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L'eredità di Berlinguer
di Maurizio Ambrogi
«Berlinguer non ha saputo leggere il profondo mutamento del modello di sviluppo capitalistico e della socialdemocrazia, non ha riconosciuto il tramonto storico del comunismo», scrive Victor Zaslavsky sull’ultimo numero di «Reset»1, dedicato alla riflessione sulla figura del leader del Pci scomparso nell’84. Ricorda, Zaslavsky, il duro giudizio contenuto nell’ultimo libro di Silvio Pons2: è mancato a Berlinguer un «giudizio netto e senza distinguo sulla natura totalitaria dei regimi dell’Est e dell’Urss, in grado di riscattare i comunisti italiani dalle complicità del passato e affrancarli dalle ambiguità del presente». Sulla stessa rivista rincara la dose Gianfranco Pasquino bocciando la politica dell’eurocomunismo come tentativo di mantenere una continuità con la tradizione comunista senza avere il coraggio di imboccare l’unica strada possibile: quella della socialdemocrazia. Non salva il leader del Pci nemmeno «da sinistra» Rossana Rossanda nel suo ultimo libro autobiografico3. Un altro storico, Sergio Luzzatto, recensendo lo studio di Pons, esprime una condanna senza appello: «generoso nelle intenzioni, Berlinguer, e magari coraggioso nel pensiero, eccessivamente prudente, quasi burocratico, nel lavoro concreto» e più avanti: «questo libro sostiene e dimostra che la crisi del Pci va spiegata dal di dentro. Berlinguer fallì perché si illuse che il comunismo fosse qualcosa di riformabile»4.
Giudizi assai severi che apertamente mettono in discussione il percorso politico di Berlinguer e apertamente parlano di ritardo e di fallimento. Non si discute, ovviamente, «l’immenso valore morale di un’idea alta della politica», a tutti piace quell’immagine un po’ ascetica, quel rigore d’altri tempi del leader comunista. Al quale si rimprovera però il limite culturale di rimanere ancorato, scrive Bruno Gravagnuolo sempre su «Reset», alla tradizione leninista, alla matrice originaria: fu un tentativo nobile, ma inutile, insomma, quello di «forzare oltre il limite massimo l’identità comunista: senza travalicarne le colonne d’Ercole».
È indubbio che sia stato così. Ed è indubbio – benché curioso che questo accanimento critico emerga oggi anche da parte di studiosi di area comunista – che a Berlinguer può essere rimproverata l’astrattezza del progetto eurocomunista, la diffidenza verso la prospettiva socialdemocratica, il legame comunque mantenuto con l’Urss e il Pcus, il fallimento della solidarietà nazionale. Ma un giudizio storico-politico completo non può fermarsi a questo, non può non tener conto dei limiti interni e internazionali e delle condizioni della lotta politica in cui Berlinguer si è trovato ad operare. E delle condizioni del paese. Anche perché egli fu uno dei protagonisti di una stagione politica cruciale, e di un progetto politico la cui soluzione, o dissoluzione, pesa ancora oggi come nodo irrisolto della nostra democrazia.
Il nodo è quello che viene definito della «transizione». Transizione verso una democrazia matura nella quale la dialettica politica sia affidata a due schieramenti alternativi che tuttavia si riconoscano e si legittimino, nei quali prevalgano le forze più moderate e che riconoscano le istituzioni dello Stato e gli organismi terzi. La polemica sulla legittimità del voto del 9 aprile dimostra, ove ve ne fosse ulteriore bisogno, quanto si sia ancora lontani da questa «normalità» di atteggiamenti e di rapporti politici. Il fatto che lo schema bipolare forzatamente indotto dagli eventi di tangentopoli e dalla decimazione dei partiti e della classe politica della cosiddetta prima Repubblica non abbia risolto questo problema è la conseguenza di una anomalia che emerge negli anni ’70, dopo il fallimento dell’esperienza del centrosinistra, e che non è mai stata risolta. Anomalia ben presente ai protagonisti più avvertiti della classe politica di allora – fra i quali, oltre a Berlinguer, almeno Moro, Ugo La Malfa, e lo stesso Craxi che pure avversò la ricerca degli «equilibri più avanzati» in nome di una diversa visione della soluzione della crisi politica italiana.
