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Il pensiero italiano di Cavour*
di Giuseppe Galasso
I

«L’Italia considerata come un solo paese»: Cavour ne parlò nel suo scritto Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico, e sull’Italia in particolare, nell’«Antologia italiana» del 31 marzo 1847. Non era allora frequente un discorso unitario italiano neppure a proposito dell’economia della penisola. Lo stesso Cavour ne parlava in rapporto al movimento commerciale dei singoli Stati italiani, e in relazione alle conseguenze delle riforme daziarie inglesi di quegli anni. Sempre, però, sulla base di quella considerazione unitaria dell’economia italiana, che fa pensare a una precoce percezione di questa economia come un pressoché compiuto sistema economico peninsulare. In Italia, dice Cavour, «se in talune delle sue provincie si conta ordinariamente un sovrappiù per l’esportazione, ve ne sono altre in cui si manifesta una costante deficienza che vuol essere riempita dall’importazione».
Non che si parli beninteso, di un sistema integrato. Né si parla di una integrazione economica italiana da attuare. L’interesse di Cavour in quello scritto è l’affermazione più piena e più convinta dei principii del liberismo economico, del mercato e della concorrenza, tanto è vero che non si risparmiavano critiche accese ai governi italiani che mantenevano un sistema «protettore» o «ultraprotettore». Ma questa affermazione liberistica si esprime, come si è detto, in applicazione all’economia dell’intera Italia, al di là delle molte frontiere che la dividevano politicamente. Il giudizio di Cavour è che la revisione delle tariffe inglesi torna tutta «a vantaggio dell’Italia, il cui suolo ferace è così adatto alla produzione degli oggetti la cui importazione in Inghilterra viene ora cotanto favorita. Per poter valutare l’utilità vera ch’essa deve ricavarne, crediamo necessario l’esaminare partitamente lo stato attuale e gli sviluppi possibili delle industrie che concorrono a formare il nostro commercio colla Gran Bretagna, passando di volo su quelle di un’importanza minima, ma entrando nei particolari per ciò che riflette quelle che formano i nostri principali mezzi d’esportazione, le sete e gli oli d’oliva».
L’ottica italiana è, dunque, addirittura la base totalizzante del discorso economico e politico-economico che qui Cavour conduce: l’utilità che «essa», cioè l’Italia, può trarre dalle nuove tariffe inglesi viene, infatti, indagata studiando nel suo insieme, tranne alcuni articoli di minor conto, «il nostro commercio», ossia il commercio italiano, con l’Inghilterra, a partire dai «nostri principali mezzi di esportazione», cioè le principali esportazioni italiane, subito individuate nelle sete del Nord e negli oli del Sud (e si notino nostro e nostri).
Questo parlare dell’Italia come «un solo paese» era puramente casuale? Non si può assolutamente crederlo. Già nel maggio 1846 Cavour aveva pubblicato nella «Revue Nouvelle» di Parigi un commento all’opera di Ilarione Peritti di Rovereto, pubblicata l’anno prima, sulle ferrovie italiane. Ebbene, in questo rendiconto l’unitarietà del problema ferroviario in Italia risaltava forse ancora di più che nello scritto sulle riforme daziarie inglesi.
L’Italia – si diceva qui «può nutrire grandi speranze sulle ferrovie». Esse avrebbero fatto «sparire in qualche modo la barriera delle Alpi, che la separano dal resto dell’Europa» e sono impraticabili nella lunga cattiva stagione. «Il viaggio da Torino, Milano, Firenze, Roma e Napoli», dunque lungo quasi tutta la penisola da Nord a Sud, sarebbe diventato brevissimo, e avrebbe richiamato nella penisola un intenso traffico anche per le grandi attrazioni turistiche, storiche e culturali del paese. Inoltre, con una rete ferroviaria completa, l’Italia avrebbe goduto di «un considerevole commercio di transito», poiché le linee che avrebbero unito «i porti di Genova, Livorno, Napoli con quelli di Trieste, Venezia, Ancona e la costa orientale del Regno di Napoli» avrebbero fortemente intensificato il traffico nell’Adriatico. Se poi, aggiungeva ancora Cavour, «le Alpi saranno perforate tra Torino e Chambéry, il Lago Maggiore, il Lago di Costanza, Trieste e Vienna, i porti italiani saranno in grado di condividere con quelli dell’Oceano e del Mare del Nord l’approvvigionamento dell’Europa centrale in derrate esotiche». E, infine, notava, «se le linee napoletane si estendono sino al fondo del Regno, l’Italia sarà chiamata a nuovi e alti destini commerciali», collegando «l’Europa all’Africa», con «il cammino più breve e più comodo dall’Oriente all’Occidente». Da Taranto e da Brindisi la distanza marittima dell’Inghilterra, Francia e Germania dall’Africa e dall’Asia «sarà abbreviata della metà» e si avrà «il mezzo più veloce per recarsi dall’Inghilterra all’India e in Cina».
Maggiori ancora sarebbero stati gli effetti morali. Innanzitutto, vi sarebbe stata una migliore conoscenza reciproca dei «diversi rami della famiglia italiana», superando municipalismi e campanilismi dannosi a tutti. In secondo luogo, si sarebbero superati gli effetti negativi della «tanto funesta quanto arbitraria» sistemazione data all’Italia dal Congresso di Vienna. Questa sistemazione non aveva applicato, nel caso di Genova e di Venezia, il principio di legittimità sancito dallo stesso Congresso, né aveva tenuto conto «delle circostanze geografiche, né degli interessi generali, né degli interessi particolari» sorti nel ventennio rivoluzionario e napoleonico. Perciò, «agendo unicamente in virtù del diritto del più forte», il Congresso aveva costruito in Italia «un edificio politico sprovvisto di ogni base morale». Ne erano nate «le agitazioni rivoluzionarie» del 1820-1821 e del 1830-1831, dalle quali, però, non erano affatto derivati i progressi che ci si attendeva. La realizzazione delle ferrovie in Italia avrebbe facilitato il superamento delle spinte che avevano animato quelle le «agitazioni rivoluzionarie» e rinsaldato la «mutua fiducia tra i governi e i popoli, base delle nostre future speranze», ossia delle speranze italiane, in un «avvenire migliore».
