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Il repubblicanesimo ambivalente di Jean-Jacques Rousseau
di Maurizio Griffo
Il pensiero di Rousseau è stato oggetto di interpretazioni contrastanti e spesso contraddittorie. Lo scrittore ginevrino, infatti, è stato volta a volta letto come un autore democratico oppure totalitario, un cantore della partecipazione popolare ovvero un ispiratore della tirannide moderna. Tale controversa vicenda storiografica è in parte dovuta al carattere nevrile della sua riflessione, nutrita da una sensibilità finissima, capace di registrare sottili pulsioni emotive; fatto che accresce il fascino della sua scrittura ma che a volte nuoce al tono e alla logica dell’argomentazione. Pure, è indubbio che la sua opera sia organizzata attorno a un nucleo omogeneo di temi fondamentali che, nonostante non siano sempre svolti sistematicamente, hanno una indubbia coerenza. Per approfondire proficuamente il significato dell’opera di Rousseau tornano utili due libri italiani recenti che, per quanto scritti a partire da prospettive euristiche molti distanti fra loro, possono offrire un filo unitario per dipanare la trama della sua visione del mondo.
Distanti i due libri lo sono anzitutto nell’approccio analitico prescelto. Il primo (G. Silvestrini, Diritto naturale e volontà generale. Il contrattualismo repubblicano di Jean-Jacques Rousseau, Torino, Claudiana, 2010) si sforza di intendere il pensiero di Rousseau dall’interno, mettendo molta cura nel dimostrare la coerenza delle sue posizioni, anche quando per ellissi non vengono esplicitate. Il secondo (G. Bedeschi, Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, Firenze, Le Lettere, 2010), invece, si pone, per così dire, dall’esterno: tentando di cogliere l’unità effettiva del pensiero di Rousseau, anche al di là delle intenzioni dell’autore. Divergente è la linea interpretativa proposta. La Silvestrini riporta il pensiero di Rousseau alla tradizione del repubblicanesimo, mentre Bedeschi sottolinea il carattere antimoderno come il tratto distintivo della sua opera. Pure, nonostante quella che appare a prima vista una incompatibilità fra le due griglie di lettura proposte, è possibile integrarle proficuamente.
La Silvestrini sviluppa l’analisi a partire da una netta presa di posizione storiografica. A suo avviso, e al contrario di quanto sostenuto da autorevoli interpreti come Cassirer, negli scritti di Rousseau non ci sarebbe una pars destruens svolta nei due Discorsi e una pars construens costituita dall’Emilio e dal Contratto sociale. Invece, il pensiero rousseauiano avrebbe un carattere unitario; un’unità determinata proprio dall’ispirazione repubblicana (intesa anzitutto come governo delle leggi) che lo contraddistingue. Per rintracciare tale identità repubblicana l’autrice incrocia diverse piste che si intersecano e si sovrappongono. Riprendendo un motivo messo in risalto nel 1950 da Robert Derathé nel suo libro su Rousseau e la scienza politica del suo tempo, la Silvestrini svolge un confronto con gli autori della scuola del diritto naturale, per mostrare come Rousseau radicalizzi in senso antiassolutistico e consensuale gli assunti contrattualistici del giusnaturalismo moderno. Su di un altro versante, ampliando e svolgendo motivi già messi a fuoco in sue indagini precedenti (Alle radici del pensiero di Rousseau: istituzioni e dibattito politico a Ginevra nella prima metà del Settecento, Milano, Angeli, 1993) l’autrice mostra come ci sia uno stretto legame tra l’elaborazione politica rousseauiana e la sua città natale. E questo non tanto perché il Contratto sociale sia stato scritto avendo in mente Ginevra, quanto perché universalizza il modello ginevrino proponendolo come «esempio per l’Europa» (p. 266).