Una anomalia che potremmo riassumere così: una democrazia bloccata che stava esaurendo la risorse che fino ad allora ne avevano garantito lo sviluppo economico e l’equilibrio sociale. Nella quale emergevano anzi elementi di crisi strutturale: alta inflazione, forte disavanzo, declinante competitività, crescente divario di sviluppo territoriale e fenomeni di esclusione di vasti ceti dalla distribuzione delle risorse. E infine una inquietante condizione della stabilità democratica: da un lato, fiaccata dalla strategia della tensione, alimentata dai servizi segreti deviati, e dall’altro attaccata direttamente da un terrorismo organizzato e militarizzato, che trovava protezione e riparo in una più larga area di protesta e contestazione al limite dell’eversione. Di contro, un sistema politico che faceva sempre più fatica a garantire il consenso e il controllo sociale attraverso lo scambio con sindacati, categorie e pezzi di territorio (con aumenti salariali, protezioni sociali, barriere protezionistiche, finanziamenti a pioggia, intervento diretto nell’economia): uno scambio finanziato fino ad allora in debito. Non a caso uno dei momenti di frattura (anche col Pci) si giocò sull’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo, nel ’79, individuato da La Malfa come momento di svolta per spezzare quel circolo.
È questo il quadro che sottende l’elaborazione berlingueriana della solidarietà nazionale, basata sulla consapevolezza della impraticabilità della strategia dell’alternativa perché, come ebbe a dire con riferimento esplicito alla crisi cilena, «non si governa col 51 per cento». Non si poteva governare allora, negli anni della divisione bipolare nel mondo, non si governa oggi, potremmo dire, con un bipolarismo «armato», in un clima da «guerra fredda» interna. Il problema politico, allora come oggi, è come trovare il consenso alle riforme strutturali che servono alla modernizzazione del paese e che garantiscano una più equa distribuzione delle risorse sgretolando privilegi e concrezioni di interessi. La questione non si poneva allora – e non si pone oggi – solo in termini di astratta scelta di un modello – liberismo o socialdemocrazia – ma prima di tutto in termini di sistema politico. La crisi di sistema era ed è il problema italiano e non si fa molta strada, anche oggi, se non se ne intendono i corretti termini.
Crisi di sistema e di cultura politica. Sistema bloccato, anche per ragioni internazionali, che impediva l’alternanza e teneva fuori dalla responsabilità del governo oltre un terzo del paese. Cultura politica fondata, come si è detto, sullo scambio e sulla forte presa dello Stato (e dei partiti) sulla società e sull’economia, che impediva qualsiasi sforzo di liberalizzazione e di modernizzazione ed anzi alimentava un quadro di degrado e di corruzione che produsse molte scosse, dal caso Sindona allo scandalo Lokheed, ed esplose poi incontrollabile negli anni ’90 travolgendo tutti i partiti di governo della Prima Repubblica.
Si può giudicare troppo timido e lento lo sforzo condotto da Berlinguer nel corso della sua segreteria (dal ’72 all’84) per affrancarsi dal Pcus e dalla ideologia comunista, per rovesciare la posizione sulla Nato e sul capitalismo (all’epoca per la verità la percezione era tutt’altra: e va ricordato il ruolo di La Malfa nel sollecitare, sottolineare e riconoscere via via quei passi inserendoli in una strategia di ampliamento della maggioranza, di avvio della «terza fase», che egli condivise con Aldo Moro5). Va riconosciuto tuttavia che quel percorso fu lineare e coerente, perseguito senza strappi ma anche senza arretramenti, misurato sulla necessità di portare su una posizione più avanzata l’intero partito, non impermeabile come si sa a pressioni esterne e a minacce di scissione. Sostenuto da un disegno politico, il «compromesso storico», e di governo, la «solidarietà nazionale», che avevano come obiettivo il disgelo del quadro politico italiano, la legittimazione della maggiore forza di opposizione, il suo coinvolgimento nell’opera di risanamento del paese anche attraverso le necessarie misure di austerità e sacrificio, la creazione di una condizione di alternanza politica fra schieramenti contrapposti. Nella recente biografia di Berlinguer, Francesco Barbagallo documenta con precisione e ampiezza di fonti come questo disegno fosse condiviso anche sul piano culturale da Ugo La Malfa, fin dal ’74, e più tardi da Moro, che non poté portarlo a compimento6.