Era già – per un suddito del Re di Sardegna che da Vienna aveva ottenuto l’annessione di Genova ai suoi Stati – un parlare molto libero, se non audace. Addirittura straordinaria era, poi, la specificazione di quel che Cavour intendeva per il migliore avvenire che ormai si ravvisava nelle «nostre speranze», e cioè «la conquista dell’indipendenza nazionale», che, in accordo con Cesare Balbo, si negava che fosse soltanto «un sogno, risultato di un sentimento non ponderato o di un’immaginazione esaltata».
Forse, da un certo punto di vista lo scritto sulle ferrovie ancor più di quello sul commercio italiano dimostra che l’Italia era nella mente e nello spirito di Cavour un concetto politicamente vivo e unitario, animando la visione ammirabilmente precoce di un paese non più separato, grazie ad alcuni trafori alpini, dall’Europa; un paese al centro di un Mediterraneo visto quale sarebbe stato soltanto dopo il taglio dell’Istmo di Suez.
Tutto sembra così confermare che, se non una vera e propria idea italiana, certo un pensiero italiano era già prima del 1848 pienamente presente in Cavour, così come, del resto, nella maggior parte della sua generazione, sebbene con angolazioni e spiriti molto varii. Per lui come per tutti l’esperienza napoleonica non era passata invano, e aveva lasciato dietro di sé una sedimentazione che, palese o sotterranea, non era per nulla trascurabile. Lo stesso nome dato al suo giornale – «Risorgimento» – si spiegava solo in quest’ordine di idee.
Ancor più: se un pensiero italiano non fosse stato già ben radicato in lui, non sarebbe altrimenti possibile, o sarebbe estremamente difficile, spiegarsi come in soli tre anni di presidenza del Consiglio dei Ministri, dal 1852 al 1855, egli mettesse su un’azione diplomatica di così audace e, insieme, robusta concezione, come quella realizzata per la guerra di Crimea.
La decisione di partecipare a quella guerra appare maturata, del resto, in tutti i documenti pubblici e privati riguardanti Cavour, con una visione talmente organica e coerente da non lasciare dubbi al riguardo. I discorsi in Parlamento del 6 febbraio e del 30 aprile 1856 ne sono una illustrazione completa e fortemente argomentata, che non teme di muoversi con spregiudicatezza fra il polo della diplomazia e quello di una franca Real-politik.
«Le grandi soluzioni – diceva il 30 aprile – non si operano colla penna. La diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli. Essa non può, al più, che sancire i fatti compiuti e dare loro forma legale». Par qui già di sentire quel «diplomatizzare la rivoluzione», che di lì a pochi anni ricorrerà insistentemente per indicare quel che appariva opportuno e necessario fare per raccordare l’«iniziativa regia» e l’«iniziativa di popolo», l’azione politica e diplomatica della monarchia sabauda e i movimenti spontanei del biennio decisivo 1859-1860, e in particolare quello garibaldino: il più temuto, quest’ultimo, per l’alternativa di regime che poteva rappresentare rispetto alla monarchia e per le rovinose complicazioni internazionali a cui poteva portare con prosecuzioni avventate della «rivoluzione» italiana.
Nel 1856 solo in parte si trattava di «diplomatizzare» qualcosa, ma Cavour aveva già chiaro il punto di metodo. Bisognava giocare al tavolo della diplomazia, ma come parte attiva delle relazioni e dei conflitti internazionali. La partecipazione alla guerra di Crimea obbediva appieno a questa duplice strategia, che era l’unico modo per il governo di Torino per giungere al fine voluto di essere abilitato a parlare a nome dell’Italia, dei suoi interessi e delle sue esigenze, imponendo una «questione italiana» nell’agenda della grande politica europea.
Quali titoli poteva, però, avere Torino per pretendere a una tale rappresentatività italiana? Cavour era al riguardo estremamente abile. Da un lato, egli pretendeva di parlare come una delle potenze italiane, lesa, come le altre, dal fatto – diceva ancora nel discorso del 30 aprile – che «lo stato attuale d’Italia non è conforme alle prescrizioni dei trattati vigenti. I principii stabiliti a Vienna e nei susseguenti trattati sono apertamente violati. L’equilibrio politico, ivi stabilito, trovasi rotto da molti anni».
La funambolica abilità dialettico-diplomatica di Cavour compiva qui il prodigio di invocare l’ordine del Congresso di Vienna – che era all’origine della condizione dalla quale si voleva liberare l’Italia – come ragione di denunzia dell’offesa fatta, con la sua violazione, agli interessi delle potenze italiane. L’obiettivo di sovvertire quell’ordine restava, però, al di fuori di ogni dubbio o discussione. Era l’Austria, protagonista del Congresso del 1815, e, altresì, potenza dominante in Italia, l’obiettivo esplicito, massimo e diretto dell’azione di Cavour.
L’anomalia e la gravità della situazione italiana, «lo stato anomalo in cui si trovava l’Italia» egli diceva ancora il 30 aprile – nasceva «in forza dell’occupazione di gran parte delle sue provincie per parte di una potenza estera». Bisognava far cessare «questa occupazione» e far tornare «le cose allo stato normale». Ma – ecco l’altro funambolico equivoco sul quale il Conte giocava – bastava, affinché tornasse l’Italia alla normalità, che l’Austria abbandonasse le zone dell’Italia centrale e dei Ducati padani che occupava con varii pretesti dopo i fatti del 1848-1849? Ed era, ovviamente, sottinteso che non bastasse, perché già, in base all’ordine stabilito a Vienna, l’Austria dominava in una estesa parte d’Italia, ossia in Lombardia e nelle Venezie, e, nonostante l’inquadramento istituzionale di queste terre nell’Impero austriaco, rimaneva «una potenza estera».
La questione di un «miglioramento delle sorti d’Italia» sarebbe, dunque, rimasta sul tappeto anche se si fosse tornati a un pieno rispetto dei dettati del Congresso di Vienna. Ed ecco, perciò, ripresentarsi qui quel pensiero italiano di Cavour, al quale ci siamo riferiti. Quanto, poi, questo pensiero fosse articolato e maturato, frutto non già di una improvvisazione improvvisata o opportunistica, bensì eco di una lunga riflessione sul problema nazionale italiano quale ormai da decennii veniva agitato nella letteratura, nel pensiero e nel movimento risorgimentale, appare chiaramente da ciò che Cavour diceva già nel discorso del 6 febbraio 1835.
