e di sicurezza che né lo Stato nazionale quale abbiamo conosciuto sino al 1945 (o, all’Est, sino al 1989) né le forme sovranazionali non sono più in grado di assicurare. Ed è un individuo che per di più e a ragione cerca non solo il benessere materiale ma anche respiro di elevazione e di espressione. Cerca di diventare ciò che è: persona. Cerca uno spazio vitale che non tolga vita all’altro, pena la ritorsione e il conflitto. Per questo alla persona si addice la comunità. Nella dimensione comunitaria la velocità dei tempi e delle cose si sedimenta senza pretendere di «fissare» il processo anzi permettendogli di manifestarsi in relazioni e in relazioni di relazioni.
Ora, quale comunità? Si danno infatti oggi più forme di comunità. Nel senso di configurazioni diverse, modi differenti di articolare tra loro il nucleo concettuale, le rappresentazioni politiche e i modi della comunicazione pubblica.



2. Le forme della comunità – Le comunità in rete

Al nostro tempo convengono le comunità di rete più che le comunità territorialmente definite. O, almeno, questa è l’evidenza delle cose: la pellicola
del mondo globale. La tipologia della comunità si è quasi capovolta rispetto alla prima formulazione nella sociologia dell’Ottocento: quella contrapposizione tra società e comunità di Ferdinand Tönnies (1855-1936), che qui può esser data agli atti. Le comunità di rete capovolgono la relativa staticità della protodefinizione di Tönnies3.
Ora, tra le forze che sotto i nostri occhi spingono, urgono e talora urtano, certamente a emergere sono le parlanti scritture dell’oggi, secondo alcuni persino più eloquenti della carta scritta, degli ascolti radiofonici e delle immagini televisive. Sono le social communities, le comunità in rete.
I tratti fondamentali delle comunità in rete possono essere così definiti: il primo, sono i grandi numeri; il secondo, lo spettro vastissimo, dalla «chiacchiera » agli one issue groups, alla costruzione e «cura di sé» (nell’ampio senso che gli diede Michel Foucault); il terzo, la pratica gratuità. Anzi, l’anonimato diffuso, la sensazione di libertà insinuata dalla mancanza di orari, la vaghezza delle regole che stanno sotto il termine carino e vacuo di netiquette. Come dire, non norme ma suggerimenti informali in ogni senso del termine, persino positivo.
Circa i grandi numeri, c’è paradossalmente poco da dire: in atto e in potenza, attivi, superattivi o dormienti, la scala di grandezza è le centinaia e centinaia di milioni. L’andazzo è alla crescita, esponenziale e tumultuosa: qualcosa come una «corsa all’oro». Altri ha detto: Far Web.
E tuttavia proprio in forza di questa «sregolatezza», sono evidenti e non trascurabili le incompatibilità con le società e i regimi illiberali a vario titolo, modi e ascendenza. Resistenze a Cuba e in Iran e altrove, rese manifeste a tutto il mondo (salvo che in Cina e in Corea del Nord) tramite immagini You Tube realizzate e inviate a tocco di indice. Il videotelefonino, il più familiare e banale dell’ICT (Information Communication Technology), è il nuovo strumento di denuncia. Videotelefonino e twitter sono l’odierna surroga del samidzat degli anni Settanta-Ottanta del Novecento comunista.
La discussione è aperta, si misurano tra loro due tesi. Se la «rete», comunque intesa e certamente in divenire, sia l’universale libertà dispiegata, la democrazia diretta, la «scrittura» senza filtri della «gente», del popolo che si vuole sovrano. O se sia la versione elettronica del villaggio globale à la McLuhan ovvero la sua parodia. Oppure ancora: non è forse l’opinione pubblica allo stato magmatico, pulsionale, supina quindi ai «luoghi comuni», a ciò che è trendy. O, peggio, al demagogo di turno?



