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Cina, Cristoforo Colombo e altro
di Giuseppe Galasso
Povero Colombo! Di rado si è vista tanto negata una gloria storica apparsa per secoli indiscutibile.
Dapprima, per il nome delle terre da lui scoperte, gli si era preferito Amerigo Vespucci, che si trovò così investito di una gloria alla quale certamente non aveva aspirato. Ne promana, tuttavia, un insegnamento storico di grande importanza: non basta fare le cose perché esse rimangano legate al nome di chi le fa; occorre che le cose siano denominate come epocali e nuove nel momento in cui l’opinione collettiva è più preparata a raccoglierne il senso. Si sa che la prima fama di Colombo fu quella di avere scoperto una nuova via delle Indie; che ci volle un po’ di tempo per capire che non si trattava di una nuova via, bensì di un Nuovo Mondo; e che le carte di Vespucci (scomparso nel 1512) caddero nel momento giusto perché fosse generalmente e definitivamente adottata l’idea del cartografo tedesco Martin Waldseemüller di denominare come Terra Americi il Nuovo Mondo scoperto da Colombo (scomparso nel 1506). A Colombo toccò, quindi, solo di dare il nome al Distretto Federale degli Stati Uniti in cui è posta Washington, a un paese dell’America meridionale qual è la Colombia di cui si parla oggi molto più di un tempo, e a varie, città isole o territori, nonché a molte scuole, università e istituti di vario genere: che non è poco, ma che certamente è alquanto di meno di quanto gli spetterebbe per la sua memorabile impresa del 1492.
In seguito, si contestò a Colombo la patria genovese, che fu ritenuta indiscutibile fino a quando non lo si disse spagnolo, portoghese, ebreo e non si sa che altro, ma senza che questo modo estremamente significativo di riconoscerne la gloria valesse a consolidarne la posizione storica. Alla fine, infatti, gli si è addirittura contestato di essere stato il primo scopritore di quelle terre. L’America, si è detto, l’avevano per primi scoperta i Vichinghi. Oppure un pilota segreto che aveva già effettuato il viaggio del 1492 e che Colombo avrebbe avuto al suo fianco, guida sicura a una meta già fissata. E se ne sono dette anche altre. Ad esempio (si veda il libro di un appassionato scrittore di tali questioni: Ruggero Marino, Cristoforo Colombo. L’ultimo dei Templari, ed Sperling e Kupfer, Milano 2005) che Colombo era già nel 1485 approdato nel mondo che di là forse ci aspetta, come, all’incirca due secoli e mezzo prima, con la intensa suggestione della sua fantasia di grande poeta aveva immaginato Francesco Petrarca. Nel 1492 – sulla scorta di precedenti e addirittura numerosi viaggi e carte della più varia appartenenza, nonché in connessione con gli immancabili Templari – vi sarebbe semplicemente ritornato. A questo scopo egli sarebbe stato finanziato quasi per intero dal papa Innocenzo VIII, suo padre naturale e, però, anch’egli genovese, e da Lorenzo il Magnifico. Entrambi scomparvero nella tarda estate del 1492, e quindi non a tempo per rivendicare la paternità della promozione dell’impresa, usurpata perciò dalla Corona castigliana, che allora cingeva Isabella, la sposa di Ferdinando d’Aragona, insignita, insieme con il marito, del titolo di Re Cattolici per la conquista, in quello stesso fatale 1492, di Granada, ultimo lembo di terra spagnola in mano ai Mori musulmani (e il fatto che a Innocenzo VIII succedesse un papa spagnolo, il fin troppo famoso Alessandro VI Borgia, suddito di Ferdinando, avrebbe agevolato l’usurpazione castigliana).
Ciò che di recente si è letto è, tuttavia, ben più clamoroso di quanto era stato detto finora. L’America – si è detto – l’hanno, in effetti, scoperta i Cinesi alcuni decennii prima di Colombo, con un grande viaggio partito dalla Cina per giungere allo Stretto di Magellano, costeggiare le Americhe fino allo Stretto di Bering, e di lì tornare al punto di partenza. È, quindi, alla Cina che va riconosciuto questo primato storico.