A questo disegno se ne contrapporrà un altro: quello di Bettino Craxi, contrario all’ipotesi di un compromesso fra le due grandi forze popolari di massa che avrebbe schiacciato le forze laiche e socialiste. Determinato altresì ad opporsi al destino di una sinistra egemonizzata dalla componente comunista, e fiducioso che il «duello a sinistra» dovesse per forza di cose alla lunga vedere un recupero dei socialisti. Convinto infine che la crisi italiana dovesse essere affrontata partendo dalla revisione dei meccanismi del processo decisionale: con una Grande Riforma istituzionale che spostasse dal Parlamento al Governo la bilancia del potere (secondo un modello più «atlantico» che «mediterraneo») per consentire che una politica di modernizzazione potesse dispiegarsi con maggiore efficacia.
Si può imputare a Berlinguer (e non solo lui, per la verità) di non aver inteso allora la forza di quest’ultima posizione. E lo scontro sulla scala mobile, molto tempo dopo la fine della solidarietà nazionale, resta simbolicamente a indicare il senso di quella sfida fra opposte visioni: il decisionismo craxiano, la resistenza berlingueriana sulla frontiera della difesa dei meccanismi automatici di adeguamento del salario. Con molta onestà ripercorrendo il duello dell’84, Massimo D’Alema ammette che «non sbagliava Craxi quando poneva l’esigenza di una lotta all’inflazione che liberasse il campo da automatismi superati per lo stesso esercizio della lotta contrattuale da parte del sindacato» e dall’altro lato giustifica la scelta di Berlinguer come tentativo di fermare una deriva giacobina, «una modernizzazione dall’alto, priva di larghe basi di partecipazione e di consenso» perché «l’errore drammatico della strategia craxiana stava proprio nell’idea di poter fondare decisionismo e governabilità su quel risicato 11 per cento di voti»7.
Di conseguenza, e alla luce di quella scelta, come del resto per il sostegno offerto alla protesta degli operai della Fiat, si può accusare Berlinguer di debolezza o ambiguità programmatica. Ma certamente il disegno del compromesso storico fu anzitutto e principalmente un disegno tutto politico, frutto della consapevolezza della condizione di emergenza politica e di incompiutezza democratica che Berlinguer condivideva, con differente intensità e urgenza, con La Malfa e Moro, cioè con gli altri due protagonisti della stagione che avrebbe dovuto portare ad un governo di solidarietà nazionale e che il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc nel ’78 interruppe sul nascere. L’ingresso del Pci nella maggioranza, dettata dalla condizione di emergenza democratica che l’azione della Br aveva determinato, e dall’esigenza di gestire in modo unitario la delicata fase del sequestro, non divenne mai una convinta alleanza politica e La Malfa tentò senza fortuna di dar vita ad un governo aperto anche al Pci che evitasse le elezioni anticipate8.
Si può essere d’accordo col giudizio che D’Alema offre dell’azione di Berlinguer, artefice e interprete della grande avanzata del Pci negli anni ’70, che cerca di incanalare «la spinta al cambiamento nella politica del dialogo, nella ricerca di un’intesa fra le grandi forze popolari per rinnovare insieme il paese». Ricollocando il partito sulla scena internazionale senza superare il limite «strutturale di una grande forza comunista e perciò stesso non in grado di candidarsi a guidare una possibile alternativa di governo. Alla fine la politica di Berlinguer non aveva retto alla controffensiva reazionaria, al sovversivismo terrorista e al logoramento obiettivo di una permanenza prolungata in mezzo al guado»9.
In effetti, nel ’79 una pesante sconfitta elettorale – il Pci perde circa quattro punti – conduce Berlinguer a ripiegare tatticamente, rifugiandosi nella «diversità» e abbozzando una linea di alternativa, soprattutto dopo la formazione del Governo Craxi.
Non si può dire quale sviluppo avrebbero preso le cose se Berlinguer non fosse scomparso nell’84. Certo è che il compromesso storico fu l’unica strategia in cui Berlinguer impegnò coerentemente e pazientemente la sua leadership politica. Convinto che fosse quella la strada per sbloccare la democrazia italiana, aggirando il fattore K, cioè il coagulo di resistenze interne e impedimenti internazionali all’ingresso del Pci nel governo, e al tempo stesso per governare la crisi economica e finanziaria nell’interesse dei ceti rappresentati.
