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Persona e cosmopolitismo
di Emilio Renzi
1. Persona al tornante dei due secoli

I grandi numeri, le spinte forti e le forti paure che connotano il passaggio da fine Novecento a inizi Duemila mettono in discussione in forme nuove i fondamenti del soggetto umanisticamente inteso.
Il «soggetto» della grande filosofia moderna dall’Umanesimo allo storicismo ed esistenzialismo l’Ego, l’Io, l’individuo, la persona insomma si è perduto nel secondo Novecento tra voluto antiumanismo, nichilismo e focalizzazioni settoriali. È pur vero che «persona» nel Duemila non ha più a che fare con la torsione operata dal drammatico rapporto con dittature e Stati totalitari. Nell’ora presente l’incontro e l’attrito, lo scambio e le reazioni fobiche, sono infatti con altre persone altre culture altre religioni altri stili di vita ossia con la globalizzazione e il suo corteggio di esaltazioni e paure. La globalizzazione è stata e resta il vaso di Pandora con cui il Novecento si è congedato da se stesso e il Duemila si è presentato alla nuova ribalta. Esiste una epica della globalizzazione così come esiste una sua damnatio.
Su scala mondiale la perturbazione delle idee e dei comportamenti, dei giudizi e dei conflitti è permanente. Non vi è univocità di definizioni e di indirizzi.
«Per messaggi radio e luminosi – ci ricorda Peter Sloterdijik – la terra si è ridotta quasi a un punto fermo». Aggiunge: «il mondo sincronico, sulla ragnatela che ha ridotto il mondo a un punto […]. Se si pensa a quei logori diciotto che sopravvissero a Magellano», tra cui il primo narratore della globalizzazione, il vicentino Antonio Pigafetta1.
Il nuovo secolo è dunque a un tempo tanto esteso quanto puntiforme: esteso quanto può esserlo un punto, puntiforme quanto può essere il punto di una rete che si estende per il lungo e il largo dell’intero mondo. Rete vale qui tanto nel significato metaforico quanto nell’accezione tecnologica: Internet (che viene, è bene non dimenticarlo, dalla dismissione di Arpanet, la rete di collegamenti militari USA negli anni della Terza guerra mondiale o Guerra Fredda).
Che cosa è successo pur dopo la fine tra il 1989 e il 1991 del totalitarismo dell’Est, per cui la comprensione del nostro tempo ci è diventata così difficile? L’Occidente si è esteso sino ai confini del mondo? o ha diluito il suo originario vigore nella globalizzazione? la globalizzazione ha pervaso tutto e tutti? è essa oggi l’unità di misura unica e vera?
In effetti i numeri sono enormi. Molti confini ha abbattuto la globalizzazione, molti ne ha edificati. Dati per finiti, giudicati atavici. Molte categorie ha obbligato a ripensare. Sono processi iniziati più o meno con gli anni Ottanta del secolo scorso2. Tuttora in atto, non hanno ancora ricevuto una sistematizzazione storico-teorica, ché anzi la violenza fondamentalista dell’11 settembre 2001 inferta agli Stati Uniti e in seguito a Madrid e a Londra, la crisi economica mondiale latente dal 2007, patente nel 2008, esplosa nel 2009, le stragi di giovani a Oslo e nell’isola di Utoeya per mano di un razzista norvegese, hanno tinto di sangue i termini di ogni problema3.
La persona si è trovata proiettata su una scena apparentemente sterminata (senza termini – limes – spaziali e temporali) nell’universo mondo e per ciò stesso angosciata dalla pochezza propria tra tanti individui e individui-massa. Ma anche dalla fragilità delle istituzioni e delle strutture, politiche e sociali, che lo avevano accompagnato e protetto dal secondo dopoguerra (in certi casi sin troppo oculatamente).
Un chiarimento dell’idea di uomo ci viene dalla rivendicazione ex contrario della nozione di persona operata da Paul Ricoeur. La persona ha scritto
è il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali […] difesa dei diritti dell’uomo, negli altri paesi, dei diritti dei prigionieri e dei detenuti nel nostro paese, i difficili casi di coscienza posti dalla legislazione di estradizione4.

Quando completiamo la lettura del passo di Ricoeur: «altri paesi», «legislazione di estradizione» comprendiamo di essere entrati nella contemporaneità più beante. Sentiamo che stiamo muovendoci in un’età nuova: la globalizzazione. Il Duemila o Terzo Millennio. Nuovi problemi e al tempo stesso la saturazione del Novecento ma anche la sua maturazione critica: il rovesciamento delle violenze, soprusi e stragi del primo Novecento in quella temperie concreta che è chiamata «età dei diritti», nella formulazione fatta entrare in circuito da Bobbio e Cassese5.