Che dire? Chi vuol esser lieto, sia, cantava il sopra menzionato Lorenzo il Magnifico con la sua vena esile, ma autentica di poeta del Rinascimento. In ogni caso, se si dice di nutrire al riguardo il più vivo scetticismo, si dice ancora assai poco. Di imprese attestate solo da carte posteriori che si rifanno a presunte carte anteriori sono piene le cronache della inattendibilità storica. È su questa base che si è attribuita la scoperta ai Vichinghi e la si attribuisce ora ai Cinesi. Sta, però, il fatto che, per la scoperta della quale a nostro avviso la paternità colombiana del genovese di nome Colombo è indubbia, il problema, comunque, non sta né nella effettiva patria di Colombo, né in chi per primo abbia avvistato le terre del Nuovo Mondo. Chiunque avesse per caso scoperto l’America prima di Colombo (ed è difficile crederlo, molto più difficile di quanto gli instancabili cercatori o inventori di novità storiche possano supporre) è come se avesse lavorato per nulla. Solo, infatti, dalla scoperta di Colombo in poi, e grazie a tale scoperta, l’America è entrata nel circuito della storia mondiale. Eventuali scoperte anteriori non hanno avuto neppure alla lontana un tale effetto. È come se non fossero mai avvenute. Si sia ragionevoli. Non tutto ciò che accade è storicamente rilevante o della stessa dimensione storica. Per l’America solo nel caso di Colombo rilevanza e dimensione sussistono appieno. Stiamoci, dunque, a questa coincidenza. Anche questo è un fatto, e per di più assolutamente macroscopico.
E che dire di un altro aspetto della questione, sul piano storico assolutamente non meno importante della priorità colombiana (per esprimerci così) di diritto, ove si volesse negare quella di fatto? Ci riferiamo alla base scientifica sul cui studio e sulla cui definizione il viaggio di Colombo venne concepito e realizzato. Non fu, infatti, un viaggio come quelli che fino ad allora erano stati consueti nella tradizione delle scoperte geografiche. La logica di queste scoperte era stata fino ad allora quella – si potrebbe dire con un motto molto calzante – di andare a vedere che cosa vi fosse dietro l’angolo: seguendo il corso di un fiume, scalando una montagna o una collina, costeggiando il mare o un lago, allungando il corso della navigazione di cabotaggio fino a spingersi verso l’ignoto, come di certo sarà capitato a molti che dalle isole e arcipelaghi del Pacifico si spinsero entro il Grande Oceano o dalle coste europee si spinsero verso l’Atlantico, o in qualsiasi altro modo. Il viaggio colombiano ebbe, invece, la sua genesi nella formulazione di un’ipotesi scientifica: si assumeva che la Terra fosse rotonda, e che, perciò, navigando dalle coste iberiche verso Occidente, si dovesse immancabilmente giungere nel desiderato Oriente, nelle Indie dei cui tesori tanto si favoleggiava. Buscar el Levante por el Poniente: la fortunata metafora che ne trasse origine esprime icasticamente l’ipotesi scientifica da cui Colombo mosse – in un tempo in cui la rotondità della Terra era tutt’altro che pacificamente ammessa – per accingersi all’impresa e per procurare ad essa i necessari sostegni dei potenti. E, se non altro, basterebbe questo a dare al viaggio colombiano del 1492 – perfino là dove si volesse prescindere dall’imprescindibile eco e conseguenze che, come abbiamo detto, la sua impresa ebbe per prima – il significato epocale ad esso riconosciuto nella tradizione europea, fino a quando un revisionismo senza freni non ha portato a pensare altrimenti, quasi sempre in contrasto con le più elementari esigenze di un’attendibile critica storica.
A rigor di termini non varrebbe, quindi, neppure la pena di intrattenersi sulla pretesa della paternità della scoperta colombiana avanzata in Cina. Non sarebbe, però, saggio. Si tratta, infatti, di una pretesa non tanto interessante in sé e per sé – da questo punto di vista può riuscire addirittura divertente – quanto per ciò che essa significa dal punto di vista del pensiero e dell’azione cinese di oggi. Come fare a meno di riconoscervi un segno di più di quel nazionalismo oltranzista che nella Cina di oggi sembra andarsi sempre più diffondendo? La rivendicazione di primati scientifici e tecnici e un genere dei più praticati e dei più facilmente riconoscibili nell’armamentario ideologicopolitico dei nazionalismi in effervescenza e in crescita, così come di quelli frustrati o declinanti. È appunto a questo titolo che le continue rivendicazioni cinesi di primati e di primogeniture storiche ci sembrano da seguire con attenzione, anche quando e se possono apparire ingenue, patetiche, incredibili, spudorate o altro. Ed è ugualmente allo stesso titolo che la pratica – a nostro avviso, crescente – di tali rivendicazioni richiama non solo al ruolo politico, bensì anche al ruolo economico che il grande paese asiatico ha assunto e va sempre più assumendo nel quadro mondiale. Si può dire, anzi, ancora di più. Si può dire, cioè, che al tempo del comunismo cinese in pieno fiore era la spinta politica a promuovere e a contrassegnare le aspirazioni di Pechino a un grande ruolo mondiale. Da quando, invece, dalla prassi e dall’ideologia comunista di quegli anni ci si è, più o meno tacitamente, allontanati è la spinta della conseguita affermazione economica a sollecitare Pechino al ruolo di potenza planetaria.
