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Napoli e il mare*
di Aurelio Musi
1. I miti di fondazione delle città dicono sempre qualcosa di molto importante sulla loro storia. Così è anche per Napoli. Nella versione originaria del mito di fondazione di Napoli, la Sirena Partenope è una fanciulla dal volto umano e dal corpo di uccello. Solo in una successiva trasposizione della leggenda la Sirena conserva il volto di fanciulla e le gambe di uccello, ma trasforma la parte terminale del suo corpo in pesce. È figlia del dio del mare e del dio della terra. Giulio Cesare Capaccio, il segretario del comune di Napoli che nel 1634 scrive l’opera fondamentale, Il Forastiero, raccoglie la versione più matura del mito e rappresenta la Sirena Partenope con le gambe di uccello e le estreme propaggini del corpo che rinviano alla forma di un pesce.
Se dal mito passiamo alla storia, possiamo confermare la doppia natura della nostra città: nella sua prima estensione, Napoli è compresa fra l’isola di Megaride (attuale Castel dell’Ovo) e il monte Echia. Tra mare e terra, dunque: in un rapporto di ambiguità, di difficile coesistenza, ricorrente, permanente e mai risolto.
Giovanni Antonio Summonte, il più importante storico napoletano prima di Pietro Giannone, autore di una Historia della città e Regno di Napoli, pubblicata nel 1601-1602, ci dice che, nel periodo di fondazione della città, il mare arrivava fino a San Giovanni Maggiore: e proprio intorno a quest’area venne più tardi formandosi uno dei sei Sedili, gli organismi rappresentativi del governo urbano, il Sedile di Porto1. A testimonianza e a memoria storica della penetrazione profonda dell’elemento marino nel cuore della struttura cittadina.
Anna Maria Ortese, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, pubblica presso Einaudi con prefazione di Elio Vittorini Il mare non bagna Napoli. Per Eugenia, la protagonista del primo racconto, il mare è come un miraggio, collocato quasi in un altrove, «laggiù, pulito e grande»2. Immersa poi in Forcella, l’autrice ritorna sul tema con queste parole: «Qui il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa scurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale»3. Il mare, insomma, non può vivere nella memoria perché non è mai entrato nella visione di chi vive nella “fossa scurissima”.
Così, tra il dato storico sulle origini ricordato da Summonte e il dato esistenziale del mare come spaesamento della Ortese (dalla prefazione all’edizione Adelphi del 1994), nell’occasione del suo incontro con la Napoli uscita dalla guerra, si può forse leggere, ad un primo livello di approssimazione, l’intera vicenda del rapporto fra Napoli e il mare: un percorso dal mare avvolgente, quasi liquido amniotico, al mare lontano, sottratto alla città.
Quello che propongo è un discorso a più stratificazioni fra storia materiale e storia immateriale. Per la storia materiale: un excursus, necessariamente schematico e sommario, della vicenda del porto e della portualità dal Medioevo a tempi più vicini a noi; qualche riferimento alla marina militare; l’identikit degli uomini del mare. Per la storia immateriale: il ruolo del mare nella costruzione dell’identità di Napoli; il mare e la gastronomia; il mare nella letteratura e nell’arte. Un’osmosi continua, dunque, tra storia materiale e storia immateriale.

2. Giuseppe Galasso, in una delle sue magistrali e acute sintesi dei caratteri permanenti e ricorrenti della storia di Napoli, ne ha messo, fra gli altri, in particolare evidenza due. Il primo: «Pur dall’alto dei suoi fastigi, il Mezzogiorno non è diventato mai una potenza navale dominante»4. Il secondo è la condizione di perifericità5: il porto di Napoli più che come mercato ha funzionato come approdo. Si tratta di due elementi importanti che vanno tenuti in attenta considerazione se si vuol comprendere il ruolo del porto e della portualità napoletani in una condizione di lunga durata del Sud continentale della penisola. Da questo punto di vista si legge, come in uno specchio, una storia più generale e plurisecolare.