3. Le forme della comunità – I communitarians

Negli Stati Uniti d’America la riflessione sulla comunità ha avuto sviluppi tali da mettere in ombra per un certo periodo le stesse origini europee4.
L’apporto specifico dei communitarians americani è stato di andare alla ricerca di un fondamento alla categoria di comunità che nonostante ogni apparenza non fosse soltanto quello di un «riflesso difensivo»: se così si può dire, di un «alzare i guantoni per proteggere i connotati». In termini più colti, l’«identità»: vero e proprio mantra o feticcio o bandiera di una determinata comunità locale. Molte affermazioni teoriche e pratiche e le loro «pratiche» sociopolitiche possiedono in effetti queste caratteristiche, che hanno finito per dare un buon contributo a un’immagine di apparente tradizionalismo e sostanziale conservatorismo. A ben vedere, e al netto delle ovvie differenze personali, i communitarians hanno coagulato idee e interessi diversi che hanno giudicato non necessariamente contradditori.
La rivendicazione della «identità» di una comunità intesa come etnia o patria mette così insieme l’ostilità attiva agli immigranti e ai migranti come pure la ricerca di «virtù» amministrative, politiche, gestionali. Coagula la rivalutazione dei «corpi intermedi» a fronte dello strapotere dello Stato da una parte o della deriva nell’atomismo individualistico dall’altra. Appoggia l’approvazione dell’ecologia anti-industrialistica a esaltazione di un ritorno alla «natura» (nella cultura nordamericana, Henry D. Thoreau) e quindi a qualcosa come una «anarchia», daccapo antistatalistica.
Tra i communitarians si è così sviluppato un autentico filone «eco-anarchico», che si è espresso in personalità fuori dall’ordinario come Ivan Illich (1926-2002), Lewis Mumford (1895-1990) e Paul Goodman (1911-1972). La visione di una parabola della città moderna dalla megalopoli alla necropoli si è intrecciata con appelli alla convivialità e alla vita per così dire «fuoriporta». Goodman ha esaltato le comunità ricche di conflitti, in cui «anche i dissensi possono diventare occasioni per intensificare lo scambio sfuggendo alla cappa di conformismo e di autoritarismo che finisce col soffocare molte esperienze comunitarie»5.
Le relazioni «faccia a faccia» proposte e sostenute da Goodman sono l’esatto opposto della celebre descrizione della società moderna come «folla solitaria» fatta da Riesman (1909-2002).
In seguito i communitarians hanno trovato nella teoria della giustizia e nel liberalismo politico di John Rawls (1921-2002) l’antagonista ideale: quello cui rendere l’onore delle armi nel corso stesso di una battaglia delle idee condotta in più ondate. Per Rawls infatti, in estrema sintesi, giustizia e benessere o etica condivisa e bene pubblico possono non coincidere. È primaria la nozione di «giusto»: in una società democratica o, nelle sue parole, «bene-ordinata», il singolo deve avere pari possibilità di ideare e seguire il proprio «piano di via», quindi deve vivere in una condizione preliminare di libertà e pur sempre in un contesto che cerchi di ridurre al minimo le diseguaglianze dei cittadini meno avvantaggiati6.
Rawls si rifà esplicitamente a Locke e a Kant e rigetta il classico utilitarismo anglosassone per affermare di voler giungere a una società giusta per altra via: quella appunto del pluralismo, del minimo possibile di sofferenza sociale e al tempo stesso del massimo di universalità morale – appunto à la Kant. Le accuse di astrattezza formalistica sono state ovviamente copiose; resta che Rawls ha alzato lo sguardo oltre il recinto di casa per elaborare una filosofia delle relazioni internazionali. In questa visione tendenzialmente cosmopolitica in quanto ancorata al foedus pacificum della Pace perpetua di Kant, Rawls ha cercato di teorizzare il liberalismo costituzionale come condizione intrinseca dei rapporti fra le nazioni (Il diritto dei popoli, 1999).
Contrapposto il libertarismo anarchicheggiante di Roberto Nozick in Anarchia Stato e Utopia (1974). Nozick (1938-2002) si è spinto sino a propugnare la fortunata (ancorché stiracchiata di qua e di là), nozione di «Stato minimo».
A sua volta in contrasto si pone il neoaristotelismo di Alasdair Mac Intyre (1929) o richiamo a un’etica che abbia i propri valori radicati nella tradizione classica (Platone, Aristotele), contro il razionalismo illuministico e moderno, in senso lato (Kant) e in senso capovolto (il superomismo di Nietzsche). Mac Intyre esalta risolutamente il termine aristotelico di «virtù» e lo prolunga in una filosofia della storia, che legge come il valore radicato in una vicenda che nasce nella polis ateniese e trova il suo apogeo nella comunità di San Benedetto. Di fatto la sua proposta è più articolata, compatibile: una autogestione che non nega i conflitti ma cerca di superarli nel comunitarismo all’opera.
Charles Taylor (1931) sostiene la precedenza delle totalità storiche (la lingua, la religione, la tradizione) sulle parti componenti ossia gli individui. Con Taylor, Michael J. Sandel (1931) sostiene il primato della identità in quanto punto ineliminabile della coincidenza tra individuo e comunità. Anche Michael Walzer (1935) attacca l’io irrelato, astorico, e sostiene la necessità di sventagliare a sua volta la distributività stessa della giustizia nella concretezza delle situazioni, date e mutevoli.
Ronald Dworkin (1931) è colui che si sforza di far coincidere egualitarismo e comunitarismo e liberalismo in quella che lui chiama «eguaglianza liberale» (come era lo spirito delle Rivoluzioni «borghesi» dell’Occidente). Il liberalismo si radica in un’idea di eguaglianza delle persone in quanto intrinsecamente dotate di dignità umana; l’eguaglianza a sua volta è una pratica di governo che deve perseguire obiettivi di raggiungimento di eguale dignità tra gli appartenenti alla comunità statuale.
Già Robert Nisbet (1913-1996), scrivendo negli anni della Guerra fredda, aveva attaccato sia il totalitarismo ideologico di destra e di sinistra sia il Rousseau che vietando ogni «società parziale» aveva con la mistificazione della «volontà generale» aperto la strada ai nazionalismi di matrice giacobina e alla tirannia della soi-disante maggioranza.
Con ancor più convinta certezza bisogna star lontani anzi agli antipodi dalla concezione della «comunità» di Jean-Jacques Rousseau, dal suo concetto di «volontà generale» che, avrebbe «fornito pretesti funesti a più di un tipo di tirannia», come ben vide Benjamin Constant, che pure mai si sarebbe immaginato gli specifici tratti di un Lenin, uno Stalin, un Hitler7.