2. Persona e diritti

I «diritti umani»: innalzati a legge universale, declinati in leggi sovranazionali, implementati in maggiore o minor misura tramite leggi, statuti, regolamenti locali. Alla svolta storica della fine della seconda Guerra mondiale e in connessione con la fine dei totalitarismi di destra le rivendicazioni di libertà, autonomia e centralità della persona riemergono in una configurazione in cui filosofia ed etica si intrecciano con il diritto naturale, il diritto internazionale, il diritto positivo degli Stati che volenti o nolenti si riconoscono in esso. «Età dei diritti» come nuovo ordine mondiale in quanto risposta anche agli aggressivi assalti di «nuovo ordine mondiale» dei totalitarismi. E dopo il 1989-’91 anche nell’Europa dell’Est e in Eurasia, tra le rovine e i monumenti di quello che fu l’Impero russo-sovietico.
La persona si risolve quindi nella sua elevazione a diritto universale e si esprime nelle concrete elaborazioni delle strutture e dei meccanismi di difesa organica del diritto/diritti. Infatti la persona è avviluppata nelle contrapposizioni fra individuo e culture, cultura e culture, mercato mondiale e Stato (già) nazionale. E in una più sottile, insidiosa piega, conseguenza della divaricazione della «costola» ribelle: il pensiero femminista. Il «pensiero della differenza». Con icastica brevità, potremmo dire, «mai più invidia del pene»: il genere è valore non carenza.
Assumono perciò grande rilievo le strutture istituzionali. La scena è il mondo intero: si può parlare di «Europa in espansione». A sua volta il baricentro della scena-mondo si assesta sulle due rive dell’Atlantico. Il culmine e al tempo stesso il punto di ricominciamento di una nuova stagione della storia è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, emanata il 10 dicembre del 1948 dalle Nazioni Unite, letta alla tribuna in Parigi da Eleanor Roosevelt: un omaggio all’uomo che aveva saputo portare il suo popolo in guerra per il contrattacco verso la libertà. A essa posero mano molte personalità, a loro volta rappresentanti di più poteri politici e di molteplici correnti culturali.
Se il termine «persona» appare esser soppiantato dal sostantivo inglese man (o dal francese homme), non è solo per l’egemonia che la cultura anglosassone e il potere industriale-militare statunitense assumono con la liquidazione sul campo dei totalitarismi di destra, la dissoluzione culturale del nazionalismo comunque inteso, l’arroccamento del totalitarismo di sinistra o comunismo russocentrico. Si dice human rights perché questa è la tradizione giuridico-politica inglese-americana, raddoppiata da quella francese è a dire la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789. Non è però solo una questione lessicale, vi è anche come vedremo uno slittamento semantico non irrilevante, se Olympe de Gouges all’Assemblea Costituente nel 1791 espose la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. La sua coerenza riformatrice prossima ai girondini le costerà la testa sulla ghigliottina robespierriana6. E se nel mondo anglosassone A Vindication of the Rights of Woman (1792) di Mary Wollstonecraft «contese a The Rights of Man di Tom Paine la palma di libro più venduto e letto»7. Sconfitte nei rispettivi tempi brevi, le loro idee e stili di esposizione riemersero un secolo dopo e oggi nel non terminato sviluppo dei diritti delle donne e della parità di generi.
Sullo sfondo storico-politico della costruzione di una teoria e delle pratiche dei diritti delle persone vi sono non solo le politiche di aggressione e conquista della Germania di Hitler culminate nella Shoah ma anche i «processi di Mosca» e i milioni di donne e uomini mandati a morte da Stalin tra Ucraina e Siberia per annientamento ideologico. La Dichiarazione delle Nazioni Unite dell’1 gennaio 1942 è preceduta dalla Carta Atlantica di Roosevelt e Churchill (13 agosto 1941), a sua volta impostata dalle «quattro libertà» di Roosevelt: le due libertà «di» (parola, preghiera) e «da» (bisogno, paura). Sullo sfondo storico-filosofico, è appena il caso di ricordare che «il punto di vista dominante agli inizi della Rivoluzione francese è l’uomo, valore primario, fine principale, passione d’agire per il bene dell’umanità»8.
Tra le personalità che svilupparono in libri, lettere e incontri la tematica che avrebbe portato nel corso del 1945 alla Carta delle Nazioni Unite, spiccano i socialisti Herbert G. Wells e Jan Masaryk, il protoeuropeista Salvador de Madariaga, il sionista Chaim Weizmann, il laburista Clement Attlee. Si dice questo per sottolineare una comune aura laico-razionalistica. E al tempo stesso si forma una koiné culturalmente pragmatica e non ideologico-metafisica: a introdurre la raccolta delle risposte a un questionario inviato dal neocostituito UNESCO sulle definizioni ed estensioni dei diritti politici, economici e sociali, è il cattolico personalista Jacques Maritain. Nei mesi tra le ultime vittorie dell’Asse e le loro prime e definitive sconfitte ossia tra l’estate del 1942 e la primavera del 1943, Maritain aveva scritto a New York un libro breve e denso che si chiudeva con la declinazione dei «diritti della persona»: i diritti della persona umana, i diritti della persona civica, i diritti della persona sociale, «più particolarmente della persona operaia in quanto imposta dalla presa di coscienza della dignità del lavoro»9.
Maritain è tra i numerosi, anzi prevalenti, sostenitori della genesi diretta della formulazione dei diritti dell’uomo dai diritti del giusnaturalismo. I diritti sono innati: il soggetto umano è ipso facto soggetto di diritto/diritti, originari e perciò stesso inalienabili. Il realismo di un Bobbio e lo storicismo di un Croce faranno valere, ciascuno a modo proprio, l’argomento per cui il giusnaturalismo ha anch’esso una storia ossia nasce in un periodo storico, quale risultante di eventi e controspinte storicamente date e accertate. Locke a sua volta è figlio del suo tempo e via declinando, i diritti naturali sono quindi a lucidamente vedere diritti storici.
È per così dire in parallelo che nell’America di Roosevelt il giurista Raphael Lemkin, di origine polacca, lavora studiando lo sterminio degli armeni a definire il crimine di «genocidio». Ne deriverà la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, che sarà approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il giorno prima della Dichiarazione universale. A esser fonte di diritto internazionale non è più solo la singola persona, è il gruppo: nazionale, etnico, razziale o religioso.
A proposito di latitudine (meglio: mancata latitudine) dell’universalismo, la sintesi di Habermas è efficace:
Operai, donne, ebrei, zingari, omosessuali e profughi politici furono riconosciuti come persone (Menschen) – aventi diritto a effettiva ‘parità di trattamento’ – solo al termine di dure lotte politiche10.

