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La Chiesa e il volgare nella prima età moderna
di Vittoria Fiorelli
Ci sono parole che hanno un posto speciale nella tradizione culturale perché si legano ai grandi temi che sono diventati parte dell’immaginario collettivo che sostiene la nostra civiltà. Una di queste è senza dubbio la parola rogo, capace di evocare la forza violenta e distruttiva che da sempre viene usata per cancellare la traccia di ciò che è stato condannato nelle vicende umane.
Tra le immagini più diffuse che l’Occidente ha consegnato alla sua storia non vi è dubbio che un posto a sé stante vada riservato ai fuochi appiccati utilizzando motivazioni legittimate dall’autorità della Chiesa cattolica: dagli eretici alle streghe, il ricordo delle vittime delle condanne inquisitoriali è rimasto costante nella storiografia che si è occupata dell’età moderna. Se la letteratura storica si è molto occupata delle fiamme che hanno avvolto i condannati, una minore attenzione ha dimostrato per le procedure utilizzate dalle gerarchie ecclesiastiche per distruggere pile di libri giudicati pericolosi per l’ortodossia della fede. Il volume che Gigliola Fragnito ha pubblicato nel 1997 aveva avuto il merito di portare la questione al centro del dibattito sulla storia religiosa che, proprio in quegli anni, si stava arricchendo di importanti contributi che avrebbero segnato dei punti fermi per la ricerca in questo settore di studi. Insieme a Il sovrano pontefice di Paolo Prodi e ai Tribunali della coscienza di Adriano Prosperi, infatti, La Bibbia al rogo avrebbe aperto la riflessione sul grande tema del controllo della carta stampata e del conseguente impegno ecclesiastico ad indirizzare la cultura e la formazione della società contemporanea secondo i criteri della disciplina e della normalizzazione dei comportamenti e delle correnti di pensiero, contribuendo a rileggere in modo nuovo l’azione della Chiesa tridentina e l’aspro confronto tra tradizione e innovazione che ha segnato il Cinquecento europeo.
A distanza di qualche anno la studiosa è ritornata su quelle problematiche con un nuovo volume ricco di spunti che si rivelano molto utili per chiarire i contorni del rapporto che la Chiesa ha avuto con la parola scritta nel corso dell’età moderna (Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 325).
Accanto alla sapiente ricostruzione delle strategie utilizzate dalle gerarchie cattoliche per limitare l’accesso dei credenti ai temi più delicati della riflessione teologica grazie ad una progressiva scomparsa della lingua volgare dalle opere che trattavano argomenti religiosi, l’indubbio valore del libro sta anche nella impostazione metodologica che traspare dalla sua struttura. Il suo obiettivo dichiarato non è infatti quello di segnare una svolta negli studi di settore, ma piuttosto di sottoporre alla comunità scientifica i risultati di una minuziosa ricerca orientata a ricostruire i meccanismi di comunicazione e di orientamento utilizzati dalla curia romana per gestire il suo ruolo di indirizzo e di controllo della cultura.
Come ha spesso ripetuto Giuseppe Galasso uno degli errori più frequenti commessi da coloro che si dedicano alla ricerca consiste nell’inseguire a tutti i costi grandi cesure innovative nella conoscenza e nella comprensione del passato. Il mestiere degli storici si dovrebbe piuttosto esercitare cercando di lasciare parlare le fonti, senza sovraccaricare le epoche trascorse di logiche e significati non riconducibili a strutture storiografiche che non siano quelle emerse dalla ricerca stessa. È quanto la Fragnito è riuscita a fare nella sua nuova ricerca che ha arricchito la storia religiosa di una chiave di lettura densa di spunti e di sollecitazioni intriganti.