4. Le forme della comunità – I francesi

È in terra di Francia a cavaliere della seconda guerra mondiale che il comunitarismo ha conosciuto una stagione feconda, sino quasi a far identificare
se stesso con i suoi rappresentanti maggiori, appunto Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier (senza dimenticare Paul-Ludwig Landsberg, Maurice Nedoncelle, Denis de Rougemont).
Ora, prima che comunitaristi i francesi si definiscono personalisti. «Persona» è l’idea, la nozione, la passione che li anima, l’obiettivo cui convergono le loro opere, le loro azioni. Rivoluzione personalista e comunitaria. del 1935, è l’eloquente titolo dell’opera maggiore di Emmanuel Mounier (1905-1950). La dimensione comunitaria o delle relazioni tra persone è allora lo spazio necessario di un soggetto che si vuole centrale senza volontà di dominio, perché è il soggetto dagli inalienabili diritti e dalla vocazione etico-storica.
In Jacques Maritain (1882-1973) la dimensione comunitaria è baluardo contro sia ogni individualismo amorale sia ogni collettivismo socialistico: nell’uno e nell’altro Maritain vede le premesse dei totalitarismi che in quegli anni stanno oscurando il mondo, il nazismo e il comunismo sovietico. I risultati dell’impegno di Maritain nell’esilio statunitense alla formulazione della Carta universale dei diritti dell’uomo e alla fondazione dell’UNESCO sono in opere quali La persona e il bene comune (1947), Umanesimo integrale (1936), I diritti dell’uomo e la legge naturale (1942). Maritain afferma il primato della persona sullo Stato: l’uno è valore in sé l’altro è strumento. Nelle relazioni fra Stati, la pace si cerca e si fortifica proprio mediante la creazione di appositi organismi internazionali.
Contro la desertificazione e la disumanizzazione del mondo industriale mercantile Mounier sostiene che solo attraverso la comunità si diventa persona. Per Mounier vale dunque un rapporto di circolarità. Perché solo nella comunità l’«io» entra in una relazione dinamica con il «tu»: è nella comunità che ci si guarda in faccia, via via con altri «tu»: in tutti i casi la persona ha un’eccedenza a suo favore, ha un primato logico e assiologico. È, in termini di storia della filosofia francese, l’uscita dall’interiorità spiritualistica che ha avuto a maestri Maine de Biran, Louis Lavelle, René Le Senne, Jean Nabert, e l’ingresso attivo nei problemi della società moderna. Fondata nel 1932, la rivista «Esprit» esce tuttora.
Mounier e Maritain, pur tra oscillazioni dovute ai tempi di ferro che hanno dovuto attraversare nella guerra europeo-mondiale, non tracciano un percorso di sincretismo ma una vera e propria prospettiva alternativa, una linea di condotta personale e sociopolitica dal profilo che si vuole forte, non intercambiabile. Da qui anche, per inciso, la loro insistenza sulla centralità della pedagogia, anzi su una vera e propria filosofia dell’educazione. La formula di Mounier – «lo Stato è per l’uomo, non l’uomo per lo Stato» – non è solo la massima denegazione della statolatria e del totalitarismo con cui un certo Novecento ha portato a saturazione un certo Ottocento. È anche lo sforzo di delineare i tratti di una democrazia comunitaria che sia insieme politica, economica e sovranazionale.