Ai fini del desiderato «miglioramento delle sorti d’Italia» non giovavano più, per ripetute esperienze, «le congiure, le trame, le rivoluzioni ed i moti incomposti». La «principale condizione» era di «rialzare la reputazione» dell’Italia nell’opinione internazionale e presso i governi europei. E «per ciò due cose [erano] necessarie: primo, di provare all’Europa che l’Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente, per reggersi a libertà, che essa è in condizioni di assumere le forme di governo le più perfette che si conoscano; secondariamente che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi».
Ancora una volta tornavano qui in ballo le due vie: quella della moral suasion fornita da una grande dimostrazione italiana di sapersi reggere nell’ordine e nella libertà, adottando le moderne istituzioni di un regime di libertà; e quella, ancora una volta, delle armi, imprescindibili per la politica così come lo erano per la diplomazia, e per cui Cavour sembrava qui quasi echeggiare il petrarchesco l’antiquo valore – nelli italici con è ancor morto. E ancora una volta si tratta di questioni e di punti che non si prestano a essere ritenuti estemporanei o di occasione. Ancora una volta è a una maturazione più remota e consolidata di opinioni e di idee che si è inevitabilmente portati a pensare.
Del resto, già gli articoli del 1848-1849 sul «Risorgimento» enunciavano chiaramente l’ormai maturo pensiero italiano di Cavour. I già citati discorsi del 1855 e 1856, nonché l’azione politica di Cavour in quegli anni, trovano, infatti, un puntuale riscontro di anticipazioni e di precorrimenti negli scritti e nei discorsi del 1848-1849, fatta salva, naturalmente, la grande diversità di situazioni e di condizioni italiane ed europee del 1856 rispetto a quelle del 1848.
Al ministro degli Esteri francesi, il Conte Walewski (il figlio che Napoleone I aveva avuto da Maria Walewska), Cavour esponeva il 21 gennaio 1856, in dettaglio, in che cosa si dovevano ravvisare le violazioni i soprusi e gli abusi austriaci rispetto alle statuizioni di Vienna e a successivi accordi. Malgrado il trattato austro-piemontese del 1851, Vienna disponeva «sequestri sui beni dei cittadini diventati sardi dopo essersi liberati dai legami che li tenevano uniti alla loro antica patria»; e rifiutava di procedere all’«unione delle ferrovie dei due paesi stipulata da una convenzione formale», intralciando, anzi, «con ogni sorta di misura di polizia le relazioni commerciali e personali dei sardi e dei lombardi». E fin qui si trattava delle relazioni fra Vienna e Torino. Poi Cavour passava alle altre questioni italiane, deplorando innanzitutto il «regime militare che opprime da otto anni le popolazioni del Regno lombardo-veneto», ossia dalla repressione seguita alle rivolte del 1848 e 1849. La cessazione di tale regime non avrebbe legato «gli italiani al governo di Vienna», ma avrebbe diminuito «l’irritazione degli animi» e reso «meno precario lo stato delle cose in Lombardia». Per di più, le province dello Stato Pontificio «comprese tra gli Appennini, l’Adriatico e il Po, ossia l’attuale Emilia Romagna», erano oggetto anch’esse di un’indebita presenza e controllo militare di Vienna, che doveva essere «transitoria», ma diventata «permanente». E, tuttavia, questa presenza nelle Legazioni e in Romagna era quella verso cui Cavour era più indulgente, perché solo quella presenza evitava i «grandi disordini» e la «completa anarchia», che si sarebbero avuti in quelle terre se vi fosse tornato «il governo sacerdotale» e «la condizione amministrativa e politica di queste contrade» fosse rimasta immutata.
Questo interferire con un pesante giudizio nell’assetto di un altro Stato italiano non era, peraltro, limitato allo Stato Pontificio. Non meno grave e duro era il giudizio per cui troviamo affermato che «sarebbe farsi una strana illusione sperare che il bel Regno di Napoli possa mai sotto lo scettro dei Borboni godere dei benefici di un buon governo», e per cui si doveva puntare su «una mitigazione dei mali» di quel paese, obbligando il re Ferdinando II «a rispettare un po’ di più le leggi della giustizia e dell’umanità» e «a non scandalizzare più l’Europa civilizzata attraverso un comportamento contrario a tutti i principii di giustizia e di equità». Dove, tra l’altro, si vede che neppure l’interesse alle cose interne del Mezzogiorno d’Italia nasce in Cavour nel 1860, per e con l’impresa di Garibaldi, ma forma da una data ben anteriore l’oggetto di uno specifico e dettagliato interesse, tanto da dar luogo a un’autentica interferenza nel regime interno di un altro e indipendente paese italiano.



II


Il pensiero italiano di Cavour dev’essere quindi, maturato, ed è di fatto maturato, negli anni anteriori al 1848, all’ombra dei mutamenti politici e dei grandi sviluppi della cultura italiana ed europea degli anni ’30 e ’40 di quel secolo. Considerazione ovvia, nonché risaputa, che, però, conviene ripetere per ribadire, innanzitutto, che, come si è detto, il pensiero italiano di Cavour era già decisamente formato nel 1848, e non si è andato formando un po’ casualmente, e molto opportunisticamente, nel corso degli anni, e in specie da quando Cavour assunse le maggiori responsabilità di governo.
Un Cavour italiano, dunque, fin dall’inizio; non un Cavour piemontese, convertitosi via via alla causa italiana nell’ottica della tradizionale politica espansionistica sabauda nella Valle del Po. Qual era, però, l’Italia alla quale Cavour pensava?
Il grande successo della politica cavouriana nel realizzare l’unificazione del paese ha sempre fatto passare un po’ in secondo piano l’altro aspetto – fondamentale fino al punto da essere tutto pregiudiziale – della battaglia liberale che Cavour combatté, e, nelle condizioni del Regno di Sardegna nel quale agiva, vinse, trasmettendo all’Italia unita l’idea dell’unità della patria associata fin all’identificazione con la libertà dei cittadini.