La nascita di una “regione portuale” a Napoli è databile fra il X e l’XI secolo. Sono creati due bacini: il primo, Vulpulum, il secondo, Arcina, che svolge le funzioni di arsenale e cantiere navale6. Il porto normanno-svevo viene a riassumere poi il ruolo svolto da Napoli e dal Regno in quest’epoca7: la centralità di Napoli soprattutto dopo la crisi di Amalfi, che ha perso ormai il suo antico smalto e ha ridotto, rispetto a qualche secolo prima, sia il volume sia la capacità di dominare grandi linee di traffico commerciale; la natura dei porti campani che costituiscono il punto medio di riferimento fra il litorale toscano e lo stretto di Messina; la funzione del porto napoletano risolta prevalentemente nell’essere la propaggine dello sviluppo dell’hinterland regionale campano.
È la formazione della capitale in età angioina a sollecitare l’ampliamento del suo porto attraverso l’arsenale, il Molo Grande, un cantiere in progress8. E per il periodo successivo, l’età aragonese, la Tavola Strozzi raffigura assai egregiamente la banchina del porto con le navi all’attracco e i lavori di sistemazione voluti da Ferrante I.
Nel Cinquecento Napoli e il Regno entrano in un più ampio quadro di integrazione politica, il sistema imperiale spagnolo9. Il suo apogeo, durante il regno di Filippo II nella seconda metà del Cinquecento, coincide col periodo di massima visibilità dei caratteri di questo sistema: l’unità religiosa e politica, rappresentata dal prestigio della dinastia asburgica; il predominio di una regioneguida come la Castiglia; il rapporto stretto fra linee direttrici per il governo dell’impero e loro traduzione nella pluralità dei domini; lo sviluppo di sottosistemi; il Mediterraneo come cuore economico del sistema; l’egemonia nelle relazioni internazionali. In questo periodo Napoli diventa una grande capitale dell’impero con oltre 300mila abitanti, costruisce un primato indiscusso in tutto il Regno, è dotata di alcune funzioni esclusive: gigantesco mercato di consumo più che centro di produzione; città privilegiata ed esentata dal pagamento delle imposte dirette; sede dell’amministrazione pubblica dello Stato e della corte vicereale; metropoli fornita di servizi e di capacità di assistenza sociale, superiori a quelli di altre città del Regno; luogo di formazione, attraverso l’università e le professioni “civili”, delle classi dirigenti. Per queste e per altre ragioni il potere di attrazione della capitale è enorme e favorisce l’immigrazione dall’intero Mezzogiorno. Uno dei migliori viceré spagnoli, il Toledo, intorno alla metà del Cinquecento, promuove la costruzione del nuovo arsenale nella capitale10: i lavori si prolungheranno fino alla fine del secolo. Il Capaccio al 1634 lo descrive come uno dei “più illustri d’Italia” e ne presenta in dettaglio la struttura: un ampio piazzale capace di costruire ottanta galere, uffici, magazzini, laboratori, un vero e proprio modello di integrazione funzionale.
Progetto e realtà di una nuova politica mercantile paiono fondersi sotto il “re proprio”, Carlo III di Borbone, dopo la riacquistata indipendenza del Regno nel 1734. Con lui e col suo successore si pone mano a nuovi banchinamenti in direzione di levante: la rada della Marinella, riservata al naviglio minore, l’edificio dell’Immacolatella Vecchia, che Luigi Vanvitelli fa sorgere sul mare unito da due ponticelli alla riva, per ospitare il comando della marina reale11. I traffici vengono deviati dal centro cittadino e immessi sulle strade provinciali. Il porto diventa anche il volano per la nascita di piccole aziende artigiane12.
A metà Ottocento, sull’estremità di ponente, con l’ampliamento del molo esistente, viene costruito il bacino in muratura per la riparazione delle navi. Esiste tuttora, nel mezzo del molo San Vincenzo. Rileva Ernesto Mazzetti: «Ci sembra piccolo a paragone dei grandi bacini realizzati ai primi del Novecento e ampliati a fine secolo. Ma per quei tempi, siamo a metà Ottocento, era sufficiente a tirare a secco un vascello a tre ponti (se ne veda l’immagine dell’inaugurazione, il 15 agosto 1852, nel quadro ad olio di Pasquale Mattej al museo di San Martino)»13.