Paradossalmente, l’interesse europeo per le cose cinesi e le preoccupazioni affacciate al riguardo hanno calcato e calcano le orme di questa parabola cinese. Ci si è preoccupati a lungo soltanto della Cina come grande potenza politica. Ci si preoccupa ora della Cina come grande potenza economica. La politica non si è eclissata del tutto, ma, indubbiamente, è oggi l’economia a fungere da scenario dominante nel discorsi che riguardano la Cina.
L’allarme per una primazia economica mondiale dei paesi asiatici non è recente. Già nei primi anni ’90 si cominciò a parlare della marcia ineluttabile che i «sette samurai» (Cina, Giappone, Corea, Hong Kong, Thailandia, Singapore e Taiwan) avevano intrapreso, saldando la loro alluvionale crescita demografica con un fenomeno di sviluppo economico di quella stessa area ancora più rapido e cospicuo (si veda Giovanni Fodella, Fattore Org-ware. La sfida economica dell’Est-Asia, ed. Garzanti, Milano 1993). Allora – appena una quindicina di anni fa – la sola popolazione era più del doppio di quella europea. Le previsioni che furono allora avanzate sul piano economico erano fosche. Ci fu chi ricordò che «la quota delle esportazioni mondiali rappresentata dall’Est-Asia era del 9% nel 1950» ed era passata al 22% nel 1988; e si calcolò che, in ipotesi di ulteriore crescita che non apparivano né esagerate, né inverosimili, già nel 2005 «il Giappone [avrebbe superato] gli Stati Uniti in termini di Pnl» (prodotto nazionale lordo), e che nello stesso anno la Cina (con Taiwan, Hong Kong e Macao) avrebbe avuto «il Pnl più elevato del mondo, anche se relativamente modesto in termini pro capite». Nel successivo decennio 2005-2015 «il Pnl dell’intero Occidente [sarebbe stato] superato da quello dell’Est-Asia».
Tutte le altre previsioni possibili su questo piano andavano, più o meno, nello stesso senso, sicché i paesi dell’Asia orientale apparivano protesi in un’avanzata sempre più formidabile. Per il 2005 queste previsioni sono state, peraltro, largamente smentite. A tacer d’altro, il Giappone non ha affatto raggiunto gli Stati Uniti. Già allora comunque ci richiedeva pure quale fosse il segreto di una così rapida e imponente ascesa, e coloro che rispondevano al quesito le vedevano soprattutto nella superiorità orientale in fatto di orgware. Non solo l’hardware («abbondante disponibilità di risorse umane e materiali») e il software («tecnologia e capacità manageriale») decidono del destino di una struttura economica e sociale, bensì anche e più, un terzo «elemento impalpabile», l’orgware appunto. Esso è «l’insieme delle istituzioni, delle regole o norme che le definiscono, dei comportamenti concreti e delle relazioni e interazioni fra questi elementi»: un qualcosa di «onnipervasivo che determina il grado di efficienza dei gangli sociali che a loro volta permettono il funzionamento concreto del sistema economico»; un indice diretto «del livello di organizzazione strutturale di un determinato sistema economico».
Ad esempio, si diceva, «un’ampia evasione fiscale contribuisce a deprimere la qualità dell’orgware». Al contrario, «il fatto che ciascuno svolga in modo scrupoloso il compito che il suo ruolo sociale gli assegna contribuisce a un orgware di segno positivo». Questa condizione è notoriamente e fortemente presente da sempre nell’Asia Orientale, ma oggi più che mai, mentre gli altri due fattori dell’hardware e del software, come sopra definiti, vi hanno raggiunto anch’essi un alto livello. Ciò spiegherebbe la più felice sorte, ad esempio, del quasi disarmato Giappone di oggi rispetto a quello militarmente potentissimo degli anni Trenta, che «aveva un orgware di qualità elevata, ma gravi carenze in termini di risorse materiali e umane, di tecnologia disponibile e di capacità di farne uso e gestirla». E in fondo, si diceva, l’Asia estremo-orientale non fa che riprendere il posto che aveva nel mondo fino all’avvento della «rivoluzione industriale» in Occidente fra XVIII e XIX secolo.