Quest’ascendenza repubblicana si rivela nell’architettura dei poteri da lui auspicata, non solo nella distinzione tra sovranità e governo, ma soprattutto, nella «subordinazione del potere esecutivo al potere legislativo» (p. 45), ovvero, nel fatto che Rousseau sottolinea costantemente come ai governanti o magistrati spetti la «funzione di esecutori e non di creatori di leggi» (p. 82). Un’intonazione repubblicana, o antiassolutistica, ha anche una delle affermazioni più controverse del Contratto sociale, la circostanza per cui al momento della fondazione del patto ciascuno deve alienare tutti i suoi diritti alla comunità. A parere della Silvestrini tale disposizione si spiega con il desiderio di trovare «una risposta coerente al problema politico fondamentale di un autore ”repubblicano”, ossia l’individuazione dei mezzi per prevenire l’usurpazione del governo» (p. 263). Senza dubbio il patto sociale è immaginato da Rousseau come un accordo egualizzante, che deve superare disparità preesistenti, come privilegi di nascita o retaggi ereditari. Da qui la necessità che ogni sottoscrittore provveda ad alienare del tutto la propria sovranità. Si tratta di un modo per rendere ciascuno partecipe del nuovo patto su di una base uguale, rimuovendo differenze pregresse.
Tuttavia, questa egualizzazione, operata grazie alla alienazione totale dei diritti, non costituisce una fondazione garantista del patto. La Silvestrini non manca di rilevare che Rousseau «non ha pensato a una costituzionalizzazione dei diritti individuali»; a suo parere, però, una simile mancanza non è decisiva perché i diritti non sono minacciati dall’essere a disposizione «di fronte al giudizio superiore del sovrano», in quanto «inscindibilmente iscritti nel momento fondativo della società politica, la cui finalità è quella di tutelarli» (p. 118). Tale ragionamento appare basato su di una petizione di principio perché, anche ammesso che i diritti siano coesistenti al patto, non vengono spiegati i mezzi con i quali si provvede alla loro tutela nella fase successiva, nella quale il patto comincia ad operare. In sostanza il repubblicanesimo di Rousseau non sfocia in un coerente costituzionalismo, circostanza che l’autrice tende a minimizzare, accostando il suo pensiero, a quello di autori di ben diversa intonazione come Locke e Montesquieu. Non casualmente, se molto spazio viene dedicato alla nozione di ‘volontà generale’, di cui si segue con cura l’elaborazione a partire dalla prima comparsa nella voce Economia politica, pubblicata nel 1755, fino alle più mature formulazioni successive, scarsissima attenzione è riservata alla nozione di virtù, che agli occhi di Rousseau è un indicatore essenziale per apprezzare lo stato di salute di un organismo politico.
Tale sottovalutazione risulta ancora più significativa perché un altro aspetto strettamente connesso al tema della virtù civica, per quanto più volte richiamato in modo incidentale, non assume la centralità che meriterebbe. L’autrice non manca di ricordare che lo scrittore ginevrino non accetta la teoria del ciclo delle forme di governo, tipica della concezione politica classica. Per Rousseau, invece, i regimi politici seguono un’evoluzione lineare ma di segno negativo. Esiste, infatti, una «tendenza naturale del governo a degenerare», e questo prima o poi «conduce alla morte del corpo politico» (p. 279). L’unica eccezione è quella di Sparta dove l’entropia immanente a tutti i governi politici era contrastata in modo efficace con una pervasiva pedagogia sociale.
Dalla concezione rousseauiana dell’ottimo governo discende poi un’altra conseguenza di non poco momento: una sostanziale ripulsa per il commercio, gli scambi, e in generale per la moderna attività economica. Anche questo aspetto è puntualmente registrato dalla Silvestrini che non manca di osservare che se la critica al lusso era consueta nel clero e nella classe media ginevrina, ma solo in Rousseau questo motivo diventa «una condanna della moderna società commerciale» (p. 267). Pure, da tale constatazione non si ricavano conseguenze particolari rispetto alla caratterizzazione del repubblicanesimo di Rousseau.