La lunga marcia si arrestò nella primavera del ’78: è opinione consolidata che Moro fosse l’unico garante nella Dc dell’operazione politica che stava portando all’ingresso dei comunisti nella maggioranza, dopo i due anni della «non-sfiducia». Ruolo in cui non poteva certo essere sostituito dall’allora presidente del Consiglio Andreotti, che aveva guidato il governo neocentrista, dopo il fallimento del centrosinistra, ed ora si apprestava a interpretare la formula opposta. Eliminato Moro, quella formula era destinata a saltare. Troppe resistenze: nella Dc, anzitutto, nel Psi e nei partiti laici, ad eccezione del Pri, nelle forze economiche e in quanti paventavano che l’abbraccio fra i due maggiori partiti avrebbe soffocato la dialettica politica nel paese.
In realtà, la fine della solidarietà nazionale, più che liberare ulteriori spazi di libertà e di dialettica, fu fatale in primo luogo alla Dc; e accentuò quella crisi del sistema politico che dodici anni dopo avrebbe portato alla fine della prima Repubblica.
Nell’81, travolta dallo scandalo delle liste della P2 la Dc dovette cedere per la prima volta nel dopoguerra la guida del governo: il quadro politico non cambiava, con l’alleanza di pentapartito dalla Dc al Psi, ma il partito di maggioranza relativa vedeva plasticamente raffigurata l’esaurirsi di una capacità di guida politica mai messa in discussione prima d’allora. Fu la breve esperienza del governo Spadolini, cui seguirono, dopo una parentesi Fanfani, gli anni del governo Craxi, caratterizzati da un programma di modernizzazione economica e istituzionale tanto confusamente enunciato quanto vanamente perseguito. Nell’ultima legislatura degli anni ’80 la guida dei governi torna alla Dc, ma il conflitto nell’alleanza fra socialisti e democristiani, soprattutto nella stagione della segreteria De Mita, paralizza l’azione dei governi e costringe a rinviare le riforme strutturali di un paese con un debito pubblico in costante crescita e una struttura industriale obsoleta, avrebbe disperatamente bisogno.
Il resto, potremmo dire, è storia di oggi, storia di un processo politico di nuovo incompiuto: dal crollo della prima Repubblica, con l’emergenza finanziaria e il risanamento gestiti dai tecnici migliori del paese, in una fase quasi di «sospensione» della politica. Alla deriva populista interpretata da Berlusconi, che impone una artificiosa polarizzazione del paese.
Gli avvenimenti degli ultimi trent’anni, con la caduta della Prima Repubblica e il faticoso cammino della Seconda, confermano che la solidarietà nazionale fu l’ultimo progetto politico di ampio respiro che la classe politica italiana abbia elaborato per arrivare ad una democrazia compiuta, o «normale», e guidare i processi di modernizzazione del paese. Erano consapevoli, gli ispiratori dei quel progetto, degli elementi di debolezza del sistema politico: si intravedevano già la crisi istituzionale e quella dei partiti. Una incapacità da un lato di decidere con la rapidità adeguata al ritmo di trasformazione del paese, una difficoltà dall’altro di rappresentare la società.
Quel progetto fallì: ma questo non accadde per la debolezza dell’elaborazione programmatica del Pci di Berlinguer, né per la timidezza della sua rivendicazione di autonomia dall’Urss. La prima non venne messa alla prova. La seconda fu alla base di forti ma non determinanti resistenze di Washington alla svolta politica. Il fallimento di quella svolta, di quel processo già in sé delicatissimo fu determinato, come si è detto, da un fattore imprevedibile, e forse non casuale: l’attacco brigatista al cuore del sistema politico. Ci si dovrebbe domandare quanto quella svolta, se fosse stata portata a termine, avrebbe contribuito a stabilizzare le istituzioni, a normalizzare il confronto politico e ad accelerare quell’elaborazione «riformista» (per usare un termine di oggi) che Berlinguer sia pur con tutte le timidezze dell’epoca, aveva avviato. E a stemperare dentro questo processo le spinte centrifughe dei settori più estremisti. Le cose presero una piega diversa: riportando l’asse politico su una Dc ormai esausta, riaccendendo il conflitto fra Pci e Psi, indebolendo complessivamente la sinistra.