C’era, naturalmente, da chiedersi se quest’ultimo giudizio storico fosse fondato. Soprattutto, però, era da chiedersi se l’orgware, come sopra definito, non rispondesse a una sorta di pregiudizio e, insieme, di convenzione favorevole rispetto alle grandi civiltà dell’Asia Orientale, che si concretava allora e continua a concretarsi oggi nell’individuazione di un fattore sui generis passibile di essere definito perfino razziale. Ma, comunque fosse di ciò, certo si aveva ragione quando si affermava «che il Giappone e le economie asiatiche di nuova industrializzazione non [fossero] un’anomalia, ma la punta di un iceberg ben più vasto di quanto non avessimo pensato».
Questa sfida, alla quale si sarebbero trovati esposti nel secolo XXI l’Europa e gli Stati Uniti, si poteva vincere, secondo alcuni, presupponendo «che si possa competere sul mercato internazionale soltanto sostituendo il libero scambio indiscriminato con un protezionismo differenziato, in funzione della qualità dell’orgware e del livello di reddito». La risposta non era affatto tanto sicura quanto era interessante l’interrogativo, ma il problema meritava già allora grande attenzione anche da parte di chi – come noi – credeva che il drago giallo fosse meno terribile di quanto appariva e che l’Occidente fosse più vitale di quanto non credevano e non credono coloro che da un secolo, a ogni pié sospinto, ne proclamano il tramonto.
L’allarme per l’Occidente continua, comunque a farsi sentire, come tutti sanno, e si è andato anzi intensificando. Con due varianti rispetto agli inizi degli anni ’90: in primo luogo, il pericolo di una concorrenza mortale non viene più ravvisato soltanto nell’Oriente giallo, perché ad esso si è aggiunta l’India, giustamente vista come soggetto di una crescita non meno impressionante; in secondo luogo, l’avanguardia dello sviluppo est-asiatico con la relativa minaccia alle posizioni dell’Occidente viene vista piuttosto nella Cina che nel Giappone.
Due varianti di primaria importanza che colgono con particolare chiarezza alcuni di coloro che si sono impegnati nel ricostruire la storia del passato millennio sullo scacchiere euro-asiatico prima e mondiale poi, come, da ultimo, Valerio Castronovo (Un passato che ritorna. L’Europa e la sfida dell’Asia, ed. Laterza, Roma-Bari, 2006).
Una lunga partita, con rincorse e sorpassi continui, afferma Castronovo. Alcuni secoli fa l’Oriente asiatico produceva più dell’Europa, che ne importava merci e beni essenziali per la sua economia e per il suo tenore e modo di vita. Poi la ruota della storia ha invertito il suo corso. L’Occidente è andato formidabilmente avanti, l’Oriente si è seduto, o ne ha dato l’impressione. Ne risulta, ovviamente, innanzitutto, la profonda trasformazione che tra l’800 e il ’900 ha fatto del Giappone una grande potenza economica. Talmente grande da essere sopravvissuto, come tale, alla devastante rovina della sua potenza politica
nel 1945 e da essere pervenuto, qualche decennio dopo, a costituire la seconda potenza dell’economia mondiale dopo gli USA. Ma ancora di più ne risultano, dopo quelli delle “piccole tigri asiatiche”, i grandi balzi in avanti, fra XX e XXI secolo, della Cina e dell’India, sulle quali e sulle cui prospettive Castronovo soprattutto si ferma.