5. Le forme della comunità – Il comunitarismo italiano: Adriano Olivetti, Aldo
Capitini, Angela Zucconi


Tra primi in Italia a leggere Jacques Mounier ed Emmanuel Maritain fu Adriano Olivetti (1901-1960), di mestiere ingegnere e imprenditore, di scelta pensatore politico e politico attivo, subito prima o subito dopo il 1940. È per questo che essi figurano tra gli ispiratori della sua opera teorica, L’Ordine politico delle comunità, e dunque sono alle radici del suo molto reale comunitarismo, realizzato a Ivrea e tentato a Matera e altrove, tra il 1945 e il 19608.
La Comunità di Olivetti è concreta. Per Comunità Olivetti intese l’unità di autogoverno locale, matrice di un’Italia da rifondare interamente in uno Stato federale che stesse come approdo finale in un’Europa ugualmente federale. La Comunità olivettiana ha ampi compiti: dall’urbanistica al riequilibrio fra economia industriale ed economia agricola, «al sentimento di una vita più armonica e più completa», tanto è vero che dovrebbe portare il nome del maggior complesso industriale presente nel suo territorio. Last but not least, è uno spazio di relazioni tra «persone», è lo spazio che una persona può percorrere dall’alba al tramonto. È, scrisse Olivetti, «una misura umana».
La dimensione è rigorosamente estimata: gli abitanti sono compresi in un numero tra i 75 e i 150mila. «Le Comunità italiane scrisse Olivetti saranno costituite nella loro forma definitiva sull’area consentita da una divisione conveniente di ciascuna Provincia»9. Come dire che Olivetti fu contrario sia alle grandi città («groviglio di privilegi») sia ai piccoli comuni, impari ai compiti. La Comunità risponde ai principi del decentramento amministrativo, dell’efficienza funzionale, della rappresentanza politica espressa in loco, quindi raggiungibile e controllabile. Sostituisce il governo provinciale dei Prefetti: Olivetti fa suo l’articolo-appello di Luigi Einaudi, Via i prefetti (1944). Ha funzioni economiche dirette e indirette, contribuendo alla formazione di enti di diritto pubblico, chiamate Industrie Sociali Autonome o Associazioni Agricole Autonome, nelle quali conserverà la maggioranza dei rispettivi capitali. Nella Comunità il trasferimento dei poteri diviene ricomposizione nella forma di federazione di Comunità o Stato federale delle Comunità. Coerentemente Olivetti scriverà con il giurista allora trentenne Massimo Severo Giannini (1915-2000), dell’Istituto di Studi socialisti fondato da Rodolfo Morandi per l’allora PSIUP, Il problema delle autonomie locali (1946).
Olivetti è personalista, alla «dignità» di ogni persona assegna un’estensione significativa:

la cittadinanza potrà essere conferita a tutti gli stranieri, senza distinzione dello Stato da cui provengono, in virtù di una decisione di quella Comunità ove, per un determinato periodo, lo straniero avrà stabilito la sua residenza. Gli elementi di decisione saranno esclusivamente quelli morali10.


Più in generale, se spostiamo l’accento dalla Comunità secondo Olivetti alla figura storica di Olivetti medesimo, possiamo sostenere che la «forma della comunità» fu per lui il fondamento del suo pensiero e della sua prassi. Le iniziative che egli assunse si dispiegarono dall’architettura al design, dall’editoria di cultura ai luoghi e modi della partecipazione dei lavoratori all’impresa. Rifletté sulla formazione delle élites: per lui fa tutt’uno con i modi di risoluzione del conflitto politico, che è affidato non ai partiti (ché Olivetti sulla scorta di Simone Weil è antesignano nel rifiuto della partitocrazia), ma al confronto tra contenuti programmatici e personalità competenti e degne. Ossia tra schieramenti che di volta in volta si formano appoggiandosi scrisse Olivetti a «una destra che è realista» e a «una sinistra che è idealista»11. Olivetti è chiaro nel contrapporre la democrazia comunitaria alle maggioranze indifferenziate, allo Stato-guida marxleninista, alla tecnocrazia. Scrisse al riguardo:

I tecnici in quanto tali rappresentano la specializzazione, l’unilateralità, l’analisi; la competenza del politico deve invece deve saper vedere ogni esigenza specifica sotto l’angolo più ampio degli interessi generali e dei fini stessi della società. La rappresentanza professionale di categoria, postulata dai corporativisti, è proprio l’inverso di ciò che secondo noi deve proporsi una società organizzata; essa tende a rafforzare gli interessi costituiti e a rendere più deboli proprio quelli che lo stato dovrebbe difendere come generali o meglio ancora universali, appartenenti a tutto l’uomo12.