Se pragmaticamente, come faceva notare Maritain, non è necessario contrapporre in maniera dogmatica diritti naturali e diritti da legislazioni storiche, internazionalismo e statualità, apriorismi e divenire ben temperato, resta che la valorizzazione della libertà del singolo e del gruppo non può comunque esser affidata all’opera di un singolo Stato o raggruppamenti di Stati.
Per questo Kant introdusse lo jus cosmopoliticum. Sintetizza Bobbio:
Dei tre articoli definitivi dell’immaginario trattato per una pace perpetua, il primo, per cui la costituzione di ogni Stato deve essere repubblicana, appartiene al diritto pubblico interno, il secondo, per cui il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati, appartiene al diritto pubblico esterno […] il terzo articolo suona così: «Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità»11.

L’insieme delle relazioni fra Stato e cittadini di uno o altri Stati non può che implicare il dovere di ospitalità ovvero il diritto di uno straniero («l’Altro») a non esser trattato ostilmente. È un diritto non un dovere ossia non ha che fare con la filantropia. Inutile parafrasare Kant:
Il diritto di visita spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società universale in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere12.

Vent’anni dopo la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Jeanne Hersch, allora alla guida della Divisione di filosofia dell’UNESCO che era diretto da René Maheu, lei filosofa già allieva di Karl Jaspers, prese l’iniziativa di richiedere a tutti i paesi membri dell’ONU testi anteriori al 1948 «di qualunque forma espressiva […] in cui si manifestasse un senso per i diritti degli essere umani». L’obiettivo di dimostrare che i diritti umani non erano solo un concetto puramente occidentale fu raggiunto, perché i testi giunsero da ogni parte del mondo e da ogni tempo, in una grande varietà di forme: iscrizioni su pietra e trattati filosofici, proverbi, canzoni e canoni giuridici. Dalla vastità e pur attraverso la diversità delle forme la Hersch ricava la conferma della fondatezza di «universalità»; ma ciò che le preme (e colpisce anche noi nonostante gli anni intercorsi) è questo:
Mi sono sempre meravigliata della lucidità dell’Assemblea internazionale che ha aggiunto le parole «in dignità e diritti».