Ma la portualità napoletana nell’Ottocento perde colpi. Perde colpi nella competitività mediterranea. Quando nel 1900 viene inaugurata la darsena destinata ai bacini di carenaggio, Napoli arriva ormai tardi rispetto agli altri porti italiani. E il colpo mortale è il declassamento del suo arsenale rispetto a quello di Taranto.
Il resto è storia attuale, è la stagione del crocierismo e dei containers, su cui altri, in questo ciclo di lezioni, assai meglio di me, svolgerà riflessioni appropriate. Voglio solo ricordare che, proprio nelle cronache di questi giorni, un elemento in particolare è stato più volte messo in evidenza: il gap tra le potenzialità del porto di Napoli e il mancato adeguamento delle sue strutture.
Dunque basso tasso di autonomia e carattere periferico sono stati i tratti permanenti della storia del porto di Napoli fra Medioevo ed Età moderna: e solo in tempi più recenti si può dire che esso abbia recuperato identità e ruoli nell’economia e nella fisionomia complessiva della città.
Se ci volgiamo alla marina militare e alla potenza navale, non possiamo che confermare l’impressione precedente. Per Napoli si può parlare di potenza navale solo in collaborazione con altre flotte: Genova, Pisa, Corona spagnola, marina britannica, ecc.
E gli uomini del mare? Ritroviamo i napoletani nel cabotaggio, ma il grande commercio internazionale e la marineria importante sono nelle mani di comunità straniere: un altro segno della dipendenza come valenza della nostra storia!
Cito solo due esempi: il primo si riferisce alla metà del Cinquecento; il secondo a fine Settecento. Fernand Braudel ha chiamato “secolo dei genovesi”14 il periodo compreso tra la metà del secolo XVI e la metà di quello successivo: grosso modo, il periodo in cui il Mediterraneo è ancora il cuore dell’economia-mondo, il baricentro non si è spostato verso l’Atlantico, l’ora è ancora favorevole alle grandi compagini statuali. È il periodo in cui un grande impero come quello spagnolo riesce non solo ad essere la prima potenza politica mondiale ma, grazie al controllo del Mediterraneo e alle funzioni relativamente integrate assegnate ai suoi domini, anche a continuare a svolgere un ruolo economico internazionale importante. E questo proprio grazie al primato dei genovesi, alleati della monarchia spagnola, nel commercio e nella finanza internazionale. Il loro primato è andato costruendosi grazie al possesso di alcuni requisiti: la straordinaria disponibilità di capitali; la capacità di controllare il commercio a lunga distanza; la versatilità nel diversificare gli investimenti; il monopolio del rapporto tra finanza pubblica e finanza privata, attraverso i prestiti alla Corona spagnola, sempre alla ricerca di liquidità per far fronte soprattutto ai suoi impegni di guerra; la struttura delle aziende commerciali e finanziarie, in rapporto di integrazione fra casa madre e filiali; ma, soprattutto, il possesso del know how, del sistema informativo cioè, per arrivare prima di altri operatori sui migliori affari del momento.
Una delle attività predilette dagli hombres de negocios liguri è quella armatoriale. 16 sono le navi che compongono la flotta di galere a Napoli nel 156015. Di queste solo 6 sono regie. Le altre appartengono tutte ad armatori privati genovesi. 2 di esse sono di Stefano de Mari, illustre esponente di una famiglia della nobiltà vecchia della diaspora genovese, trasferitasi intorno al 1528 a Napoli, impegnata nell’attività bancaria, commerciale e finanziaria del Regno, quindi radicatasi attraverso l’acquisto di feudi e uffici nella società del Mezzogiorno. Nel 1573 l’armata di Filippo II è composta da ben 33 galere genovesi!
Il secondo esempio, come si diceva, riguarda la fine del XVIII secolo. La notizia è fornita da Giuseppe Maria Galanti, l’esponente di punta dell’ultima generazione degli illuministi napoletani. Di 20 case import-export presenti nella capitale, solo 1 è napoletana16. E se guardiamo l’Ottocento, la condizione di dipendenza straniera non muta.