È esaltata per contro l’etica della responsabilità, anche in termini di etica personale, a fianco dell’etica della competenza.
La Comunità concreta di Adriano Olivetti, pur con tutta la sua carica socialistica e cristiana, piacque viceversa al liberale Luigi Einaudi e ai laici, azionisti e primofederalisti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi13. Quando lesse il manoscritto nel comune esilio svizzero e più tardi nei dibattiti all’Assemblea Costituente a Roma, Einaudi colse il punto: «l’idea del collegio-distretto dell’ing. Olivetti è feconda». Aggiungendo: la Provincia, «ente artificioso, antistorico e anti-economico», è da sostituire in parte con la Regione, in parte «con il distretto o collegio o vicinanza, unità più piccola»14. «Vicinanza» non è termine casuale: Olivetti aveva scritto che, «sull’esempio del Canton Ticino e dell’Engadina», la Comunità potrebbe anche portare il nome «molto espressivo e umano di Vicinanza»15.

Aldo Capitini

La tensione e torsione estrema del comunitarismo italiano è incarnata da Aldo Capitini (1899-1968). La radice di Capitini è infatti duplice e gemina: il valore della libertà e la passione per la libertà lo portano a incontrare nell’ambiente universitario di Pisa Guido Calogero (1904-1986) ed è a essi che si deve il concetto e il nome di «liberalsocialismo», l’inizio quindi di una storia intensa e breve. Al tempo stesso una religiosità vissuta sempre all’insegna del rifiuto dell’istituzione e delle sue forme e pompe lo spinge a una pratica coerente sia come stile di vita sia come proposta per una diversa cultura religiosa. Sarà Croce a far pubblicare gli Elementi di una vita religiosa, nel 1937; oggi Capitini è forse più ricordato come il predicatore della non-violenza in Italia, l’animatore della lotta per l’obiezione di coscienza e il creatore della marcia della pace che si svolge ogni anno in Umbria dal 1961 con afflussi da tutto il mondo, senza distinzioni di fedi religiose e di credi politici. Qui importa segnare la fondazione a Perugia nel 1944 del primo di una decina di COS (Centro di orientamento sociale).
Nel Centro comunitario capitiniano l’obiettivo dichiarato è la formazione di una socialità del «dialogo» (idea presa dalla teoria laica di Calogero), sicuramente senza tessere né funzionari né dogmi né «linea» alcuna. L’antitesi risoluta ai partiti, soprattutto a quelli di massa incluso quindi il cattolico-popolare, accomuna Capitini a Olivetti; ciò che li distingue sino alla contrapposizione (e, di fatto, alla mancanza di rapporti) è che Capitini ha come meta finale ciò che chiama la «onnicrazia» (che non è senza ricordare Problems of Men di John Dewey, 1946, e infatti un’altra sua opera si intitola Il potere di tutti). Olivetti ha come abbiamo visto l’obiettivo di una democrazia integrata: le Comunità si federano nelle Regioni, le Regioni si federano nello Stato, l’Italia nell’Europa. La partecipazione non esclude le responsabilizzazioni successive. Olivetti è nella società industriale moderna e intende starci più e meglio, Capitini sembra suggerire di scavalcarla o di scavare al di sotto di essa. Capitini e Olivetti si ritrovano semmai nella costante di una visionarietà oltre il presente: per Olivetti è il progetto di finalità altre e alte, per Capitini è la compresenza o «incremento per aggiunta», persone che crescono persone. In questa visione Capitini pone la chiave per avanzare una propria rilettura del divenire della storia e delle società, del loro presentarsi e ripresentarsi nel seguirsi delle generazioni: la «compresenza dei morti e dei viventi». Il liberalsocialismo di Olivetti si declina in una democrazia integrata e federale, quello di Capitini in una democrazia diffusa, espansa in una religiosità per così dire trascendentale e al tempo stesso trasversale16.