Gli uomini e le donne (le persone), se sono libere, è perché lo sono
non a livello della realtà empirica, dei fatti oggettivi, ma al livello virtuale di ciò che essi possono e devono pretendere, vale a dire della loro libertà responsabile e di tutto ciò che le è dovuto13.

La Hersch non trascura di stigmatizzare ciò che chiama «angelismo» ossia la credenza che ogni uomo nasca buono: non è così. I diritti vanno attuati e questo implica fatica, contraddizioni, paradossi. Dignità chiama «rispetto» (Kant, Ricoeur) e riconoscimento, quindi è un concetto e una pratica a doppio movimento, doppia lettura. I diritti e la dignità della persona implicano che la «collettività» se ne occupi responsabilmente e concretamente. Anche la collettività (lo Stato… altri preferirebbe «comunità») ha esso pure dei diritti, «ma questi sono derivati da quelli della persona, e non l’inverso»14.
«Nel relativo e nel concreto», è un’altra importante precisazione della Hersch. Come dire: nella politica, nella storia. Ossia il problema e le soluzioni non sono astratte; non sono date una volta per sempre. Non si tratta di «norme» soltanto. Non vale più unicamente quello che fu il punto di approdo dell’Illuminismo della Rivoluzione francese: «Gli uomini valgono ciò che valgono i loro diritti»15.
Nota infatti Roberta De Monticelli che la posizione di Jeanne Hersch sui diritti non è puramente «kantiana» ossia risolta nell’etica formalistica assoluta; è piuttosto a metà tra diritto ed etica perché si fonda sull’assunto della «capacità della libertà» di ogni essere umano (persona). «Rispetto», è alla libertà che lo si deve. È per questo che la norma va declinata in norme; l’efficacia giuridica del diritto dei diritti, in convenzioni da far ratificare agli Stati, accendendo un processo che necessariamente dovrebbe (avrebbe dovuto!) sboccare in un sistema di verifica e sanzioni.
Il coronamento del discorso della persona come contraddistinta dalla inalienabilità dei diritti è «dignità» la parola-chiave che destò come abbiamo visto la «meraviglia» della Hersch. La risposta maggiormente fondata è quella di Kant ed è eloquente nell’odierno dibattito culturale:
Ogni uomo pretende legittimamente il rispetto dei suoi simili ed è reciprocamente obbligato allo stesso rispetto verso gli altri.
L’umanità stessa è una dignità, poiché infatti l’uomo non può essere usato da un altro (né da altri né da lui stesso) soltanto come mezzo, ma deve sempre essere usato al tempo stesso come scopo, e in ciò consiste appunto la sua dignità (la personalità) […]. L’uomo è obbligato a riconoscere dal punto di vista pratico la dignità dell’umanità in ogni altro uomo, e su di lui di conseguenza grava un dovere: quello del rispetto che si deve necessariamente mostrare nei riguardi di ogni altro uomo16.

«Ad onta – se così si può dire – della loro pluralità», è il commento di Ricoeur: due secoli e due guerre mondiali dopo, senza dimenticare (come si potrebbe?) la Shoah e gli altri stermini17.
Pluralità delle differenze, dei rapporti vicino/lontano, prossimo/antagonista. Nel presente e in quel presente che è stato: nella storia. E nella scrittura della storia: la storiografia. Il problema dell’Altro si duplica, rispecchiandosi, nella questione del riconoscimento18. Dell’Altro da parte mia, di me da parte dell’Altro. Riconoscimento di tutto ciò che una persona ha (o meglio è): la sua individualità, forgiata nell’ambiente circostante e nella storia dell’ambiente sociale. Espressa nelle sue proprie forme culturali. Dunque una individualità o identità non data una volta per sempre ma dinamico intreccio di relazioni.