Per il passato poco c’è da dire sulla sua ricostruzione, così bene informata e dettagliata com’è. E, tuttavia, non possiamo fare a meno di affacciare qualche perplessità sul suo giudizio circa il grado di sviluppo e di potenza economica rispettivo dell’Europa e dell’Asia. In breve, sembra a noi che già almeno dal ’500 in poi il passo delle loro economie non fosse pari. Sì, gli europei compravano e pagavano i tessuti, spezie e altro dell’Oriente, con un continuo esborso di denaro; e il livello tecnico-organizzativo delle produzioni asiatiche era più che apprezzabile. Ma dire che Cina e India fossero al centro dell’economia mondiale, e che bisognò aspettare la “rivoluzione industriale” del secondo ’700 e primo ’800 perché le cose si rovesciassero, non ci persuade molto. A quell’epoca gli europei avevano già consolidato un’attività commerciale e una navigazione a livello mondiale, che dava ad essi, per così dire, l’iniziativa storica. La rivoluzione industriale stessa non fu un caso. Si inquadrò in un moto di ricerca tecnico-scientifica assolutamente all’avanguardia rispetto a ogni altra cultura del mondo, anche rispetto a quelle dell’India e della Cina. È, inoltre, da considerare che in Europa erano di gran lunga maggiori la produzione bellica e quella delle costruzioni navali. Il vantaggio europeo era già solo per questo notevolissimo. Gli europei andavano in Asia e ne conquistavano ampie zone ben prima della rivoluzione industriale. Indiani e cinesi non si muovevano dai loro paesi. Si può sottovalutare questa serie di dati di fatto?
Quanto all’oggi, Castronovo ne riassume i problemi e le prospettive nelle pagine conclusive, tra le migliori di un libro tanto ben riuscito. Vi primeggia il sacrosanto richiamo al fatto che, prima di deprecare il dumping e altri elementi del successo mondiale, soprattutto, cinese [,] gli europei farebbero bene a vedere e a sciogliere i nodi che essi stessi hanno stretto intorno alle loro economie, e soprattutto a non illudersi di poter fare come se il mondo non stesse cambiando, quasi tirandosi in disparte o limitandosi ad agire di rimessa. La piagnucolosa tendenza europea a lamentare la spregiudicatezza orientale e l’“egoismo” americano è, in effetti, patetica. Ma lo sviluppo dell’Oriente è davvero un cammino a corso segnato, una marcia trionfale in crescendo inarrestabile?
Il quadro che ne traccia Castronovo è eloquente, e invita a ben riflettere. È un fatto, però, che la sua analisi verte soprattutto sul crinale europeo dell’Occidente. Visto dal crinale americano, lo spettacolo non può che apparire diverso. Che l’Occidente abbia esaurito la sua capacita di presenza storica, e che con esso sia al capolinea l’“impero americano”, o che il secolo XXI sia destinato a colorarsi intensamente di giallo, a essere il “secolo cinese”, è una sentenza di molti, data come scontata e inappellabile, soprattutto in Europa. Sia consentito qualche modesto dubbio. L’Oriente non è tutto e solo Cina. Ma soprattutto l’Occidente non è tutto e solo Europa. Il “secolo americano”, che si dà per concluso, è, per molti segni, ancora ben lontano dall’aver raggiunto il suo zenith, mentre lo sviluppo orientale solo fino a un certo punto potrà proseguire ai ritmi attuali, perché, come si sa, più si cresce, e più diminuisce il ritmo della crescita. È meglio essere prudenti nelle previsioni, così come è meglio che gli europei, per quanto li riguarda, pensino soprattutto a quegli enormi problemi di casa loro, che Castronovo acutamente segnala.
Soprattutto, però, è sulla sfida politica della Cina che, come si è detto, vorremmo richiamare l’attenzione. Nell’economia Giappone e India configurano realtà di grande potenza economica che renderà il caso cinese meno dominante di quanto oggi non si tema. Sul piano politico non è così. India e Giappone sono rimasti fedeli alla democrazia e appaiono in tali rapporti con l’Occidente europeo e americano da non far presagire vistosi mutamenti in un prossimo o meno prossimo avvenire. Della Cina non si può dire altrettanto. Una saldatura cino-giapponese o indo-cinese sul piano della grande politica mondiale appare improbabile, ai nostri occhi, o ben poco minacciosa se si verificasse per l’Occidente nel suo complesso, date le accennate posizioni del Giappone e dell’India. Ma – si dirà – una sfida politica della solo Cina non sarebbe catastrofica come lo sarebbe se la Cina si collegasse con altre grandi potenze. Nessuno può, tuttavia, garantire su nessuna ipotesi: la politica sarà pure il regno del possibile, ma certamente non è quello della sicura prevedibilità. Non c’è bisogno di ricordarlo nel caso degli Stati Uniti, ma certamente è utile nei confronti di un’Europa che proprio sul terreno della grande politica mondiale incontra alcuni dei suoi limiti maggiori e più evidenti. Le rivendicazioni nazionalistiche dalle quali abbiamo preso le mosse sono un termometro da non trascurare. Tanto meglio, poi, se i fatti saranno meno preoccupanti di quanto quelle rivendicazioni possono far temere.
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