Angela Zucconi

Chi in vita richiamò con energia e toni a quanto sembra a volte aspri il servizio sociale pubblico e insomma la comunità a essere all’altezza dei compiti e degli obiettivi, a non dimenticare e a saper rinnovare il suo spirito profondo, fu Angela Zucconi (1914-2000), singolare e ingiustamente semidimenticata figura di fondatrice sul campo dell’assistenza sociale in Italia.
Lavorò nei primi anni Cinquanta all’esperimento olivettiano di creazione del villaggio La Martella fuori Matera, faceva parte del Movimento Comunità («è il solo caso in cui è presente un preciso, anche se difficile, riferimento teorico, quello de L’Ordine politico delle comunità di Adriano Olivetti, ed è anche il solo caso a metà strada il filone politico-istituzionale e la sperimentazione pratica»)17.
In precedenza era partita con una borsa di studio Unesco per i Caraibi e aveva preso parte all’iniziativa della DivEdCo (Divisione per l’Educazione della Comunità) di Portorico, l’agenzia governativa incaricata di educare le comunità rurali dell’isola caraibica alla democrazia e alla partecipazione allo sviluppo Al rientro in Italia, propose all’UNRRA-Casas ai cui vertici era Adriano Olivetti un «Progetto Pilota» di sviluppo comunitario nell’Abruzzo interno, sul modello portoricano. La Zucconi era convinta che la comunità tradizionale fosse da scardinare e da ricostruire come una comunità vera e propria: coesa, aperta, intercomunale, convincentemente partecipativa. Un punto d’arrivo dunque, un obiettivo cui puntare nell’azione educativa, in una prospettiva che nulla aveva a che fare con una concezione conservativa o idilliaca del mondo rurale. Cercava di fondere community development e comunità olivettiana18. Al progetto lavorò anche Paolo Volponi (1924-1994), anzi iniziò là la sua carriera in Olivetti e là prese alimento per le successive descrizioni romanzesche del mondo industriale, in cui seppe cogliere e descrivere sia i deboli e sia i manager.
Al comunitarismo comunque inteso la Zucconi pose (e pone) questioni etico-politiche e questioni metodologiche. Impose di «non dimenticare Olivetti, Einaudi, Mounier […] o ignorare Capitini»19. Ammonì che «per l’assistente sociale ogni individuo è come quell’attore di cui Kierkegaard dice che portava con sé come uno strascico tutto lo scenario»20. Ricorda che «la storia di una città, di un quartiere, di una comunità, può essere per l’assistente sociale importante quanto l’analisi del terreno per l’agronomo»21. «L’educatore non deve essere un “ingegnere delle anime”», deve essere «animato da opinioni e passioni […] se non ha né fame né sete, è bene che cambi strada»22.



6. Le forme della comunità – Il comunitarismo americano: Saul Alinsky, Richard Sennett

Una giovane studiosa, Alice Belotti, ha illuminato la figura e l’opera di Angela Zucconi anche lavorando sulla «vita parallela» di un operatore sociale d’Oltre Oceano, che ha goduto di una qualche fama di ritorno perché riconosciuto maestro spirituale di due democratici americani alquanto noti, Hillary Rodham Clinton e Barack Obama, è a dire Saul Alinsky (1909-1972)23. L’una scrisse la tesi di laurea su Alinsky, l’altro si ispirò a lui quando, giovane avvocato, prese a fare politica sociale nei quartieri di Chicago. Che certo non era più la «Giungla dei macelli» potentemente descritta da Upton Sinclair24, ma restava pur sempre una grande città attraversata dalla crisi dell’auto e dagli attriti e conflitti etnico-culturali.
Nel 1938 Alinsky, figlio di immigrati polacchi ebrei, diede vita a un esperimento organizzativo autonomo senza precedenti: il Back of the Yards Neighborhood Council (BYNC), il primo comitato comunitario a base allargata, democratico e multiscopo, rappresentativo degli interessi di tutte le forze sociali, i gruppi e le associazioni del quartiere (che era appunto il quartiere dei “macelli” di Chicago). Fu il prototipo del metodo che Alinsky avrebbe sviluppato e applicato per i trent’anni successivi, anche grazie a uno stretto rapporto personale con il sindacato americano e con i sacerdoti della zona: sia i parroci di origine polacca che l’arcivescovo cattolico. Per sua formazione Alinsky veniva dalla Scuola di Chicago di John Dewey e George H. Mead, diretta da Robert E. Park, la Chicago School of Pragmatic Sociology. Questo impasto fra approccio scientifico e determinazione personale, impegno sociale e capacità di alleanze, diede risultati che cambiarono in profondità la comunità urbana e suburbana di Chicago e di altre zone dell’Illinois. Alinsky è quello che gli anglosassoni intendono per radical25. E aveva occhio non localistico: negli anni finali della seconda guerra mondiale, tramite gli ambienti rooseveltiani, conobbe Jacques Maritain.
Dalla corrispondenza tra Alinsky e Maritain risulta il desiderio del francese di far conoscere all’americano Adriano Olivetti; da altre fonti sappiamo che complicazioni di vario ordine pratico impedirono ad Alinsky, nei suoi viaggi in Italia nel 1958 e nel 1960, di fare la personale conoscenza dell’ingegnere comunitario e personalista26.
Fu proprio Maritain a parlargli per la prima volta, nel 1946, di Adriano Olivetti e del suo «gruppo», di cui Angela Zucconi avrebbe fatto presto parte integrante.
Il 31 marzo 1946 Maritain scrisse ad Alinsky da Roma, Palazzo Taverna. Si stava prodigando per far stampare Reveille to Radicals in Francia, e avrebbe voluto fare lo stesso in Italia:

Spero che il libro venga pubblicato da un uomo che stimo grandemente, il sig. Adriano Olivetti, che ha avviato una casa editrice a Roma e che è particolarmente in grado di comprendere il tuo lavoro (ha appena pubblicato un libro, L’Ordine politico delle comunità, che ti devo mandare). La mia intenzione è che la prefazione italiana sia scritta da Ignazio Silone, che è un intimo amico di Olivetti e che scrive sul suo periodico mensile (Comunità). Lo ammiro molto e penso che il gruppo Olivetti-Silone sarà estremamente in sintonia con le tue idee27.


Uno dei quartieri di Chicago allora drammatici per attriti e conflitti fra etnie, religioni, stratificazioni immigratorie e per bassi redditi uniformemente distribuiti, si chiamava Cabrini Green. Il nome stesso della «santa degli immigrati» (odierne cronache riferiscono della demolizione dei suoi palazzoni – e dei verminosi terrains vagues). Vi trascorse tra gli altri il suo apprendistato il sociologo Richard Sennett28.
Da quegli anni di formazione Sennett ricavò il senso di fondo delle sue ricerche e proposte successive. Quando Sennett teorizza la «collaborazione», il «dialogo», come capacità di ascolto e comprensione di chi parla e pensa in modi che non sono esattamente i nostri e non ne sono facilmente accostabili (e quindi ritiene superate le formulazioni del multiculturalismo) – quando rilegge la storia del lavoro moderno in termini di permanenza nonostante ogni apparenza dell’artigiano – ebbene Sennett reimmette nel circuito della grande discussione possibilità solo apparentemente minori. E nei perimetri dove più intensi sono i conflitti, più difficile una allure comunitaria. La sociopolitica di un Sennett e di altri di una sinistra statunitense ed europea paziente e costante, che non emette proclami ma dice che ogni giorno bisogna «coltivare il proprio orticello», trova nella «comunità interculturale» il respiro dell’impegno civile pur nella consapevolezza della vastità del terribile mondo globale29.






