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Agli esordi della fortuna di Carducci in Germania
di Anna Maria Voci
Alla fine del 1879, scrivendo la prefazione ad una raccolta di traduzioni in tedesco di poesie scelte di Carducci, che uscì, poi, nel 18801, Karl Hillebrand rivendicava giustamente e con orgoglio di essere stato il primo, nel 1873, recensendo la prima edizione delle Nuove poesie2 nella Beilage all’«Allgemeine Zeitung»3 ad aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica colta tedesca sul valore del poeta italiano Carducci.
Karl Hillebrand è oggi piuttosto dimenticato4. Ma ai suoi giorni fu un intellettuale, uno storico e storico delle letterature, un critico letterario tra i più colti e perspicaci, un saggista tra i più fini e brillanti che l’Europa occidentale ebbe negli anni ’60 e ’70 del secolo XIX. Parlo di “Europa”, perché Hillebrand, nato in Germania, a Giessen, nel 1829, visse venti anni (dal 1849 al 1870) in Francia, tra Bordeaux, Parigi e Douai, e, poi, il resto della sua vita (morì nel 1884), in Italia, a Firenze. Egli fu una figura di assoluto rilievo nella mediazione culturale tra Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna e raggiunse, in vita, una grande popolarità. I suoi lavori di critica letteraria, di storia, di storia della cultura si distinguono per la sua grande conoscenza delle realtà umane, culturali e storiche di quei paesi, che gli permise di porsi da un punto di osservazione comparativo, cosmopolita, per il suo tenace sforzo di studiare e porre a confronto i caratteri dei tempi, dei popoli, degli uomini5 e di giudicarli con imparzialità.
Hillebrand, che aveva sei anni più di Carducci, conobbe quest’ultimo durante il suo soggiorno in Italia nella tarda estate o all’inizio di autunno del 1862. Il 25 ottobre di quell’anno, infatti, Carducci scriveva di lui a Giuseppe Chiarini e gli raccontava di aver conosciuto «ultimamente a Firenze» quel «tedesco, che sta in Francia»; definiva Hillebrand «giovane molto, e simpaticissimo» e gli raccomandava di leggerne il Dino Compagni, «che è molto bel lavoro, e fatto con amore grandissimo dell’Italia e della nostra letteratura antica»6. Che si siano conosciuti in quell’anno e, poi, non più rivisti per quasi tutto il decennio successivo, è confermato dal ricordo di Hillebrand, che, nell’aprile 1871, gli scriveva: «J’ai même eu le plaisir de vous voir une fois, il y a huit ou dix ans peut-être, et malgré la légion de visages que j’ai vus en ma vie, le vôtre m’est resté vivant dans le souvenir»7. Nel 1863 Carducci avrebbe voluto fare una recensione del Dino su La Nazione8, e lo stesso desiderio comunica nel gennaio 1865 al Chiarini, proponendogli di dargliela per la Rivista italiana di scienze, lettere ed arti, della quale in quel tempo Chiarini era direttore9. Non sembra abbia poi attuato questo proposito, probabilmente per i troppi impegni di lavoro10.
Verso la fine del 1868 Hillebrand gli inviò le sue Études italiennes, una raccolta di studi sul Trecento e Quattrocento italiano, primo volume di una serie da lui concepita (ma poi non attuata) di studi comparati storico-letterari11. Ci è pervenuta una risposta di Carducci (febbraio 1869), contenente giudizi molto lusinghieri:
[…] intanto pervennero a mia notizia anche gli Studi italiani. Volli prima leggerli. E leggendoli sempre più sentiva crescermi quel debito non più individuale, ma di cittadino: perché nessuno da vero o pochissimi, fra gli stranieri, hanno mai parlato delle cose nostre con tanta dottrina e gusto, amore e verità, con tanta competenza in somma. Volevo dirvi che, fra le innumerevoli pagine scritte a questi ultimi anni in Italia e fuori sopra Dante, non mi è avvenuto di trovarne molte che valgano quelle poche vostre, ove con tanta profondità e finezza e finitezza è assegnato e descritto il carattere, l’officio, la parte che tiene la Divina Commedia nella letteratura d’Europa. […] Vorrei che i giornali italiani […] parlassero degnamente del vostro libro: ma non lo spero. In Italia fra gli Accademici e i retorici; tra i gallicizzanti che fanno de l’esprit a sproposito e i neofiti della Germania che ruminano le loro indigestioni, la critica è in cattive acque12.