Era questa l’idea che egli espose subito all’atto della promulgazione dello Statuto da parte del re Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Questo Statuto – Cavour scrisse subito in un articolo de «Il Risorgimento» il 10 marzo – «racchiude tutti i più grandi principii delle libere costituzioni» e «consacra fra noi tutti i diritti di cui godono tutte le nazioni più incivilite». E qui Cavour riassumeva con grande acume e con estrema chiarezza i principii del testo costituzionale che convalidavano queste sue affermazioni.
In primo luogo scriveva «lo Statuto introduce l’elemento elettivo largamente e potentemente in tutte le parti dell’edificio sociale. Consigli comunali e provinciali, Guardia nazionale, Camere legislative, tutte le nostre istituzioni politiche ed amministrative saranno d’ora in avanti figlie dell’elezione. La nazione è chiamata a partecipare direttamente a tutti gli atti che riflettono l’interesse del paese in generale, o di qualunque frazione di esso». In secondo luogo, «lo Statuto circoscrive il circolo d’azione del potere esecutivo in giusti e severi limiti, in modo da non potersi più oltre restringere, senza indebolire soverchiamente la forza governativa: ciò che sarebbe contrario all’indole delle società moderne europee, e funesto al nostro paese, che si trova formare l’avanguardia dell’Italia al cospetto dello straniero». In terzo luogo, «l’indipendenza del potere giudiziario è assicurata; la libertà di stampa, la libertà individuale sono solennemente guarentite. Il sacrosanto principio dell’eguaglianza civile è altamente consacrato. Ogni privilegio di casta, di ceto è abolito. Tutti i gran principii in una parola proclamati dalla nazione francese nel 1789, e che costituiscono le vere basi del vivere libero, sono francamente, risolutamente proclamati».
Erano, indubbiamente, i pilastri di un regime di libertà, e Cavour, nel riscontrarli presenti nello Statuto, sottolineava che lo Statuto stesso vi veniva proclamato «irrevocabile» (ed egli scriveva due volte qui questa parola tutta in maiuscolo). Certo, vi erano elementi non del tutto soddisfacenti. Il principale era quello della libertà religiosa, poiché lo Statuto dichiarava religione dello Stato quella cattolica, mentre ogni altro culto o confessione veniva dichiarato tollerato, e, in quanto tale, autorizzato. Cavour riconosceva questa limitazione della «libertà dei culti», ma la considerava più di principio che di effettiva consistenza pratica. Soprattutto, poi, non dubitava che questa disposizione statutaria sarebbe stata presto ridotta «ad essere nella pratica un semplice omaggio reso alla religione cattolica». E a questo proposito egli faceva pure un’altra e ben più importante considerazione.
L’irrevocabilità dello Statuto – diceva – non precludeva affatto «la via ad ogni futuro progresso», né stabiliva «un sistema d’immobilità assoluta». Nessun legislatore poteva «impegnare sé e la nazione a non mai portare il più leggero cambiamento ed operare il menomo miglioramento ad una legge politica». In nessun modo poteva far «sparire il potere costituente dal seno della società», privando la società stessa «dell’indispensabile potere di modificare le sue forme politiche a seconda delle nuove esigenze sociali». Né «la facoltà di mutare con mezzi legali le [proprie] leggi politiche» e «il potere costituente» erano rinunciabili o abdicabili. E qui Cavour enunciava esplicitamente il punto fondamentale della questione. «Il potere costituente diceva nelle monarchie assolute è riposto nel sovrano legittimo; nelle monarchie costituzionali il Parlamento, cioè il re e le Camere, ne sono pienamente investiti». Ma questa associazione del sovrano e delle Camere nel rappresentare il potere del Parlamento assumeva poi un connotato politico e storico preciso attraverso il riferimento alla prassi inglese, per la quale «l’onnipotenza parlamentare [era] articolo di fede»; e si sapeva che in quella prassi la parte delle Camere, in particolare della Camera dei Comuni, si era via via ampliata e quella del re, parallelamente, contratta.
Non era neppure pensabile che l’Italia potesse, dunque, non essere un paese a regime di libertà, rappresentativo e parlamentare. Ma questo non era impensabile solo perché, altrimenti, l’Italia si sarebbe allontanata dal novero delle «nazioni più incivilite», disdicendo, quindi, così il fine supremo e indiscutibile del suo Risorgimento, e la saldatura fra indipendenza e libertà, che era il principio primo e massimo della sua vicenda risorgimentale e la irrefutabile ragione genetica di tale vicenda. Al di là di questo già largamente sufficiente e profondo motivo c’era di più, c’era la scaturigine prima di tutto il mondo morale e intellettuale del Cavour maturo.
C’era, infatti, la sua idea della libertà come valore e come forza della vita associata; come conquista e fondamento della civiltà moderna; come l’impianto istituzionale più degno e più razionale, più stabile e più dinamico per l’equilibrio e per lo sviluppo della società civile e politica.
In Cavour, insomma, l’opzione liberale è a monte di tutto. Senza considerare questa opzione sarebbe inutile o impossibile parlare del suo pensiero, anzi: parlare di lui stesso. Si sa che il suo liberalismo si era nutrito dei succhi di tutta la più alta cultura politica e storica del suo tempo; e che in esso erano forti le connotazioni, e le ispirazioni di ordine etico, non lontane da uno spirito di laica tensione etico-religiosa.
Si è scritto molto al riguardo, mettendo in rilievo i rapporti di Cavour con ambienti svizzeri e italiani molto sensibili su questo piano. Qui noi vorremmo, però, sottolinearne soprattutto un punto, a nostro avviso, fondamentale. Il liberalismo di Cavour sembra, infatti, non porsi mai come una filosofia, come
una petizione o una questione teorica, come una sistematica di principii e di idee. Sempre il suo discorso liberale è calato profondamente nella concretezza molteplice e plastica dei problemi che la storia e la politica, la grande o la piccola cronaca pongono sul tappeto della vita sociale. Lavoro e questioni sociali, ferrovie e agricoltura, tasse e pubbliche finanze, e tutti i possibili svolgimenti che si possono dare fino alle questioni diplomatiche più complesse e al loro ricorrente, drammatico dilemma: guerra o pace, ricorrono così nei suoi discorsi e nelle sue pagine con l’affascinante, avvincente dialettica del concreto, che gli è propria, e che è tutt’altra cosa dalla grettezza.