NOTE
1 Il presente saggio è la continuazione dei miei precedenti Persona e personalismi, ne «L’Acropoli», 12 (2011), pp. 210-230, e Persona e cosmopolitismo, ne «L’Acropoli», 13 (2012), pp. 240-251.^
2 Un potente affresco del nascente capitalismo finanziario nella Francia del Secondo Impero è il turgido romanzo di Émile Zola, L’argent, del 1891 (Introd. di A. Lollini, trad. it. di L. Collodi, Il denaro, Roma, Newton & Compton Editori, 1996). I personaggi hanno profili ben definiti, passioni profonde, persino ideali di trasformazione della grande geopolitica (la Compagnia di Suez). – Il livido, revulsivo schizzo dell’odierno capitalismo finanziario dai fini più solo iterativi è Cosmopolis dell’americano Don DeLillo (trad. it. di S. Pareschi, Torino, Einaudi, 2003). I personaggi sono schizzi di parti di un meccano enigmatico a essi stessi.^
3 Mi permetto di rinviare alla mia relazione «L’Ordine politico delle comunità» e «il nuovo mondo amoroso». Paragone tra il comunitarismo di Adriano Olivetti e le social communities di rete, Convegno UrbanPromo, Venezia 28.10.2010 (http://www.emiliorenzi.it/?page_id=242). Si veda «aut aut», n. 347 (ottobre 2010), dedicato a Web 2.0 Un nuovo racconto e i suoi dispositivi. Contributi di C. Formenti, G. Lovink, M. ÒNeil, S. Cristante, N. Barile et alii.^
4 Su questo argomento si vedano le sintesi di V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Roma-Bari, GFL Editori Laterza, 2002, e Il comunitarismo, Roma-Bari, GFL Editori Laterza, 2004.^
5 In V. Pazé, Il comunitarismo, cit. p. 47.^
6 Per Rawls valga Una teoria della giustizia, 1971 (cura e rev. di S. Maffettone, trad. it. di U. Santini, Milano, Feltrinelli, 2008).^
7 Il giudizio di Benjamin Constant su Jean-Jacques Rousseau è in La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, 1819 (trad. it di G. Paoletti, pref. di D. Cofrancesco, Milano RCS, 2010, p. 31).^
8 Mi permetto di rinviare al mio Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, pref. di G. Galasso, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2008, e Adriano Olivetti. Imprenditore, comunitario, pensatore politico, in «lettera matematica pristem», 79, novembre 2011, pp. 55-61. Le citazioni seguenti sono tratte da L’Ordine politico delle comunità,. Dello stato secondo le leggi dello spirito, Ivrea, 1945 (ristampato dalle Edizioni di Comunità, con una Nota introduttiva di R. Zorzi, Milano, 1970).^
9 Ivi.^
10 Ivi, p. 188.^
11 Ibidem.^
12 Movimento Comunità, Dichiarazione politica, Milano, Edizioni di Comunità, 1953, pp. 13-14.^
13 Sull’insieme si veda D. Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009.^
14 Sia permessa una digressione nell’attualità: la riforma dell’ordinamento provinciale promossa nell’estate 2012 dal governo Monti (ministro degli Interni A. M. Cancellieri), potrebbe ispirarsi nella ridefinizione dei compiti, attribuzioni e funzioni tra Regione e Comune alla traccia presente negli scritti di Adriano Olivetti e nella vasta letteratura pubblicata nelle Edizioni di Comunità.^
15 A. Olivetti, op. cit., p. 72.^
16 N. Bobbio, Aldo Capitini, in Etica e politica. Scritti di impegno civile, a cura di M. Revelli, Milano, Meridiani Mondadori, 2009, pp. 441, 445, 457.^
17 A. Zucconi, Il lavoro sociale di comunità come partecipazione dal basso. Antologia degli scritti 1951-1966, a cura e con Introduzione di G. Certomà, Roma, Sensibili alle foglie, 2008. L’autobiografia è Cinquant’anni nell’Utopia, il resto nell’aldilà, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000. Si veda il Convegno Letteratura, sociologia e ambiente. Il lungo percorso di Angela Zucconi, Roma, 4 febbraio 2011, interventi di G. Fofi, F. Leder, A. Saibene, M. Montori, A. A. Zucconi.^
18 A. Meister, Sviluppo comunitario e partecipazione sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1971.^
19 A. Zucconi, op. cit., p. 21.^
20 Ivi., p. 33.^
21 Ivi., pp. 7 e 33.^
22 Ivi., p. 7.^
23 La comunità democratica. Partecipazione, educazione e potere nel lavoro di comunità di Saul Alinsky e Angela Zucconi di Alice Belotti, prefazione di Goffredo Fofi, Collana Intangibili, Roma, Fondazione Adriano Olivetti, 2011 (http://www.fondazioneadrianolivetti.it/pubblicazioni.php?id_pubblicazioni=216).^
24 Upton Sinclair, The Jungle (1906).^
25 Saul Alinsky, Reveille for Radicals, 1946 (pref. it. di N. Perrone, trad. it. di P. D’Ercole, Le idee dei radicali: potere e democrazia negli Usa, Bari, Palomar, 2008). Nel 1971 Alinsky pubblicò Rules for Radicals, un «manuale» per organizzatori di comunità.^
26 Maritain e Alinsky: un’amicizia. La corrispondenza tra il filosofo cattolico e il teorico del radicalismo americano, a cura di B. Doering e L. D’Ubaldo, trad. it. di M. S. Pacetti, Bologna, il Mulino, 2011. Il filosofo ammirava profondamente il «suo figliol prodigo e ribelle», come si autodefinì Alinsky, tanto da annoverarlo molti anni dopo, ne Il contadino della Garonna (1966), tra i pochissimi autentici rivoluzionari della sua epoca.^
27 Maritain e Alinsky, op. cit., p. 26.^
28 R. Sennett, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, trad., it. di A. Bottini, Milano, Feltrinelli, 2012. – È interessante la rilettura e rivalutazione dei molti aspetti in cui Owen e Fourier e Ruskin e William Morris propugnano una teoria e pratica del lavoro non in serie ma in «reti» di botteghe e laboratori, condotte secondo sperimentalismo e accrescimento qualitativo. Cfr. L’uomo artigiano, trad. it. di A. Bottini, Milano, Feltrinelli, 2009.^
29 Si veda P. Donati, Oltre il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2008. La tesi è che «Comprendere le differenze (e non solo tollerarle) richiede una nuova razionalità riflessiva». Si veda anche F. Dallmayr, Il dialogo tra le culture. Metodo e protagonisti”, pref. di G. Amato, Venezia, Marsilio, 2010.^
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