È un fatto che da allora nessuno è riuscito più a guidare i processi politici. Nessun leader è riuscito ad indicare una strategia e a coagulare attorno ad essa un consenso (basti pensare al fallimento dei ripetuti tentativi di impostare una riforma istituzionale coerente con un disegno di modernizzazione della struttura politica italiana). I partiti hanno maggior potere, una presa più forte sullo Stato, sulla burocrazia, sulle amministrazioni locali, sull’informazione. Pervadono e decidono tutto, ma in realtà non riescono a interpretare la società in tutte le sue articolazioni, né a guidare il discorso pubblico sui temi più importanti, dall’economia all’etica, e sono costretti a continue mediazioni con i poteri esterni, dalla Confindustria, ai sindacati e alla Chiesa, convinti che ciò sia necessario per mantenere il consenso elettorale.
La crisi di rappresentatività che si intuiva negli anni ’70, è oggi esplosa. E rileggere correttamente i passaggi politici (e anche gli errori) di allora può aiutare a capire le difficoltà di oggi.








NOTE
1 Berlinguer, eredità con debiti, con interventi di Asor Rosa, Chessa, Cossiga, Gravagnuolo, Pasquino, Zaslavsky, in «Reset», numero 95, maggiogiugno 2006.^
2 S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo,Torino, Einaudi, 2006.^
3 Il racconto di Rossanda si ferma al ’69, alla rottura del gruppo del Manifesto seguita alla crisi cecoslovacca e alla decisione di fondare una rivista autonoma dal partito allora già guidato da Berlinguer. Il giudizio su quelle vicende è rapido ma poco indulgente: «la presunta fedeltà della base all’Urss era più un bisogno di riferimento – scrive Rossanda – che attaccamento alla rivoluzione d’Ottobre. Si sarebbe visto quando il Pci mutò nome e orientamento. Lui, Berlinguer, s’era spento prima e dubito che si sarebbe mosso come Occhetto. Non esitò invece a sfidare l’Urss non opponendosi più alla Nato. Più facile farle ingoiare la Nato che una critica al socialismo reale». R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005, p. 376.^
4 Sul «Corriere della sera», 10 marzo 2006.^
5 Nel novembre del ’77 Berlinguer a Mosca intervenendo alle celebrazioni del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre afferma che la democrazia era «il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista». In Italia, sottolinea Francesco Barbagallo, era ancora una volta Ugo La Malfa a definire questo discorso una svolta politica nettissima. «Dopo quel discorso, afferma La Malfa in una intervista a Scalfaro, è diventato impossibile – se non commettendo una grave disonestà intellettuale – contestare al PCI una sua diversa collocazione internazionale». F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, 2006, p. 310.^
6 «La Malfa, da quando aveva condiviso con Moro le responsabilità di governo nel 1974, apprezzava la scelta sempre più decisa di Berlinguer di autonomia da Mosca e le modalità in cui si sviluppava la partecipazione crescente del PCI alle principali decisioni del governo. Il leader repubblicano sarà il fautore più convinto dell’attribuzione di precise responsabilità di governo al PCI. L’intesa sull’austerità come strumento per un nuovo modello di sviluppo e di consumi confermava la vicinanza dei due leaders sul difficile terreno della rilevanza dell’etica nella politica». Ivi, pp. 296-7.^
7 M. D’Alema, A Mosca l’ultima volta. Berlinguer e il 1984, Roma, Donzelli, 2004, pp. 98/99. Non è un conflitto ideologico quello che oppone comunisti e socialisti all’inizio degli anni ’80, scrive D’Alema, È conflitto politico culturale fra due visioni della modernità e dei modi per promuoverla. È scontro di sostanza che nasce anche dalla preoccupazione in Berlinguer del fallimento di quella strategia di fuoriuscita dal modello bloccato «che in precedenza egli aveva cercato di aggirare con la strategia del compromesso storico» (p. 35).^
8 Sulla storia di quei giorni ha scritto Andrea Manzella: «Siccome è questo il compito che si è dato, La Malfa condurrà sino a che gli sarà possibile il tentativo all’interno della solidarietà nazionale. La sua invenzione (e nessuno allora prevedeva che sarebbe stata l’ultima) fu dunque quella di un meccanismo di garanzie per ridare la fiducia perduta ad un patto politico in cui ancora credeva». Id., Il tentativo La Malfa, Bologna, il Mulino, 1980.^
9 Ivi, p. 23.^
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