3. Persona, cultura, culture

Plurime e cangianti sono le forme simboliche le cui rappresentazioni definiscono la cultura. Cultura si deve dunque anch’essa declinare al plurale. Ora una descrizione analitica di matrice e svolgimento etnografico ossia l’antropologia culturale quale che sia non esclude anzi forza una interpretazione infra- e inter-culturale.
Si sono sviluppate culture provenienti da storie altre, da teatri altri e lontani, dai contenuti non sempre o tutt’altro che collimanti. Le soluzioni sterminatrici del Novecento sono state sconfitte sul campo da armi armate con la filosofia liberaldemocratica, la mobilitazione laburista, l’indiscutibile superiorità della tecnologia frutto della libera ricerca scientifica. E dall’idea, sottostante e sovrastante, della persona come incomprimibile centro di libertà19. I problemi successivi sono o problemi di crescita e di redistribuzione o problemi di culture così unilaterali da ritenersi (e agire) come incarnazioni di una Fede che null’altro tollera fuori di sé: soprattutto non tollera le forme storiche e culturali della tolleranza e del pluralismo, così sfacciatamente «occidentali»20.
Ora la società occidentale nelle sue forme democratiche conosce da tempo la tolleranza. Il rispetto è stato declinato nelle declaratorie della «tolleranza»: idea filosofica che non appartiene solo a Voltaire. Che è anche critica a ogni censura e libertà di critica, pluralismo: delle idee, dei valori, delle proposte politiche. Da alcuni decenni rimodulato come multiculturalismo21.
Ora, il multiculturalismo da soluzione del problema è diventato parte del problema. Oggi esso è posto in questione. E non solo da governi più o meno alle prese con problemi la cui componente di accesso al lavoro o alla promozione sociale la crisi ha reso più difficilmente risolvibili.
Il multiculturalismo rischia di creare assai concrete situazioni a macchia l’olio, di giustapporre delle «cattive comunità». Qualcosa come delle città «a mosaico». Le cui «tessere» finiscono coll’essere irrelate: giustapposte, non comunicanti. Ognuna incline a riprodurre le posizioni di potere preesistenti nei paesi e nelle culture d’origine da parte di poteri locali eufemisticamente definibili come gruppi di potere «informali». Un atomismo sociale che senza tante spiegazioni deve esser dichiarato inaccettabile perché contrario non solo alle leggi ma anche al principio della norma morale del rispetto della persona.
Per contro l’integrazione non si realizza a colpi di decreti e regolamenti, stravolgendo la norma nel suo solo profilo di divieti, blocchi e nuovi muri. È faccenda di una lunga marcia di pedagogia e di sensibilità, di modelli partecipati e di attenzioni ben temperate. Il pluralismo culturale, se vorrà essere coerente con il profilo dei diritti e del rispetto, si fa e si farà sempre di più questione di interpretazioni di culture, di traduzioni di culture. «Traduzione» è termine meno tecnico di quanto si possa rilevare a prima lettura: Ricoeur ha definito la traduzione come una forma di «ospitalità»22. Parola importante, «ospitalità»: ci riporta al Kant che abbiamo visto, il Kant dello jus cosmopoliticum.
Allora le culture anche in quanto pratiche di sviluppi complessivi devono poter convivere in una modalità tale per cui il rispetto si concretizzi tramite la conoscenza reciproca, nel dialogo e nel relazionismo. È questa la proposta della interculturalità. Avanzata in Italia da Giangiorgio Gasparotto che l’ha convalidata con i suoi studi sulle culture orientali, da Giuseppe Cacciatore e da altri23. Non priva di attinenze con le ricerche sul campo e le conseguenti teorizzazioni di un Clifford Geertz24; per contro antitetica al comparativismo, classico nelle sue matrici etnografiche e tuttavia appannato a quanto sembra in tempi più recenti. L’interculturalità è una pratica dei rapporti tra le persone e le comunità, specialmente mediata dalla cultura. È evidente che in essa assume un ruolo importante la scuola pubblica. Nel mondo globalizzato il conflitto, confronto, incontro, scambio conoscitivo tra persone di culture diverse attrae problematiche così complesse da convocare anche un ripensamento dell’etica, in tutte le forme in cui essa si è espressa nella modernità e contemporaneità.
Convocato è ora anche un approccio culturale ed etico dal nome antico ma dal senso a ogni effetto attuale: cosmopolitismo.
Cosmopolitismo è l’antitesi di nazionalismo e localismo e monoculturalismo. È accoglienza ed è più che melting pot ossia è il melting pot realizzato tra le persone, nella persona stessa, nella comunità25. È il superamento delle barriere culturali e politiche; è la preferenza accordata alla «comunità della ragione».
Nel già Impero comunista «cosmopolita» era parola che condannava. Ricorda la slavista Serena Vitale, che studiò a Mosca:
La Quinta Sezione del KGB, quella «ideologica», aveva deciso di liberarsi per sempre di «cosmopoliti» e «propagandisti del sionismo» lasciandoli partire alla volta di Israele26.