3. Quale è stato il momento decisivo in cui il rapporto col mare trasforma abbastanza profondamente l’identità della città di Napoli? La risposta, non solo per Napoli ma anche per altri centri urbani italiani, è verso la fine dell’Ottocento. Ha scritto Paolo Frascani: «Sia che si tratti di Napoli a fine Ottocento, orientata a chiudere con strade e palazzi i suoi sbocchi a mare, di Genova già industrializzata o di Catania a inizio Novecento, va ricordato che la pur limitata modernizzazione alla Haussmann, intervenendo sugli antichi quartieri della gente di mare, giunge a modificare la fisionomia complessiva dello spazio urbano, nonché la sua stessa identità sociale, articolata, adesso, in aggregazioni distinte»17. Con l’intervento del Risanamento il piano di insediamenti edilizi chiude gli sbocchi al mare, preclude le spiagge agli ultimi pescatori della Marinella e di S.Lucia. La divisione di classe passa anche per le frequentazioni balneari: Mergellina e Posillipo sono riservate alla nuova balneazione dei ceti medio-alti, Bagnoli e i Campi Flegrei alla piccola borghesia. Matilde Serao confronta il mare limpido della Posillipo borghese e aristocratica con quello della Napoli vecchia che gravita sul porto: «il mare – scrive – ha, veramente, colà una tinta profonda di azzurro, che non avrà giammai il mare della città di Napoli, insudiciato, deturpato, avvilito dalla città. Laggiù nessuna sozzura cittadina viola la gran purità assoluta delle onde, e gli occhi, le fibre, i nervi colà si impregnano di un’immensa voluttà di colore»18.
La scelta dell’identità industriale di Napoli con la Legge Speciale del 1904 è sicuramente un passaggio dovuto per lo sviluppo economico della città e anche «l’opportunità di garantire all’auspicata maggior capacità produttiva napoletana il superamento della strozzatura costituita dall’insufficiente arredamento portuale»19. Ma quella scelta è anche la chiusura definitiva a qualsiasi destino diverso come quello turistico, legato alla possibilità della balneazione nelle acque cittadine.
Nella seconda metà del Novecento i nuovi cicli della speculazione edilizia, quelli degli anni laurini, del doroteismo democristiano, della ricostruzione post-terremoto, rappresenteranno un’ulteriore allontanamento dei cittadini dal mare di Napoli, appena compensato dal boom balneare e dal successo turistico delle isole del golfo, Capri, Procida e, soprattutto, Ischia. E il recupero della balneazione in città è avvenuto solo in anni recenti. Ma esso – è bene ricordarlo – è dovuto più al gioco benefico delle correnti marine lungo la costa di Posillipo che ad un moderno intervento sulle infrastrutture balneari.

4. Si può ragionevolmente sostenere che una timida introduzione del pesce nella dieta e nella cucina della nostra città sia fenomeno contemporaneo a un passaggio decisivo settecentesco, ben descritto in un celebre saggio di Emilio Sereni: quando i napoletani si trasformano da “mangiafoglia”, cioè consumatori soprattutto di verdure, a “mangia maccheroni”. Nei secoli precedenti l’alimentazione soprattutto delle classi popolari napoletane, quando è composta di pesce, si rivolge prevalentemente a specie ittiche assai povere, alla minutaglia. Masaniello non è pescatore d’altura; vende “vili cartocci di pesciolini”.
In ogni caso, ancora nel Settecento, anche nella cucina della nobiltà il mare ha poco spazio. Ne è un’efficace testimonianza il fortunato manuale di gastronomia di Vincenzo Corrado, pubblicato in varie edizioni, Il cuoco galante di varie capricciose vivande e di spiritosi pensieri con un trattato sul vitto pitagorico20. L’autore è il responsabile e l’organizzatore della cucina al palazzo di Michele Imperiali, principe di Francavilla. Si tratta dell’attuale palazzo Cellammare. Alla corte borbonica la corte del principe contende la fama dell’opulenza, del lusso e dell’eleganza. Alle dipendenze di Corrado lavorano un maestro di casa, un maestro di cucina, un maestro di scalco. La schiera di cuochi è organizzata secondo una precisa gerarchia e per specializzazioni: il cuoco friggitore, quello per le insalate, il rosticciere, il pasticciere, il bottigliere, il ripostiere. Le ricette a base di pesce, raccolte da Corrado, sono tantissime. Notevoli le varietà ittiche citate: storioni, ombrine, pesce spada, tonni, cernie, spigole, orate, triglie, scorfani, pesce cappone, luvari, luzzi, merluzzi, cefali, alici, aguglie, trote, carpioni, tinche, anguille, lamprede, cecinelli e fragaglia, aragoste, gamberi, frutti di mare. Ma le minute dei pranzi e delle cene si fondano, in prevalenza, su cucina di terra e carni.