Pienamente inserita nell’alveo della tradizione storiografica che si è occupata del XVI e del XVII secolo attraverso le prospettive complementari del disciplinamento, inteso da Prodi come il perno fondamentale della strategia di confessionalizzazione della Chiesa tridentina, e dei meccanismi di controllo e di persuasione gestiti attraverso i “tribunali della coscienza” studiati da Adriano Prosperi, la studiosa ha cercato di ricostruire i contorni dell’utilizzo della censura da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Dal suo recupero della documentazione inquisitoriale, però, non è emerso soltanto l’impegno costante di orientamento e di educazione religiosa messo in piedi dai cardinali della Congregazione Romana, ma si sono anche rafforzati i segnali di una diffusa resistenza, talvolta interna allo stesso mondo ecclesiastico, che si è opposta con costanza alla politica di direzione pervasiva scelta da molti settori della curia. Una ipotesi di grande complessità che consente alla Fragnito di proiettare la sua ricerca oltre i confini di un consolidato solco storiografico nei confronti del quale, nonostante il suo indubbio valore, è difficile celare l’impressione che costringa gli storici ad una prospettiva troppo nettamente caratterizzata dalle dinamiche interne alla curia romana. Una peculiarità interpretativa che la studiosa aveva già avuto modo di evidenziare in alcuni dei suoi precedenti lavori che erano culminati nel libro del 1997, ma anche nel saggio introduttivo a Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy (Cambridge University Press, 2001).
Il dissenso che emerge attraverso il percorso di ricerca utilizzato dalla storica per analizzare il destino della letteratura in lingua volgare nel clima della riforma cattolica, infatti, non è quello, scontato, di coloro che avevano varcato la frontiera dell’ortodossia ridisegnata dopo Trento e che la Chiesa poteva dunque accusare, nei tribunali e nei confronti teologici, di crimini contro la fede. I segnali rintracciati nei documenti prodotti dal Sant’Uffizio e dall’Indice sono piuttosto quelli di una protesta interna al mondo religioso, proveniente dagli ambienti più qualificati e consapevoli della società e della Chiesa stessa, ma anche dai “semplici”, uomini e donne che reclamavano con insistenza l’autorizzazione a conservare la consuetudine con Epistole et Evangelii che consentivano loro di partecipare a cerimonie e riti liturgici eliminando la mediazione necessaria per superare l’incomprensione del latino. Le resistenze non si esprimevano in forme evidenti di contrapposizione, ma avevano costruito una barriera critica capace di porre i vertici della curia di fronte al limite della propria rigidità, ottenendo talvolta la revisione delle linee programmatiche dell’orientamento ecclesiastico.
Se la Fragnito dedica ampio spazio alla questione del malessere diffuso provocato dal tentativo di progressiva riduzione degli spazi di consapevolezza consentiti dalle gerarchie ecclesiastiche, il quadro di insieme che emerge dalle pagine del suo libro non cambia però di molto rispetto alla tradizione storiografica predominante. Agli organismi centrali, infatti, la studiosa attribuisce la capacità di aggirare costantemente gli ostacoli frapposti da lettori, tipografi e autorità civili, utilizzando una strategia di occultamento delle norme nelle pieghe di un linguaggio volutamente oscuro che ha consentito comportamenti differenziati nelle direttive che dal centro partivano verso gli organismi periferici, accanto alla prassi di calibrare i propri interventi in modo selettivo, valutando di volta in volta le priorità della politica di repressione e di indirizzo.
Il problema del controllo sulla produzione editoriale del Cinquecento, effettuato attraverso la promulgazione degli indici dei libri proibiti, era stato tradizionalmente inserito dagli storici nella più generale prospettiva della battaglia combattuta dal Sant’Uffizio per rafforzare il suo ruolo di custode ultimo dell’ortodossia e di garante del rapporto dei fedeli con la sfera religiosa. Nei primi decenni del secolo, infatti, il tentativo di ampliare i confini della sensibilità al sacro che aveva caratterizzato l’impegno ecclesiastico dell’ultimo scorcio del Quattrocento si era infranto contro il muro della paura innalzato di fronte alla forza di penetrazione dimostrata dalle idee riformate. La dilatazione degli spazi della riflessione religiosa, garantita dalla diffusione della predicazione in volgare e dall’invenzione della stampa, aveva costretto la Congregazione Romana a rivedere le priorità della propria linea di garante dell’ortodossia, orientando i cardinali verso il tentativo di stemperare il contatto dei fedeli con i testi sacri attraverso l’intensificazione dei controlli sui libri religiosi di ogni genere che stavano raggiungendo un pubblico sempre più ampio. L’impegno nel Sant’Uffizio per escludere progressivamente dalla riflessione sulle tematiche religiose tutti coloro che non conoscevano il latino viene dunque prospettato come un ulteriore tassello della politica ecclesiastica che tendeva a conservare il monopolio del patrimonium fidei nelle mani di un ristretto gruppo di religiosi e a limitare la consuetudine alla riflessione teologica connessa ad una religiosità consapevole e critica.