Proprio questi aspetti che la Silvestrini trascura o minimizza sono al centro dell’analisi svolta nell’altro libro di cui ci occupiamo. Anche Bedeschi parte da una considerazione storiografica. Gli autori da cui la sua disamina prende le mosse sono dei critici liberali del pensiero di Rousseau come Lester Crocker e Sergio Cotta. In tal senso il libro si riallaccia alla critica del pensiero rousseauiano svolta da Benjamin Constant all’indomani della rivoluzione francese. La sottolineatura di questo aspetto è assai pronunciata, come quando si ricorda che nell’ideale politico di Rousseau non è prevista «una larga e ben definita sfera privata dalla quale è esclusa l’autorità politica»; al contrario «la “formazione” del cittadino da parte del potere politico deve essere costante e deve investire tutti gli aspetti della sua vita», in questo senso «tutta la società è una grande arena di educazione politica» (pp. 23-24). Tuttavia l’angolazione interpretativa scelta da Bedeschi non si limita a proporre una nuova lettura dei caratteri illiberali del pensiero di Rousseau, ma mira a definire la sua visione complessiva dei rapporti sociali. Quella che Bedeschi definisce la «ispirazione profondamente anti-individualistica» (p. 74), infatti, detta i modi e tempi della riflessione rousseauiana anche su altri versanti dell’attività umana.
Rousseau è convinto che il libero dispiegarsi delle inclinazioni del singolo sia tendenzialmente pericoloso. Ai suoi occhi la crescita del commercio, l’intensificazione degli scambi, l’urbanesimo, la diversificazione delle attività umane scatenano la bramosia per il lusso e gli agi, facendo così peggiorare il tessuto connettivo della vita civile e minando la stabilità e la qualità dei regimi politici. Occorre, invece, incrementare la virtù, cioè «la dedizione del cittadino alla comunità di cui fa parte» (p. 34). Per mantenere in buona salute il corpo politico bisogna che i cittadini si dedichino «all’agricoltura e non alle industrie», è necessario, inoltre, «limitare al minimo gli scambi e farli il più possibile in natura, sopprimere dovunque commercio e finanza, rendere inutile il denaro» (p. 160-161). Al fine di raggiungere tali obiettivi, Rousseau ritiene legittime anche misure fortemente limitatrici (se non coercitive) della libertà di movimento o di scelta individuale, come l’obbligo di risiedere in un determinato territorio pena la perdita della cittadinanza o la vigilanza delle autorità sui consumi. Soprattutto negli scritti che più da vicino disegnano possibili soluzioni pratiche (come le Considerazioni sul governo di Polonia e il Progetto di costituzione per la Corsica) spesseggiano disposizioni di questo tipo, disegnando un universo politico pensato per formare cittadini virtuosi ma nel quale si guarda con diffidenza chi vuole sviluppare la propria vocazione individuale. Però, questa torsione comunitaria non fa di Rousseau un pensatore reazionario tout court.
Commentando alcune proposte relative alla Polonia, dove lo scrittore ginevrino auspica per ogni cittadino una conoscenza approfondita della storia e delle tradizioni patrie, Bedeschi rileva un’ambivalenza. Il programma educativo da lui tracciato «per un verso ne fa il fondatore della moderna idea democratica di nazione», una nazione non «costituita solo da caste e ceti privilegiati, bensì costituita da tutti i cittadini, nessuno escluso, titolari degli stessi diritti e degli stessi doveri». Ma da un altro punto di vista troviamo anche prescrizioni che prefigurano «il moderno nazionalismo, con le sue chiusure e il suo esclusivismo», soprattutto con l’eccessiva enfasi posta «sull’educazione nazionale che deve entrare in tutti i pori della società e negli angoli più riposti della vita degli individui», mostrando una decisa «intolleranza per tutti quegli aspetti della vita civile e culturale che sfuggano al controllo quotidiano dei guardiani della nazione» (pp. 158-159).
Questa ambivalenza non è occasionale, al contrario essa è forse la cifra più autentica del pensiero di Rousseau. Nutrito da una forte passione antiassolutistica, avversario convinto del principio ereditario, Rousseau non ha però fiducia nel progresso e guarda con sospetto alla società commerciale. Così, la sua città ideale, dove si addita con passione la libertà degli antichi, finisce col mortificare alcune delle condizioni che rendono possibile la libertà dei moderni.
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