5. Nelle metafore della cultura napoletana barocca il mare la fa da padrone. Certo non appare mai come un elemento naturale positivo, capace di suscitare sensazioni piacevoli, sentimenti di armonia o, per lo meno, di serenità. Prendiamo quattro racconti dell’opera di Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti21. Peruonto, protagonista del trattenimento terzo della giornata prima, «va nel bosco per fare una fascina, si comporta amorevolmente con tre che dormono al sole, ne riceve una fatagione e, burlato dalla figlia del re, le manda una maledizione; che si ingravidi di lui, e questo poi successe. E saputosi che il padre della creatura è lui, il re lo mette dentro una botte con la mogliera e i figli, gettandolo dentro il mare: ma per virtù della sua fatagione si libera dal pericolo e, fattosi un bel giovane, diventa re»22. Dunque il mare è castigo perché è pericoloso e fonte sicura di morte: e Peruonto si salva e va incontro al suo destino fortunato solo grazie ad una magia. Ancora il mare come castigo è nel trattenimento secondo della giornata terza, La Penta mano-mozza. «Penta sdegna le nozze con il fratello e tagliatesi le mani gliele manda in dono; lui la fa gettare a mare dentro una cassa; finita su una spiaggia, un marinaio la porta a casa sua, dove la mogliera gelosa torna a gettarla dentro la stessa cassa; trovata da un re, lo sposa; ma per furfanteria della stessa femmina malvagia è scacciata dal regno; dopo lunghi travagli, viene ritrovata dal marito e dal fratello, e tutti quanti restano contenti e consolati»23. Da notare, in questo caso, la funzione salvifica della spiaggia e del marinaio: salvifica perché la terra, rifugio sicuro, allontana Penta dai pericoli del mare. Nel trattenimento settimo della giornata quarta, intitolato Le due pizzelle24, la protagonista Marziella viene gettata a mare dalla zia, invidiosa della sua fortuna. Qui una sirena la tiene incatenata per molto tempo. Infine, liberata dal fratello, Marziella diventa regina, e «la zia paga la pena del suo errore»25. Ancora una dinamica ricorrente nel . «Iannuccio ha dalla prima mogliera due figli, si sposa una seconda volta e la matrigna li odia tanto che egli li porta in un bosco, dove si perdono divisi l’uno dall’altro; Nennillo diventa il caro cortigiano di un principe e Nennella, cadendo in mare, viene inghiottita da un pesce fatato e, gettata su uno scoglio, viene riconosciuta dal fratello ed è dal principe maritata ricca ricca»26. Il finale lieto giunge solo dopo le avventure del mare periglioso, sede di creature misteriose e fatate: ed è ancora una volta la terra, non il mare, che, attraverso lo scoglio provvidenziale, salva Nennella.
In Giambattista Marino il naufragio d’amore è associato alla navigazione pericolosa. Se guardiamo il pensiero politico napoletano nell’età barocca, ci accorgiamo che si alternano la metafora della bestialità e quella del mare: la prima rappresenta sempre il senso di estraneità della classe dominante nei confronti del popolo minuto, l’esigenza di segregare e distinguere (Foucault) il popolo civile dalla plebe; l’altra, il timore per una forza incontrollabile della natura.
Il mare come pericolo torna ancora nel Settecento: basti ricordare la canzone Michele ‘mma e la paura per turchi e barbareschi che vengono dal mare. A contrasto con le inquietanti metafore barocche e settecentesche, fra Otto e Novecento il mare si fa rasserenante, sentimentale nelle canzoni classiche napoletane, oppure melanconico e nostalgico come in Partono i bastimenti.