Ancora una volta la Fragnito ha assegnato una grande importanza alla promulgazione dell’indice clementino, attribuendo alla palese insubordinazione perpetrata dal Sant’Uffizio nei confronti del papa in quella occasione il significato di una vittoria, per quanto limitata e di misura, della politica inquisitoriale di censura iniziata nel 1558 e ostacolata, nel corso del secolo, dalle iniziative dei pontefici indipendenti dal gruppo raccolto attorno alle attività della Congregazione Romana. I papi inquisitori assumono in questa prospettiva una statura di maggiore stabilità gestionale e di più forte capacità di governo che rischia di oscurare il ruolo sinergico che molti organismi della struttura istituzionale della Chiesa hanno avuto nel determinare le scelte politiche generali della curia.
Agli assetti di potere risultati dal lungo confronto tra il papato e il Sant’Uffizio che si è definito all’indomani del 1596 la studiosa ha attribuito addirittura la capacità di incanalare la tradizione religiosa italiana verso una divaricazione fra teologia e pratica devota responsabile ultima della deintellettualizzazione della fede che le appare come tratto identitario della religiosità della penisola. Dal divieto delle volgarizzazioni della Scrittura alla condanna del legame tra efficacia delle preghiere e comprensione dei testi, l’obiettivo del Sant’Uffizio appare, nella sua trattazione, chiaramente quello di arginare la diffusione di una religiosità condivisa che trovava proprio nella comprensione della parola di Dio il tramite per accomunare gli strati umili della società e le sue élites in un afflato comune di devozione.
Secondo questo approccio teorico generale, dunque, la parte iniziale del volume è interamente dedicata ad analizzare le fasi della stesura e della promulgazione dei tre indici cinquecenteschi. Seguendo i successivi cambiamenti intervenuti nelle procedure di volta in volta utilizzate, emergono i contorni delle tensioni che hanno visto opporsi, lungo tutto il secolo, partiti diversi all’interno della curia romana. A cominciare dalla ripetuta sostituzione dell’organismo formalmente responsabile dell’indice, risulta in modo chiaro come le maggiori difficoltà emergessero nelle fasi applicative che imponevano l’inevitabile cambiamento dei referenti istituzionali delle procedure di organizzazione e di interpretazione connesse con l’applicazione della normativa. Se l’indice del 1558, voluto da Paolo IV e promulgato con un dispositivo del Sant’Uffizio, era stato il segno della politica inquisitoriale avallata dal Carafa e inseguita fino alla fine del secolo dai cardinali della Congregazione, il successivo intervento effettuato da Pio IV nel 1564 aveva tentato una svolta che riportasse al papa e al Concilio la prerogativa di disegnare forme e limiti del controllo sulla cultura e sulla stampa e, con essa, la responsabilità ultima della salvaguardia dell’ortodossia. La chiusura del conflitto ai margini della promulgazione dell’indice di Clemente VIII, dunque, assume lo spessore della definizione delle competenze di controllo, accompagnata dalla ricostruzione delle forti tensioni giurisdizionali che si sono opposte all’interno dell’apparato curiale per stabilire i limiti e le prerogative delle diverse istituzioni centrali.
Questo quadro d’insieme ci offre un eccellente esempio di revisionismo storiografico. La Fragnito ritorna infatti su quanto lei stessa aveva sostenuto nel libro dedicato alla codificazione dei divieti per le traduzioni della Bibbia, per correggere il tiro delle conclusioni alle quali era allora pervenuta. Se in quella occasione la studiosa aveva inserito anche la Congregazione dell’Indice nello scontro di potere per la primazia nella tutela del patrimonium fidei, l’apertura alla ricerca dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede le ha consentito di accedere a nuove fonti che hanno gettato una luce diversa su molti aspetti della contesa romana, limitando al confronto tra plenitudo potestatis del pontefice e Sant’Uffizio la battaglia che a suo giudizio si riapriva ogni qualvolta il pontefice regnante non aveva una provenienza inquisitoriale. Una prospettiva che, sebbene inserita in un quadro interpretativo tradizionale che spesso soffre di un taglio troppo marcatamente centralistico e inquisitoriale, guadagna un respiro europeo nelle pagine dedicate al ruolo della politica filofrancese del papa e alla vicenda della condanna delle opere di Bodin attorno alla quale si era articolato il contrasto tra Clemente VIII e il cardinale Santoro. Un contrasto che sembra quasi ricalcare quello sviluppatosi trent’anni prima tra Carafa e Pole, secondo un copione che viene riproposto ai margini di molti dei conclavi del secolo XVI.