Il «punto di vista cosmopolitico» era il criterio invocato da Kant per tentare una storia filosofica di «ciò che popoli e governi hanno fatto di buono o di cattivo», nelle ere più antiche. È «il fardello di storia che noi vorremmo lasciar loro dopo qualche secolo»27.
Già Mazzini, nel primo Ottocento e in piena Restaurazione: «la fratellanza dei popoli e lo spirito di cosmopolitismo: perché i popoli possano procedere uniti nella via del perfezionamento comune, è necessario che essi camminino sulla base dell’eguaglianza». E, sappiamo, sul piano dei «doveri»28.
Oggi – ha scritto Fulvio Papi cosmopolitismo è «la circolazione delle differenze»29.
Del resto «persona» nasce cosmopolitica. La storiografia genealogica di «persona» ne stabilisce l’origine nelle discussioni teologiche sulla Trinità di Dio e in Sant’Agostino, a loro volta originate dal diritto romano e dall’etimologia: per/sonum, maschera indossata dagli attori per dar pienezza alla voce e inequivocità all’espressione. Ossia completezza al personaggio o «parte» o ruolo in contrasto con gli altri. Dunque, identità all’identità. Siamo all’incrocio tra romanità in espansione verso l’Impero e filosofia greca avviata al cosmopolitismo ellenistico.
Già la risposta di Diogene Cinico (412-323 a. C.), a chi gli chiedeva di dove fosse, era stata «cosmopolita»; l’analoga è attribuita a Socrate da Cicerone nelle Tusculane.
«L’uomo misura di tutte le cose» di Protagora porta il giudizio sull’essere e sull’apparire dal piano del divino oltre la dimensione gnoseologico-teoretica al piano dei confronti nella vita associata nelle città e civiltà mediterranee ossia del «cosmo» allora noto30.
Si può sostenere che i Romani, avendo inventato il diritto privato, abbiano inventato la persona umana individuale, libera, con una vita interiore, un destino assolutamente individuale, irriducibile a quello di qualsiasi altro, in definitiva un ego. Il diritto romano è da questo punto di vista la fonte dell’umanesimo occidentale. Il cosmopolitismo dell’Occidente rende culturalmente universale la sua miglior cultura31.
Perché il mondo – la città – torni a essere ospitale in un mondo in cui la rete sembra sempre essere sul punto di slabbrarsi, sfrangiarsi e rompere, si può pensare che contenuti e fini possano esser riscoperti nella «città universale» di Giambattista Vico.
Vico pensa alla «città universale» quando riflette sulla filosofia delle idee di Platone. Città universale è il luogo in cui si celebra quel «diritto ideale eterno» ossia «idea o disegno della provvidenza» su cui successivamente si fondano «tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni»32. È dunque un’idea che è al tempo stesso modello e matrice. Modello di ogni declinazione successiva nei tempi della storia degli uomini, matrice in quanto principio «seminale»: seme cioè di germinazione, trasformazione, permanente correzione. Il rapporto tra idea e storia, modello e concrezione, è una relazione di «complanarità»: figure a configurazione diversa che agiscono sullo stesso piano, il piano della città dell’uomo nel mondo.
«Città cosmopolitica» vuol dire fondazione, riconoscimento ed efficienza di comunità capaci di comprendere e insegnare le «lingue» (le «culture», i «segni») del mondo reciprocamente. Città/mondo, dunque, in quanto «rappresenta» più mondi, li «ospita».
La globalizzazione è ora in fase critica e autocritica. Forme nuove di competizione economica (tendenzialmente, strategico-militare), si aprono tra gli Stati extraeuropei in crescita e un’Europa che è solo formalmente una «Unione» e meno che mai «comunitaria» nel senso profondo (e unico corretto) del termine. L’Occidente non riesce a far valere la sua ricchezza culturale, anche perché la ricerca tecno-scientifica è migrata da tempo e tutt’intera oltre Atlantico. L’Unione Europea nella sua capacità politica convergente è a dir poco in stato afasico. Bisogna inoltre registrare i limiti dell’ordine internazionale, sospeso tra caput mortuum o incompleta dissoluzione degli Stati-nazione, e mancata nascita di organismi sovranazionali effettuali ossia efficacemente funzionanti.
Nel nuovo secolo e, per quello che si può capire, nel futuro, è solo a scala sovranazionale che la persona – ogni persona al mondo, quale che sia la sua nazionalità, etnia, cultura, religione, status può raggiungere la pienezza dei suoi diritti/doveri. Paul Ricoeur: oggi, la libertà della singola persona e il suo benessere coincidono con il suo essere capable di vivere come «cittadino del mondo»33. La condizione di «capacità» significa reciproco riconoscimento di più punti di vista: ossia, idoneità da parte della società ad assicurare la pienezza dei diritti; possibilità da parte della persona di corrispondere con la pienezza dei doveri.
La comunità rivisitata allora come «comunità del lavoro e della inclusione culturale» si ridefinisce come quella «società aperta» in cui le persone si ritrovano e imparano (necessariamente attraverso contrasti e confronti culturali e comportamentali) a lavorare assieme e infine a convivere. Secondo libertà e secondo giustizia: dove libertà sono i diritti individuali, giustizia i diritti sociali.
Persona come libertà, perché è autonomia e autonomia a sua volta è universalità. Persona quindi è ognuno ed è tutti, nella storia che si fa tra conflitti e solidarietà. La persona si fonda sulle proprie condizioni intrinseche e interiori, la prima delle quali è l’«ego vitale», il soffio o respiro o eros che è tensione al mantenimento e superamento dell’esistenza verso una più piena e dignitosa esistenza nel rapporto con l’esistenza d’autrui.
Kant aveva legato la «sicurezza statale pubblica» a un «assetto cosmopolitico»; anzi, com’è noto, nella necessità di una costituzione civile perfetta («repubblicana») vedeva lo sbocco per la «pace perpetua». Elaborare filosoficamente la storia universale del mondo è possibile e anzi tale da promuovere lo scopo naturale; è un dover essere che è anche un volere, una prassi, una politica per il genere umano.
Persona è realtà particolarmente valida perché permette di stringere anima, soggetto, corpo, vivente (biologico) – etica e conoscenza – soprattutto etica non intellettualistica bensì fondata sul «giusto». La libertà si fonda sulla irriducibilità della persona a ogni valore (storia, biologia, progettualità ideologica, normatività dell’Assoluto) che non sia la persona stessa.
Persona implica il nascosto, il soggiacente, il «precategoriale» (direbbero Edmund Husserl, Enzo Paci). Maurice Merleau-Ponty disse: «il filosofo e la sua ombra».
Relazione come contrasto, come pluralità di riferimenti, e al tempo stesso come continuità. Ingmar Bergman:
Si può essere due persone del tutto diverse, eppure unite, allo stesso tempo. E che cosa succede allora di tutto quello che ci si propone di fare34?

