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La storia e le storie*
di Giuseppe Galasso
Ho scelto il tema la Storia e le Storie, che svolgerò in maniera un po’ particolare parlando pochissimo in senso propriamente rispondente all’enunciazione del tema e poi cercando di dire qualcos’altro.
Perché la Storia e le Storie? C’è sempre stato, e dura forte anche oggi, e penso che durerà sempre, il pregiudizio che esista una vera storia che ne esclude ogni altro tipo e rende strumentali le altre branche di storia rispetto a quella considerata tale per eccellenza. Qual è la Storia per eccellenza? Alcuni pensano sia la storia religiosa o dell’umanità, o altre drammaturgie cosmico-religiose; c’è chi crede che la storia per eccellenza sia quella, come definiva Croce, etica - politica alla quale ogni altra storia, per esempio, quella del diritto, dell’economia, della tecnica, dell’organizzazione sociale, doveva servire. Ricordiamo tutti la tesi marxistica secondo cui la storia per eccellenza era quella dei rapporti di produzione, la struttura tecnico-economica della società, l’anatomia del corpo storico della Società. L’ho un po’ parafrasata ma in sostanza era questa. Gli storici della scuola francese della seconda metà del secolo scorso, di cui si riconosce un grande capostipite in Marc Block, ritenevano invece che la vera storia fosse quella della lunga durata, sottostante la superficie dei grandi avvenimenti, la storia sottostante la spuma delle acque del mare. Contavano, in realtà, le maturazioni profonde, contava la lunga durata.
Questa ricerca della Storia per eccellenza è altamente ingannevole da un punto di vista elementare e cioè essendo la storia la vita stessa degli uomini, quale aspetto della vita dell’uomo non è storico e quale aspetto della vita dell’uomo si può escludere dal quadro complessivo della sua storia?
Mi sono sforzato di ragionare nel mio volume Nient’altro che Storia circa il concetto di circolarità dell’orizzonte storiografico, sostenendo che l’orizzonte dello storico è un orizzonte circolare perché vi compaiono tutti i punti, tutte le posizioni, tutti i rapporti di tutte le storie. Sono storia quella economica, quella della tecnica, della scienza, quella politica, quella sociale, senza nessuna esclusione. Ciò non vuol dire che tutte le storie si equivalgono. Ma in che senso non si equivalgono? Ad esempio, la storia della pizza è la storia di un impegno tecnico e sociale, e l’avvento del nuovo modo di nutrirsi è un fenomeno che ingloba nel suo manifestarsi e divenire tutta una serie di processi ed altre relazioni storiche. Anche la storia della moda nella seconda metà del ’600, è storia per eccellenza. Infatti quando alla moda spagnola dominante fino alla metà del ’600 subentra, con gran rapidità, quella francese, e naturalmente non ci si riferisce ad un semplice cambiarsi di abito, l’avvento denota la decadenza della potenza spagnola, lo svilupparsi enorme della potenza francese con Luigi XIV, l’affermarsi di un nuovo modo di considerare la vita e le relazioni sociali; ecco che in quei severissimi quadri dal tardo ’500 fino alla seconda metà del ’700 vediamo tutti i soggetti rappresentati in abiti scuri con collarini bianchi, ecc., poi giungiamo alle esibizioni di generose scollature delle signore francesi della seconda metà del ’700, agli abiti semplificati e multicolori. È un processo esteriore da sottovalutare? Certamente no, ma bisogna avere il senso delle proporzioni: tutte le storie si equivalgono, però il fatto che Scipione abbia vinto Annibale nella battaglia di Zama o il fatto che Napoleone abbia fallito in Russia e a Waterloo meritano più attenzione della storia della pizza o del gioco del calcio, e non perché queste storie non abbiano la medesima qualità storica, ma perché, come nella nostra vita individuale e privata, vi sono esperienze più importanti e determinanti e altre meno influenti. Insomma la maestria dello storico si manifesta nel dare veste e profondità storica a tutta l’esperienza umana, anche a quegli aspetti minimi o addirittura ignobili, per poi cogliere nel quadro di queste esperienze il senso delle proporzioni, dei volumi e così via.
L’ingegneria è una dimostrazione eminente di questo criterio. Lo è già per la vicenda sociale degli ingegneri, una vicenda sociale veramente esemplare, che equivale a quella di tutta la società moderna. Prima del secolo XIX non c’è un’affermazione sociale dell’ingegneria; è gradualmente, nel corso dell’800 che viene fuori questa professione come fatto eminente della società e poi nel ’900 la categoria sociale degli ingegneri ha ricevuto il dovuto riconoscimento, sia nel quadro della complessa società moderna, sia anche in funzioni eminenti di questa Società. Si pensi al rapporto tra ingegneria ed economia: senza ingegneri non c’è sviluppo e ciò appare una proposizione indiscutibile.
Vorrei fare una scorribanda, frutto della consultazione di vari dizionari di vario periodo, sulle definizioni che mano mano sono state date del termine ingegneria; la successione storica delle definizioni dei dizionari rende appieno quella storicità della professione, della collocazione sociale dell’ingegnere a cui mi riferivo. Basta richiamare il fatto che anticamente era ingegnere chiunque avesse a che fare con congegni, strumenti, macchine ed in particolare lo era in tre settori: il settore della guerra, il settore idraulico e quello delle costruzioni. Solo dalla seconda metà del ’700 la denominazione di ingegnere comincia ad essere associata alla idea di una preparazione scolastica. Ancora più tardi, verso la fine del ’700 e l’inizio dell’800, non solo si ritiene necessaria una preparazione scolastica, ma si richiede una preparazione universitaria. È poi tra l’800 e il ’900 che la preparazione generale dell’ingegnere viene a sfociare in una serie di specializzazioni, oramai innumerevoli, come si rileva dai piani di studio delle nostre Facoltà di Ingegneria.