Dopo essersi dedicata alla tematica che appare chiaramente come l’elemento fondamentale della prospettiva ermeneutica della ricerca, la Fragnito affronta la questione cruciale della funzione del testo sacro nel nuovo percorso di formazione predisposto per i fedeli ai margini del Concilio. Superata l’emergenza dell’impegno antiereticale che aveva portato al divieto assoluto delle traduzioni delle Scritture, le finalità del progetto educativo imposto dalle scelte conciliari e dalle politiche delle gerarchie ecclesiastiche erano oramai indirizzate a definire un nuovo orientamento per le pratiche di pietà nell’ambito di una più generale offensiva contro le opere devozionali. Il vero pericolo che suscitava le preoccupazioni della Chiesa nel contesto religioso della seconda metà del secolo XVI, però, non appare identificato dalla studiosa prioritariamente nel rischio di contaminazioni superstiziose, quanto nell’eventualità di consentire la sopravvivenza del legame dei fedeli con i volgarizzamenti della Bibbia. Il tema della cultura ecclesiastica e dei libri religiosi viene dunque affrontato secondo un taglio inusuale che supera di gran lunga l’impostazione tradizionale legata alle questioni dell’erudizione e della pastorale che tanto spazio hanno avuto nella ricerca storica degli ultimi decenni alla quale hanno contribuito a dare ampi contributi conoscitivi. La ricostruzione della lotta per limitare la diffusione delle opere volgari di largo consumo, dai poemi cavallereschi utilizzati nelle scuole d’abaco agli Officioli della Madonna che accompagnavano le preghiere di gran parte dei fedeli, apre lo sguardo su di un percorso di evoluzione e di crescita delle attitudini culturali diffuse che recupera tutte le cesure e le tensioni che ne hanno costituito il tessuto connettivo. Attraverso questa lettura problematica, comunque risolta in un quadro interpretativo stabile e definito, l’autrice restituisce al panorama della Controriforma molte delle variabili che erano state cancellate nelle letture proposte dalla storiografia cattolica, anche molto recente, nelle quali veniva prospettata «una ininterrotta, pervasiva, rassicurante continuità, appena lambita dalla discontinuità della Riforma» che non ha consentito di cogliere la carica distruttiva degli interventi operati dal Sant’Uffizio nel corso dei lunghi anni di supporto alle correnti più retrive e intransigenti del cattolicesimo.
Tra gli aspetti più interessanti della ricerca c’è senza dubbio la ricostruzione delle numerose dissonanze che la Fragnito ha rintracciato nel complesso meccanismo che le due congregazioni romane direttamente coinvolte nel controllo della circolazione libraria dovevano mettere in piedi per gestire l’applicazione delle normative definite a livello centrale. Nel rapporto di dipendenza e di trasmissione delle regole dal centro alla periferia, infatti, emerge un ruolo di governo assegnato ai vescovi e alle strutture diocesane che in parte corregge l’idea di una direzione romana che non lasciava spazio alcuno alle autorità locali.
Si tratta di un taglio interpretativo che sta trovando spazi sempre più ampi nelle ricerche più recenti attraverso il progressivo recupero di una serie di segnali che consentono di rivedere l’impostazione che ha assegnato alle istituzioni locali un mero ruolo di cassa di risonanza per le direttive provenienti dal centro. Già l’ipotesi ventilata nella parte iniziale del libro di un utilizzo del monopolio interpretativo della norma come strumento per esercitare un controllo occulto sugli organismi periferici suggeriva di fatto una autonomia gestionale delle diocesi nel contesto del controllo librario. Nelle pagine successive, poi, emerge una chiara volontà manifestata dai vescovi di ottenere degli atteggiamenti più moderati da parte del governo centrale della Chiesa. In seguito alla promulgazione dell’indice tridentino sembra che si possano dunque identificare le avvisaglie di una reazione organica nei confronti dello strapotere dell’Inquisizione: nelle pieghe della riorganizzazione delle procedure di applicazione e di controllo della censura i presuli si riservarono infatti la vigilanza su due segmenti importanti della produzione editoriale come i libri osceni e quelli di astrologia giudiziaria, magia e divinazione e in seguito, anche grazie al contributo di Roberto Bellarmino, essi si videro assegnare dall’indice clementino le competenze esclusive in materia di censura preventiva ed espurgatoria.