III


Così, ideali e principii permeano profondamente il pensiero e l’azione di Cavour.
Intorno all’altezza e alla carica ideale del suo liberalismo e del suo genio è fiorita, indubbiamente, e fin dai suoi giorni, una mitizzazione, che facilmente si spiega. Si spiega, infatti, con la lunghezza, fuori del comune in regime parlamentare, e interrotta solo dalla morte, della sua azione di governo, che strinse intorno a lui importanti e molteplici solidarietà e fece maturare una schiera di uomini politici, diplomatici e alti funzionari, ai cui occhi egli fu, e sempre rimase, il maestro insuperato e insuperabile. Si spiega con la eccezionale rilevanza storica dei risultati da lui conseguiti nel giro di veramente pochi anni. Si spiega col bisogno che aveva la nuova Italia, sia nella fase della sua formazione che, ancor più, appena costituita in Stato nazionale e indipendente, di riconoscersi e di confidare in una personalità di alto rilievo. Si spiega con quella che apparve la mediocrità della politica e della classe politica italiana che assunse e gestì il potere dopo la sua morte e che si trovò ad affrontare i terribili problemi interni ed esterni del nuovo e ancora assai fragile Stato al quale l’opera di Cavour aveva messo capo.
Indubbio è pure, però, che Cavour apparve una personalità di grande rilievo anche al di fuori del quadro italiano. Un rilievo tale da determinare in breve tempo un’associazione e, insieme, una contrapposizione della sua figura e quella di Bismarck.
Il grande Statista tedesco esponente e quasi ideal-typus della Real-politik; della «politica di potenza», che privilegia la materialità della forza economica e militare e delle dimensioni politico-territoriali di un paese rispetto ai valori e alle idealità che ne reggono la vita all’interno e ne animano l’azione all’esterno; della politica del «ferro» e del «fuoco»; ponte della mutazione dei movimenti nazionali in nazionalismi chiusi e aggressivi; ponte, altresì, del passaggio dalle vecchie concezioni dello Stato monarchico-autoritario al nuovo Stato nazionale, in cui monarchia e autoritarismo continuavano a tenere il campo, e perfino rafforzavano il loro peso politico e sociale; tipica espressione della cultura europea post-romantica, ormai positivistica, aspramente realistica, della seconda metà del secolo XIX.
L’italiano, invece, esponente del più puro liberalismo europeo; legato ai valori e alle idealità sia nazionali che liberali della grande cultura e della grande politica europea dell’età del Romanticismo; ancorato alla fisiologia, e anche ai costi e alle insufficienze, di un regime di libertà, ma intransigente nell’accettarne il passivo pur di preservare lo spirito e la libera prassi di un tale regime; certo del fondamento elettivo, di libera scelta quotidiana sia della libertà che della nazionalità; avverso a ogni deviazione nazionalistica dei movimenti nazionali; fautore di una politica per la quale non è la potenza il parametro massimo; monarchico e uomo d’ordine, moderato e, insieme, e in senso liberale, audacemente innovatore, ma lontano da ogni finalità autoritaria.
Ovviamente, come tutti i paralleli storici, anche questo è terribilmente semplificante e generalizzante. Che esso abbia trovato credito in una parte della storiografia (anche germanica) ha, però, un suo evidente significato. E, allo stesso modo, ha un suo evidente significato che quel parallelo sia stato presente in maniera particolare nella cultura politica italiana, così come l’idealizzazione e la mitizzazione della figura politica ed etico-politica di Cavour.
Tanto presente da aver poi determinato reazioni di segno aspramente opposto nella storiografia, sia italiana che europea. Di qui un Cavour pragmatico, utilitarista, opportunista; sostenitore di uno Stato più forte, in realtà, che liberale; attento ai fatti e ai loro dettami ed esigenze pratiche ben più che alle idee, fossero anche quelle massime della libertà e della nazione; sempre, in fondo, più nella linea del vagheggiamento di un grande Stato padano secondo la politica tradizionale degli antichi Stati italiani, e in particolare dei Savoia, anziché davvero nella linea del movimento nazionale del Risorgimento; e alla fine, non esente da un autentico cinismo e spirito di profitto (perfino, da un conflitto di interessi sul piano personale) in una prassi politica fatta soprattutto di quel che volgarmente viene definito come «maneggio degli uomini»: una espressione indice, da sola dal carattere deteriore che vuole affermare.
Nessuna demitizzazione politica o storiografica ha, tuttavia, seriamente intaccato il rilievo e la qualità della figura politica di Cavour, della sua azione, delle sue idee, dei suoi ideali. Era naturale che, passati i giorni che furono i suoi, e svaniti gli echi che per decennii ne promanarono, molti dei suoi allori fossero sfrondati, o, senz’altro, cadessero. La corona di alloro di Cavour era, però, ampia e folta. Sfoltita o, magari, rimpicciolita, è rimasta notevole, verde, sempre rifiorente. Non è dato a tutti gli uomini politici di costruire un edificio politico, del tutto nuovo, inedito, estremamente problematico, ancora in vita, e più forte di quanto non sembri, centocinquant’anni dopo. A Cavour è toccato, e il suo nome è rimasto e rimane fra quelli dei massimi costruttori di Stati e delle massime figure etico-politiche dell’Europa liberale e nazionale del secolo XIX e XX.



IV


Ha corrisposto l’Italia unificata da Cavour a quelli che poterono essere i suoi propositi e le sue speranze? È nata l’Italia libera, moderna, progredita sulla linea dell’Europa più avanzata, che egli auspicava? Si è formato uno Stato efficiente, bene strutturato, equilibrato fra esigenze pubbliche e private, collettive e individuali, liberiste e sociali, forte ma giusto nell’ordine e nella giustizia?