In tutta questa evoluzione quello che si trova nei più antichi dizionari è lo stretto legame dell’ingegneria con le necessità della vita, cito per esempio Salvini Antonio Maria che nei suoi discorsi accademici pubblicati a Napoli nel 1786 dà questa definizione che credo possa non dispiacere agli ingegneri: «La povertà fu la maestra di tutte le arti, fu l’ingegnera e la dispensatrice di tutte le varie professioni all’umana vita gioconde utili e necessarie». Molto più drastico è Bartolomeo Dotti che in una delle sue satire pubblicate a Ginevra nel 1797 scrive un verso memorabile: «grande ingegner al mondo è pur la fame». Questa associazione dell’ingegneria con i bisogni della vita, anche i più elementari, appare estremamente significativa. Parallelamente riscontriamo un rapporto con la pratica e l’esperienza vissuta, in vista della quale l’ingegnere deve operare. Nel suo trattato Delle fortificazioni, pubblicato a Venezia nel 1596, Lorini lo esprime con grande efficacia: «Chi vorrà essere buono ingegnere militare e perfetto soldato non gli farà bisogno andare a dottorarsi a Padova o a Bologna ma dove si fa la guerra e si difendono et espugnano le fortezze». Questa connotazione della pratica come costituente essenziale è un punto da non dimenticare. Non c’è però soltanto la dimensione del soggetto umano operativo, c’è anche il significato dell’opera dell’ingegnere il cui fondamento e modello è la natura. Che si abbia o meno una concezione religiosa della natura, la natura è sempre vista come sfondo e base delle opere di ingegneria. Aniello Bartoli, il grande predicatore gesuita del ’600, parla della «…sapienza ingegnera e fabbricatrice di questo così ben inteso lavorio dell’universo». E il Salvini, in un altro suo scritto all’Accademia della Crusca, nel 1735 parla dell’originale libro dell’ingegnera e maestra natura. Lorenzo Bernini a sua volta, nei discorsi di anatomia pubblicati a Firenze nel 1741, parla delle solide manifatture dell’ingegneria dell’altissimo che fanno trasecolare, e Terenzio Mamiani, cattolico liberale del Risorgimento, delle finissime ingegnerie dalla natura ordinate. E, del resto, la definizione massonica di Dio come grande architetto dell’universo è precisamente in quest’ordine di idee.
Nell’etimologia del termine ingegnere è evidente il suffisso iere che indica di solito un mestiere, un lavoro sulla base della parola ingegno; qui però non è inteso come intelletto ma è inteso come macchina, come arnese, come quello che traspare anche nella parola di marchingegno. Chiunque pertanto avesse a che fare con queste cose era ingegnere. Il collegamento con l’ingegno, – ingegnoso, opera di ingegno, realizzazione ingegnosa – nel senso poi usato, è molto posteriore rispetto a questo significato del rapporto tra ingegnere, congegno e marchingegno; è posteriore almeno come uso corrente, ma trova anche precedenti remoti. Bonaiuto Guicciani per esempio, un poeta italiano del ’300, afferma: «E sa più d’arte chi è più ingegnero e meno chi più sente dell’alchimia», cioè è più esperto dell’arte chi opera che non chi si rifà ai trattati. E un anonimo fiorentino pure lui del ’300 scrive: «se ritrovavano ingegneri scritturati e sottili si diceano l’anima di costui fu del cielo di Mercurio» cioè sotto la stella del Dio simbolo dell’homo faber, del dio fabbro c’è questa duplicità del riferimento al congegno e a ingegno che è espressivo delle cose ingegnose. E infine farà piacere sentire un verso di un poeta toscano modesto ma arguto e simpatico dell’800, Antonio Guadagnoli che dice: «Per l’ingegneria non siete buoni non avete ingegno».
Da questo carattere di ingegnosità nascono altri due elementi uno, è quello della creatività, della inventività per cui Vincenzo Gioberti parla della mano ingegnera dell’uomo: «…l’Ente crea l’esistente e l’esistente ritorna all’Ente», cioè l’universale razionale si determina nel reale, il quale, a sua volta, tende alla razionalità dell’idea, l’altro elemento è la storicità delle nuove sfide. Sorprenderà trovare in un poeta intenso come Giuseppe Ungaretti una frase che fa vedere il tempismo storico dell’ingegnere: «Sono stati risolti ardui problemi di ingegneria che si presentavano per la prima volta».
Non voglio lusingare troppo gli ingegneri per cui chiudo questa breve scorribanda citando un altro poeta. Eugenio Montale che ha una preoccupazione opposta a quelle fino ad ora accennate sommariamente; il poeta attribuisce al termine ingegneria un significato per lui preoccupante come lo è per noi, anche se non è detto che dobbiamo trarre la sua stessa conseguenza: «In un mondo in cui possono nascere espressioni come Human Engineering la sorte dell’intellettuale appare segnata». Credo che sia un grande compito storico degli ingegneri dimostrare che la preoccupazione di Montale era giustissima, ma che la risposta a quella preoccupazione non debba essere necessariamente quella da lui accennata.






NOTE
* Questa relazione e le due che seguono di Emanuela Guidoboni e di Salvatore D’Agostino sono state presentate al congresso nazionale degli Ingegneri svoltosi a Napoli nell’aprile 2012.^
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