Al tentativo di riconoscimento del ruolo degli ordinari caldeggiato da Pio IV, la Fragnito ha comunque opposto un difetto di applicazione delle possibilità lasciate sul campo dalle nuove direttive pontificie. Nel quadro di una più generale difficoltà di organizzare il governo locale, infatti, molti vescovi avrebbero delegato agli inquisitori locali le competenze di controllo e di applicazione delle sanzioni in materia libraria rendendo molto difficile valutare l’impatto della iniziativa autonoma delle diocesi. Un quadro di rapporti tra centro e periferia che, sebbene non modifichi di fatto la valutazione dello spessore dell’attività dei presuli, sposta comunque le motivazioni della preminenza inquisitoriale nelle attività di disciplinamento della pratica religiosa.
L’analisi delle resistenze del mondo cattolico ai tentativi di cancellare la consuetudine con la pagina scritta ha offerto altri spunti interessanti per la rivalutazione del ruolo degli ordinari diocesani. Nelle pagine dedicate alla questione dello slittamento dei confini della categoria della superstizione che il Sant’Uffizio aveva utilizzato per guadagnare il controllo su di una quota crescente dei reati di competenza della giurisdizione ordinaria, per esempio, emergono i contorni di un attrito profondo con i capi delle diocesi che temevano di vedere vanificato il loro impegno pastorale a favore della confessione a causa dell’offensiva inquisitoriale che rischiava di allontanare i fedeli e il clero dal sacramento della penitenza. Un tema che apre la strada alla necessità di cercare nuovi spazi di ricerca che consentano di sottoporre il quadro dei rapporti ecclesiastici ad una verifica delle prospettive relazionali che ci eravamo abituati a considerare come un dato complessivamente acquisito.
In prima linea i vescovi appaiono anche come tramite utilizzato dai fedeli per rappresentare a Roma tutto il loro disagio rispetto alle disposizioni ufficiali che progressivamente sottraevano loro i libri in volgare che erano diventati parte integrante del loro vissuto devozionale quotidiano. Un ruolo nel quale essi si guardavano bene dal prendere posizione, anche se molto spesso traspariva dai loro atti una personale partecipazione al malessere del proprio gregge. Gli unici spazi di sopravvivenza per l’utilizzo della lingua volgare negli ambiti riservati alla riflessione religiosa e alle pratiche di pietà lasciati tanto ai lettori quanto a librai e stampatori, restano dunque, nelle pagine della Fragnito, quelli aperti dalle crepe prodottesi nel sistema di controllo a seguito dei conflitti giurisdizionali e delle tensioni tra i poteri costituiti.
In definitiva si può senz’altro dire che Proibito capire segni una svolta in un ambito di grande interesse per gli studi religiosi. La ricerca ha infatti risolto alcuni nodi tematici relativi agli assetti di potere del governo della curia, ma ha anche messo a disposizione della comunità scientifica una documentazione che rende necessaria una nuova modulazione delle chiavi di lettura consolidatesi negli ultimi decenni.
Dopo la costruzione dei grandi quadri interpretativi, le linee di sviluppo della storiografia che si è dedicata all’analisi delle dinamiche d’insieme della religiosità controriformata si sono orientate verso il recupero dell’architettura istituzionale sulla quale appoggiare un modello teorico condiviso. Il lavoro della Fragnito si pone efficacemente lungo la linea di demarcazione che troppo a lungo ha separato le sollecitazioni complementari della prospettiva politica e dell’organizzazione ecclesiastica per ricomporle in una prospettiva integrata capace di rilanciare il recupero di nuove fonti in una decodificazione di ampio respiro.
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