Le risposte affermative a tali domande sarebbero poco credibili già in via di principio. Figurarsi nel concreto di un paese e di una nazione difficili qual è l’Italia. Le risposte negative sarebbero, tuttavia, sicuramente errate. Che cosa era l’Italia nell’oceano dell’economia mondiale nel 1860? Praticamente, nulla. Che cosa è oggi? Uno dei dieci paesi più avanzati del mondo. La realtà è che lo Stato unitario è stato il quadro di un successo clamoroso negli annali della storia economica contemporanea (come tutti gli studiosi della materia sanno e dicono), il quadro di un vero e proprio “miracolo” (come, per l’appunto, lo si è definito) in fatto di sviluppo e trasformazione economica e sociale. Fanno sorridere, quando sono sostenute da studiosi rispettabili, e fanno clamorosamente ridere, quando sono sostenute da altri, le tesi di quelli che pensano che l’unità non abbia avuto relazione con lo sviluppo delle regioni più avanzate d’Italia, le quali, dice qualcuno, si sarebbero sviluppate ugualmente, e si sono di fatto sviluppate, a prescindere dall’unità, come un Belgio o una Svizzera o una Olanda. Basta pensare a quel che la politica delle infrastrutture, la politica degli armamenti, delle fortificazioni e delle forniture militari, la politica del commercio estero, la politica fiscale e monetaria (che a lungo gravò alquanto di più sul Mezzogiorno che nel Nord) e altri aspetti della politica italiana hanno costantemente significato per lo sviluppo del capitalismo e dell’industria italiana, e il mito dello sviluppo spontaneo di alcune regioni si rivela subito per quel che è: un mito, appunto.
L’unità è stata, quindi, tutto un successo? Siamo ben lontani dal pensarlo. Centocinquant’anni dopo c’è ancora tutta in piedi la “questione meridionale”. D’Azeglio si sbagliava nell’affermare che nel 1860 era stata fatta l’Italia e bisognava, quindi, fare gli italiani. Era vero il contrario: gli italiani c’erano già da più di mille anni; quel che bisognava fare era proprio l’Italia, ossia l’Italia come grande Stato moderno, efficiente, razionalmente organizzato, e condotto secondo i criteri della moderna great society maturata intanto in tutto il mondo, e politicamente non solo libero e indipendente, ma anche senza incrostazioni paralizzanti della politica, dell’amministrazione, degli interessi particolari e di simili altre delizie della vita sociale. Dopo centocinquant’anni questa Italia è ancora da costruire, essendo stata realizzata solo in parte, mentre intanto è prosperata come mai prima la malavita organizzata, e sono sopravvenuti i problemi della grande immigrazione allogena ed etero-culturale, che caratterizza tutto l’Occidente contemporaneo. E non parliamo di tanti altri aspetti maggiori e minori che formano la vasta problematica dei mali dell’Italia unita di ieri e di oggi.
Detto ciò, rimane fermo che l’unità è stata un successo, e ha concluso con una sostanziale riuscita la grande rincorsa all’Europa che l’Italia aveva cominciato con il Risorgimento sin dalla fine del secolo XVIII, dopo due o tre secoli in cui in Europa si era ritrovata sempre più marginale e dipendente. Lo stesso Mezzogiorno è rimasto distante dal Nord, ma è incomparabilmente più progredito di quello del 1860. Lo Stato italiano fa ancora troppo spesso disperare, e molto, i suoi cittadini, ma è uno Stato moderno, non solo di gran lunga più moderno degli Stati italiani pre-unitari, ma la sua riforma è sempre possibile. Anche la vita sociale nell’Italia contemporanea è lontana anni-luce da quella di prima dell’unità, mentre molti dei problemi italiani di oggi (ivi compreso il problema della nazione e dello Stato nazionale) sono problemi tutt’altro che soltanto italiani.



V


Sarebbe stato diverso il destino dell’Italia, diverso il successo della costruzione risorgimentale, se il nuovo Stato fosse stato ordinato in altro modo da quel che fu?
Nell’Italia degli inizi del secolo XXI si fa un gran parlare di federalismo da introdurre nell’ordinamento del paese, proprio anche per riparare ai guasti prodotti dal centralismo unitario istituito nel momento dell’unificazione cavourriana. Paradossalmente, tenuto conto del sopra accennato successo, pur con tutti i suoi limiti, del Risorgimento italiano, si è diffusa una viva nostalgia per gli Stati pre-unitari, da molti rimpianti come sola vera espressione dell’autentica realtà italiana, tranne – non si può non notarlo – che per lo Stato Pontificio, da nessuno, in pratica, rimpianto, o anche soltanto evocato.
Fu allora un errore il centralismo unitario del 1861 e anni seguenti? Che ne pensava Cavour?
Nel suo discorso in Parlamento del 26 maggio 1860 – tornato appena al potere dopo la crisi provocata dalla pace imprevedutamente voluta da Napoleone III con l’Austria dopo le vittorie franco-piemontesi di Solferino e di San Martino – Cavour parlò di quel che si era fatto nelle regioni italiane intanto unite al Piemonte: Lombardia, Parma, Modena, Bologna, Toscana.