Relazione con l’incarnarsi dell’anima, la sua corporeità. Relazione/relazioni con gli altri, singolarmente e nell’insieme. Ossia con la società. Persona insomma non come sostanza o sostanzialità comunque intesa; non come ipostasi; bensì la monade di Leibniz e la possibile intermonadologicità (che Paci tradusse e corresse in: intersoggettività)35. Non, si badi, come soggettività assoluta ossia appunto «irrelata» rispetto al corpo vivente, alla natura, alla società e alla storia. Persona come prima persona, corpo vivente in relazione36.
Torna la persona e torna in termini rinnovati rispetto alla sua concettualizzazione consegnata nei manuali di storia delle idee, di filosofia classica e novecentesca. La persona precede la statualità e in un mondo in tensione è essa che fonda la cittadinanza, non viceversa. Il suo primato universale la rende il fine da attuare nella dialettica storica tra forza (economia della globalizzazione) e diritto (etica dei diritti).







NOTE
1 P. Sloterdijik, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, trad. it. di B. Agnese, Roma, Carocci, 2002, p. 155. Si veda E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Milano, Baldini Castoldi, 2009, pp. 27-28.^
2 Per quello che valgono le date troppo precise la globalizzazione ha una data di nascita e financo un certificato di battesimo: J. Harold, Rambouillet, 15 novembre 1975. La globalizzazione dell’economia, Bologna, il Mulino, 1999.^
3 Si vedano nella vasta letteratura M. Carbone, Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001, Torino, Bollati Boringhieri, 2007 e S. Chiodo, Moire contemporanee, in «Materiali di Estetica», 2009, n. 15, pp. 221-233.^
4 Questa citazione tratta da P. Ricoeur, La persona, a cura di I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 26-27 (sottolineatura dello scrivente), chiudeva il mio saggio Persona e personalismi, ne «L’Acropoli», 12 (2011), pp. 210-230. Vale dunque a dire che questo saggio è la continuazione di quello. Di Ricoeur si veda ora La condizione di straniero, in «Vita e Pensiero», 2008, n. 5. Lo scritto era stato preparato da Ricoeur per la Commissione Hessel sugli stranieri fin dal 1996.^
5 N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990 e 1997; A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009; M. Flores, Storia dei diritti umani, Bologna, il Mulino, 2009. Sulla genesi: M.A. Glendon, A World Made New: Eleanor Roosevelt and the Universal Declaration of Human Rights, New York, Random House, 2001.^
6 O. de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, seguito da Prefazione per le signore o Ritratto delle donne. Postfazione di E. Gaulier, Genova, Il melangolo, 2007.^
7 M. Flores, Storia dei diritti umani, op. cit., p. 88.^
8 B. Groethuysen, Filosofia della Rivoluzione francese, preceduto da Montesquieu, trad. it. di G. Tarizzo, Milano, il Saggiatore, 1967, pp. 140-141.^
9 J. Maritain, Cristianesimo e democrazia. I diritti dell’uomo e la legge naturale, trad. it. di L. Frapiselli e di G. Usellini, Milano, Edizioni di Comunità, 1950, pag. 143.^
10 J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, (a cura di L. Ceppa), Milano, Feltrinelli, 2008, p. 222.^
11 N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. 150. Il riferimento è allo scritto di I. Kant, Per la pace perpetua (1795). Sottolineatura dello scrivente.^
12 Ivi, p. 151.^