Un brevissimo riferimento alla pittura napoletana. Ritroviamo il mare in tre fasi storiche diverse: dalle nature morte del barocco, dai pesci di Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo al realismo documentario del Settecento e del primo Ottocento al vedutismo dell’Ottocento maturo. Gaspar Van Wittel riproduce «con una fedeltà documentaria in sei tele ad olio l’intero paesaggio portuale: moli, darsene, banchine, i castelli, le fortificazioni, le navi all’ormeggio, marinai, barcaioli, passeggeri, facchini, pescatori, viandanti, sfaccendati. Le due grandi tele di Antonio Joli, che fanno bella mostra di sé nel palazzo della prefettura di Napoli, nel documentare da terra e da mare la partenza di re Carlo III che nel 1759 abbandonava Napoli per ascendere al trono di Spagna, fotografano con precisione la ripartizione dello spazio portuale secondo le funzioni: il Castel dell’Ovo difende l’area da ponente, il forte Vigliena da levante. All’ombra della Reggia e del Maschio Angioino, il porto militare e l’arsenale occupano l’area che oggi corrisponde alla darsena Acton e al molo Beverello. Al di là del lungo molo intitolato a San Gennaro, sormontato dalla lanterna, scomparsi l’uno e l’altra negli anni Trenta del Novecento nella realizzazione del piazzale angioino e della stazione marittima, si apre il banchinamento riservato ai traffici commerciali»27. Altri e diversi scenari e stili nel vedutismo ottocentesco con Giacinto Gigante, la sua ricerca del “vero” come accentuazione lirica e del sentimento della luce e del colore.
Vorrei concludere questa scorribanda ritornando dove ero partito. Ancora alla Ortese. Al suo mare come “spaesamento”, ma in un senso diverso: non come proiezione della nevrosi metafisica dell’autrice, piuttosto come tentativo impossibile della fuga dalla realtà di una città difficile. Col risultato di non incontrare un rifugio tranquillo, sicuro, sereno. Ma, come alle origini e nella metafora barocca, solo e ancora una condizione ambigua e perturbante.









NOTE
* Si pubblica il testo di una conferenza svolta a Napoli all’Hotel Royal Continental il 3 novembre 2011 nell’ambito di un ciclo di lezioni dedicate a “Napoli e il Mediterraneo”, ideato e coordinato da Giuseppe Galasso.^
1 G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli, 1602, vol. I, p. 36.^
2 A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994, p. 30.^
3 Ivi, p. 67.^
4 G. Galasso, Il Mezzogiorno e il mare, in AA.VV., La fabbrica delle navi. Storia della cantieristica nel Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Electa, 1990, p. 11.^
5 Ivi, p. 13.^
6 C. De Seta, Napoli, 1981, pp. 30-31.^
7 G. Galasso, Napoli e il mare, in AA.VV., Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari, Edizioni Dedalo, 1993, p. 31.^
8 C. De Seta, op. cit., p. 46.^
9 Ho usato questa categoria in diversi miei scritti per cui cfr. A. Musi, L’Italia dei viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2000; Idem, L’Europa moderna fra imperi e Stati, Milano, Guerini e Associati, 2006.^
10 Ivi, p. 135.^
11 E. Mazzetti, Mare, Napoli, Guida, 2006, p. 68.^
12 C. De Seta, op. cit., p. 175.^
13 E. Mazzetti, op. cit., p. 68.^
14 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976.^
15 Per quanto segue si veda A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli, ESI, 1996.^
16 Riportato in G. Galasso, Il Mezzogiorno e il mare, cit., p. 12.^
17 P. Frascani, Il mare, Bologna, il Mulino, 2008, p. 58.^
18 M. Serao, Castigo, Sesto San Giovanni, Barion, 1932, p. 322.^
19 E. Mazzetti, op. cit., p. 72.^
20 Ho tenuto come riferimento la terza edizione, Napoli, 1786.^
21 Cito da G. Basile, Il racconto dei racconti ovvero il trattenimento dei piccoli, traduzione di Ruggero Guarini, a cura di A. Burani e R. Guarini, Milano, Adelphi, 1994.^
22 Ivi, p. 52.^
23 Ivi, p. 295.^
24 Ivi, pp. 463 ss.^
25 Ibidem.^
26 Ivi, p. 575.^
27 E. Mazzetti, op. cit., pp. 68-69.^
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