«Intorno alla pretesa autonomia amministrativa della Toscana» – disse egli in quel discorso – «a che si riduce quest’autonomia? Quale impegno abbiamo noi assunto colla Toscana? Uno solo»: e, cioè, che «l’unione» col Piemonte si poteva fare «senza che immediatamente, repentinamente» venissero estese colà «tutte le leggi antiche, e specialmente […] tutte le leggi nuove», ossia quelle più recenti, liberali e innovative dell’ordinamento piemontese. Quanto alla Lombardia, essa appariva «irritatissima del modo col quale si era proceduto a suo riguardo, perché in poche settimane si erano pubblicati […] migliaia di articoli di legge, decretandone l’applicazione in un paese nuovo, con impiegati nuovi e con norme assolutamente nuove». Di qui «un gran malumore […] incontestabile», e, inoltre, la decisione di non seguire lo stesso metodo in Toscana. Senonché, «nell’Emilia il governo locale avea stimato di procedere alla unificazione in modo più risoluto. Nella Toscana, invece, si era proceduto molto più temperatamente. Si accettò l’Emilia già quasi assimilata, si accettò la Toscana qual era. Ma si disse forse a quest’ultima: conserverete sempre leggi speciali, amministrazione separata? No […], si disse tutto il contrario. Si disse: è intenzione del Governo (e voi sapete che un Ministero, quando parla, suppone sempre di avere il concorso del Parlamento) di modificare in parte queste leggi che, a suo avviso, fecero mala prova in Lombardia, di mutarle nel senso della maggior libertà, della sua centralizzazione. Noi non vi applicheremo dunque queste leggi se non quando saranno modificate, perché esse, essendo più liberali, meno centralizzatrici, vi daranno, oltre a tutti i beneficii della libertà e della scentralizzazione, i vantaggi dell’autonomia. Poiché, a che cosa si riducono i benefizi dell’autonomia amministrativa? Si riducono a lasciare a ciascuna delle parti del corpo sociale una grande libertà d’azione. Se noi possiamo giungere, e spero vi giungeremo col vostro concorso, ad ordinare l’amministrazione sulle basi di questa grande libertà locale, noi avremo procurato alla Toscana con leggi uniformi il beneficio dell’autonomia. E che la nostra intenzione sia di procedere all’unificazione amministrativa e legislativa noi ve ne diamo tutti i giorni ripetute prove».
È difficile sottovalutare il peso di queste dichiarazioni, che esprimono la mens e l’animus di Cavour in un momento in cui le prospettive dell’unificazione non comprendevano ancora il Mezzogiorno, ma già erano quelle della grande monarchia centro-settentrionale, che solo un anno prima sarebbe apparsa lontanissima e difficilissima da realizzare. Il pensiero di Cavour è qui chiarissimo: non è in discussione un ordinamento in cui la libertà e l’autonomia locale (la scentralizzazione) fossero garantite e ampliate; a questo scopo le leggi piemontesi andavano «modificate» per renderle «più liberali, meno centralizzatrici», garanzia di «lasciare a ciascuna delle parti del corpo sociale una grande libertà di azione»; ma nello stesso tempo era pure fuori discussione il proposito «di procedere all’unificazione amministrativa e legislativa», sulla base di «leggi uniformi», capaci assicurare «il beneficio dell’autonomia».
Insomma, l’autonomia locale, il self-gouvernment, caro alle tradizione del pensiero liberale e dei paesi più impregnati di tale pensiero, a cominciare dall’Inghilterra, si. Una riforma della stessa legislazione piemontese in materia comunale e provinciale per rafforzare e ampliare il self-gouvernment, si. Era a questo, e solo a questo, che si riducevano «i benefizi dell’autonomia amministrativa». Ma «leggi speciali» e «amministrazione separata» da regione a regione del nuovo Stato, questo assolutamente no. Una cosa era provvedere a evitare che si ripetesse il malcontento lombardo, del quale si riconosceva il fondamento per la repentinità e la generalità dell’applicazione ivi fattasi della legislazione piemontese tale qual’era, e così sovrapposta e sostituita a quella vigente in loco. Un’altra cosa, da non potersi affatto consentire, era un cedimento alle pretese o rivendicazioni toscane di «leggi speciali» e «amministrazione separata». Al contrario: leggi uniformi, benché riformate in senso autonomistico, e amministrazione unitaria, benché «scentralizzata».
Quel che Cavour pensava sembra proprio, dunque, una monarchia liberale a larga base di autonomie comunali e provinciale, ma salda e unitaria nel suo ordinamento statale; un quid medium, un qualcosa di mezzo, un po’ paradossale e sorprendente, tra il modello francese e quello inglese, ma molto più vicino a questo secondo che al primo.
Quando, appena pronunciato il discorso del 26 maggio 1860, sopravvenne il problema del Mezzogiorno, le cose si posero in modo diverso. Il Regno delle Due Sicilie rappresentava un paese di dimensioni superiori a quelle del Regno di Sardegna fino al 1859, e pari a più di un terzo di quella che sarebbe stata la nuova Italia non solo dopo il 1866, con il Veneto e con Venezia, ma anche dopo il 1870 con il Lazio e con Roma. La legislazione delle Due Sicilie formava un insieme ragguardevole, già passato attraverso le riforme del periodo napoleonico. La vita sociale e le prassi amministrativa erano fondate su tradizioni molto antiche e consolidate, non facili a immediate amalgamazioni con altri usi, costumi e tradizioni. Il liberalismo vi era altrettanto assente che nella restante Italia non sabauda, ma vi mancavano del tutto le tracce dell’antica civiltà comunale, che da secoli aveva fortemente impregnato di sé la Toscana e l’Italia padana. Infine, l’economia, l’istruzione, il peso del clero, il dissenso politico e varii altri importanti elementi connotavano il Mezzogiorno come un mondo diverso da quello piemontese alquanto di più che non la restante Italia unita. E ciò a non contare, infine, il solco profondo che divideva napoletani e siciliani e che del Regno delle Due Sicilie, istituito solo alla fine del 1816, unendo i due Regni di Napoli e di Sicilia, faceva un composto eterogeneo e riluttante di due mondi, rimasti vocazionalmente estranei l’uno all’altro.
Non solo Cavour, ma l’intera classe politica della nascente Italia unita si fecero di questo problema, come era naturale, oltre che necessario, una preoccupazione grandissima. Si discusse a lungo di un possibile ordinamento federale da poter dare al nuovo Stato. Alcuni progetti, come quello del Minghetti, sembrarono raccogliere un interesse particolare, e ciò anche da parte di Cavour. Ma non se ne fece nulla. Le cose andarono in tutt’altro modo.
La lettera a Costantino Nigra, del 4 marzo 1861 – due settimane prima che fosse proclamato il Regno d’Italia, e tre mesi prima della morte – dimostra che Cavour aveva già decisamente scelto la sua linea. «Sono lieto – scriveva – che il principe abbia ritirata la sua dimissione, e riconoscente a lei pei sforzi fatti per indurlo a ciò fare. La presenza del principe a Napoli è ancora utile se non necessaria per qualche tempo ma solo per qualche tempo: giacché se si prolungasse sarebbe dannosa, giacché renderebbe impossibile la distruzione di quella fatale autonomia, che rovinerà l’Italia se non ci rimediamo. Tutti i deputati napoletani un po’ capaci, coi quali ho conferito, sono di questo parere. Tutti proclamano che se non si distrugge il centro di Napoli, l’Italia non si costituirà; tutti ci assicurano dell’appoggio quasi unanime delle provincie».