13 J. Hersch, I diritti umani da un punto di vista filosofico, a cura di F. De Vecchi, pref. di R. De Monticelli, Milano, Bruno Mondadori, 2008, pp. 73-74. Il diritto di essere uomo. Raccolta di testi preparata sotto la direzione di Jeanne Hersch, Torino, SEI, 1969.^
14 Ivi, p. 88.^
15 B. Groethuysen, Filosofia della Rivoluzione francese, op. cit., p. 349.^
16 I. Kant, Metafisica dei costumi (1797), a cura di G. Landolfi Petrone, Milano, Bompiani, 2006.^
17 P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Milano, Jaka Book, 1993, p 369.^
18 P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, trad. it. di F. Polidori, Milano, Cortina, 2003.^
19 A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, il Mulino, 1997; R. Overy, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, tra. it. di N. Rainò, Bologna, il Mulino, 2002.^
20 F. Dallmayr, Il dialogo tra le culture. Metodo e protagonisti, a cura di M. Toti, Prefazione di G. Amato, Venezia, Marsilio, 2010 (ma 2002).^
21 F. Remotti, Le basi filosofiche del multiculturalismo, in Multiculturalismo. Ideologie e sfide, a cura di C. Galli, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 29-44.^
22 P. Ricoeur, Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, trad. it. di M. Oliva, Roma, Urbaniana University Press, 2008, su cui G. Cacciatore, Ricoeur: una filosofia critica della storia per il mondo contemporaneo, ne La «comprensione narrativa». Storia e narrazione in Paul Ricoeur, a cura di B. Maj e R. Lista, Macerata, Quodlibet, 2010.^
23 G. Cacciatore e G. D’Anna, Interculturalità: tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010; Interculturalità. Religione e teologia politica, a cura di G. Cacciatore e R. Diana, Napoli, Alfredo Guida editore, 2010; C. Gianolla, Occidentalizzazione del mondo? Cosmopolitismo e interculturalità: le vie per un futuro possibile, Roma, Aracne, 2010.^
24 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it. di E. Bona e M. Santoro, Bologna, il Mulino, 1998.^
25 K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, trad. it. di S. Liberatore, Roma- Bari, GFL Laterza, 2007.^
26 S. Vitale, A Mosca, a Mosca, Milano, Mondadori, 2010, p. 73.^
27 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Roma-Bari, GFL Laterza, 2007, p. 43.^
28 G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa (1831), a cura di S. Mastellone, Milano, Feltrinelli, 2007, p 7.^
29 F. Papi, Voci dal tempo difficile, Como-Pavia, Ibis, 2008. p. 58.^
30 L. Scuccimarra, I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’antichità al Settecento, Bologna, il Mulino, 2006.^
31 Ph. Nemo, Che cos’è l’Occidente, trad. it. di D. Piana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 (ma 2004), su cui vedi F. Cozzetto, ne «L’Acropoli», 4 (2005), pp. 446-457.^
32 G. Vico, Autobiografia. Poesie. Scienza nuova, a cura di P. Soccio, Milano, Garzanti, 1983, p. 21.^
33 P. Ricoeur, Il giusto, a cura di D. Iannotta, Torino, SEI, 1998.^
34 I. Bergman, Persona (1967), in Sei film, a cura di G. Oreglia, Torino, Einaudi, 1979, p. 288.^
35 E. Paci, Il problema della monadologia da Leibniz a Husserl per una concezione scientifica e umana della società. Dispense a.a. 1975-1976, Milano, Cuem, 1978.^
36 Per un opposto punto di vista, cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, Einaudi, 2007. Per un approfondimento, V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, Pisa, Edizioni ETS, 2009.^
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