Il principe era Eugenio di Savoia, che, nominato il 7 gennaio 1861 luogotenente del Re per il Regno ex-borbonico, aveva manifestato poi l’intenzione di dimettersi, accolta soltanto il 16 maggio. In un momento in cui tutto appariva ancora fluido e tutto ancora possibile, l’eventualità che si formassero un’opinione e un partito, favorevoli al mantenimento dell’indipendenza napoletana sotto un altro Savoia, era un’eventualità molto temuta, ancorché verosimilmente ipotetica. Cavour non aveva, quindi, più dubbi: era necessaria «la distruzione» della «fatale autonomia» napoletana, che avrebbe altrimenti rovinato la formazione e la costruzione del nuovo Stato unitario, della nuova Italia. E su questa strada, che fu poi quella definitivamente adottata, a rafforzare il giudizio e i propositi di Cavour concorrevano fortemente i napoletani stessi presenti a Torino, o che in altro modo si mettevano in contatto con lui.
Del resto, sono recriminazioni altamente problematiche e antistoriche quelle fondate su una mancata soluzione federale del problema italiano, e sul tipo di Stato accentrato, giacobino-napoleonico, affermatosi con l’unificazione del paese. È il rimpianto, cioè, di quei mancati Stati Uniti d’Italia, che fu poi avanzato più volte nella storia dell’Italia unita, e in modo particolare dopo la seconda guerra mondiale: il problema, detto in altri termini, della sconfitta di Cattaneo rispetto sia a Mazzini che a Cavour (per quanto dello stesso Cavour alcuni tendano ora a vedere una propensione federalistica di cui nessuno a suo tempo fece davvero alcun conto). Anche di questi vagheggiamenti federalistici il fondamento è, innanzitutto in linea di fatto, estremamente problematico. Pensare che la soluzione unitaria che prevalse venisse adottata senza matura riflessione, quasi fosse una soluzione proconfezionata, che attendeva solo di essere calata addosso alla realtà alla quale fu applicata, è un modo per lo meno ingenuo di vedere le cose. Si discusse, invece, largamente del problema accentramento o federazione (o altro di simile), e la conclusione centralistica fu dettata da riflessioni di ordine strettamente politico, legate alle condizioni in cui si era formato e doveva percorrere i primi e più difficili tratti del suo cammino lo Stato uscito dal Risorgimento.
Di queste riflessioni, coraggiosamente realistiche, furono gran parte le varie sezioni della classe politica italiana che aveva fatto l’unità, e ne governò a lungo i destini, provenienti dalle più diverse parti del paese, e talora addirittura più sollecite di quelle piemontesi nell’auspicare e chiedere l’organizzazione centralistica che ben presto si impose. L’alternativa sarebbe stata un’Italia unita, ma di una unità “leggera” suscettibile di sfasciarsi alla prima forte strambata che le fosse capitata nel tempestoso mare della grande politica internazionale, in cui, grazie appunto all’unità, era finalmente rientrata dopo tre secoli di un’esistenza politica meschina, da semplice «espressione geografica», come la qualificava Metternich, espertissimo in queste faccende.
Le vicende dei primi anni dell’unità – col cosiddetto «brigantaggio» in tutto il Mezzogiorno, con le mene borboniche e clericali da Roma (dove viveva in esilio l’ultimo sovrano dell’Italia meridionale, Francesco II), i pentimenti francesi per la troppo estesa unità italiana nata con l’appoggio determinante di Napoleone III, la sempre vigile attenzione di Vienna a cogliere ogni occasione per rivedere e scompaginare l’appena nata unità italiana, i formidabili problemi finanziari e politici di fronte ai quali si trovò la nuova Italia – dettero alle ragioni politiche della scelta unitaria del 1861 una giustificazione in re difficilmente contestabile. In effetti, solo dopo la, sia pure sfortunata, guerra del 1866 l’unità italiana cominciò a respirare. Il nuovo Stato, invece di indebolirsi e minacciare rovina, si ingrandiva, prima col Veneto, poi nel 1870 con Roma. E, tuttavia, un peso reale e riconosciuto nel cosiddetto «concerto» delle grandi potenze europee l’Italia unita non lo acquistò che nel 1882, quando formò con la Germania e con l’antico nemico austriaco la Triplice Alleanza, rimasta poi per oltre un trentennio la base permanente e, tutto sommato, solida della politica estera italiana, pur attraverso le molte e notevoli modificazioni e revisioni a cui fu soggetta.
La giustificazione dei fatti non è esaustiva? In politica e in storia è difficile sostenerlo in via di principio assoluto e indiscutibile. Il realismo è, tuttavia, una delle prime e maggiori doti che si richiedono a un politico (e a uno storico). Cavour fu grande anche perché fu un grande realista. Come, però, si è visto, il suo realismo non era quello della nuda e grande Real-politik. Era nutrito, invece, di una forte carica ideale, di solide convinzioni storiche e politiche, di un indiscutibile spirito del più moderno liberalismo, di una vera fede nella libertà, nel valore della libertà liberatrice.
Non sono stati una sua invenzione e creazione né la nazione italiana, né il problema nazionale italiano che si pose nella prima metà del XIX secolo in Italia e in Europa. Indiscutibile è, però, il suo merito, indiscutibile il suo titolo di grandezza storica nell’aver operato in misura determinante e decisiva nel far sì che la nazione italiana e il suo problema nazionale ricevessero una soddisfazione risolutiva al punto da resistere ancora, dopo molte e spesso rovinose vicissitudini, e sia pure ripetutamente discussa e addirittura rinnegata, a centocinquant’anni dalla sua cavourriana e risorgimentale soluzione.






NOTE
* Questo testo è la Prefazione a Camillo Benso di Cavour, Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di Adriano Viarengo, Milano, BUR, 2010.^
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