Giudizi da ritenere senz’altro sinceri, considerato il temperamento genuino, schietto di Carducci. Del resto, anche scrivendo a Ferdinando Martini egli si espresse positivamente su quel lavoro: «L’Hillebrand ne’ suoi Studi italiani ha scritto di belle cose sul Machiavelli e l’Ariosto»13.
All’inizio della primavera del 1871 Carducci inviava a Hillebrand, nel frattempo trasferitosi a Firenze, un esemplare dell’edizione delle sue Poesie, appena uscite per Barbèra14. Hillebrand, che conosceva e apprezzava Carducci come critico letterario, come «éditeur de poètes», fu colpito dalla forza e dall’originalità della vena poetica di Carducci, nella cui poesia, come gli scriveva nell’aprile del 1871, egli credette di scorgere quella fiamma poetica spenta «depuis que la nation a obtenu ce qu’elle a si longtemps désiré». Da subito Carducci gli sembrò un degno emulo di Leopardi «au milieu de notre génération sceptique»15, e, ciò, nonostante la totale divergenza di convinzioni politiche tra i due. Anzi, Hillebrand sottolineava che la sua ammirazione per Carducci era proprio per questo tanto più sincera: «J’appartiens au parti opposé à celui auquel vous appartenez: je suis réactionnaire, conservateur, pour moi le rationalisme est vraiment Satana, la Révolution française l’avènement, les principes de 89 la Bible de cet ennemi sous lequel vous servez»16.
A maggior ragione, pertanto, Carducci gli fu grato per queste parole. Il 28 aprile 1871, infatti, gli rispondeva:
Voi, dotto insieme di grave, pratica ed elegante dottrina; voi, critico sapiente della più vera e gloriosa letteratura italiana; voi, straniero e alieno dalle mie idee; mi mandate parole di conforto e d’incoraggiamento […] Ve ne ringrazio di cuore; e restringendovi affettuoso e memore la mano che mi offrite dalle vostre file, prego Giove che ne voglia restituire il lume puro del pensiero, non per combattere gli uni gli altri ma per riconoscerci17.

Nel novembre 1873 Hillebrand recensì per l’«Allgemeine Zeitung», uno dei quotidiani più influenti l’opinione pubblica e più letti dalla borghesia intellettuale tedesca, la prima edizione delle Nuove Poesie carducciane18. Egli ne lodava l’autore che definiva come il più importante poeta italiano dalla morte di Leopardi, e dell’Europa da quando aveva perduto Heine, come un «colto, geniale Baudelaire, che crede a ciò che mette in versi». Paragone che, forse, sembrerà temerario, ma che egli motiva spiegando:
Baudelaire ha rivestito il più spinto cinismo della forma più ricca che la sua lingua poteva offrirgli: lo stesso fa Carducci; ma, in lui, è inclinazione naturale ciò che nell’altro è proposito intenzionale. Mentre Carducci trova sempre senza fatica, Baudelaire cerca penosamente; nel primo tutto respira una salute straripante, mentre nell’altro una malattia repellente si compiace di scoprire i proprii bubboni; nell’italiano è proprio l’indignatio a fare il versum, mentre nel francese l’indignazione sembra solo suggerire il verso.

Hillebrand evidenzia non solo la grande forza, l’originalità, la versatilità della poesia carducciana, ma soprattutto il pronunciato senso della forma, cui il poeta avrebbe conferito una perfezione «classica», al tempo stesso animandola della «passione ardente» di un temperamento irruente, irrequieto, impulsivo, radicale. Questo «elleno risuscitato» è, secondo lui, costantemente assistito dal gusto del classico, una sorta di «Mentore consigliere» che gli indica dove è opportuna la trivialità, e dove non lo è. Carducci è, insomma, per Hillebrand un «Vorkämpfer», un «pioniere», «des guten alten Classicismus», ma non di quello arcadico-convenzionale, bensì «des echten hellenischen», di quello genuinamente ellenico.
Secondo Hillebrand il genere satirico era quello in cui il talento poetico di Carducci si era espresso al meglio. La sua satira non era
il fine e serenamente sorridente conversare di un Montaigne o di un Orazio; né i pesanti colpi di clava di Giovenale; non le frustate schioccanti di Parini, né i tiri burloni che, come un luccicante Arlecchino che sgattaiola via nascondendosi tra le altre maschere, Giuseppe Giusti distribuisce a destra e a sinistra; questo è l’arco sibilante di Archiloco.

Se Hillebrand ammira il talento poetico di Carducci, ne critica, però, il radicalismo politico, non solo perché ritiene che il giacobinismo, a differenza di ogni altro ideale politico, sia privo di sentimento, fantasia, moralità, di pensiero, manchi di contenuto, sia una semplice forma, «ein Product des mechanischsten Rationalismus», un ideale prosaico la cui realizzazione comporterebbe il predominio della mediocrità e il rinnegamento dell’arte, ma soprattutto nella misura in cui quel radicalismo informa di sé la poesia di Carducci: «Quando si leggono certi inni alla libertà, sembra di leggere lettere di Garibaldi da Caprera volte in versi». Non appena, egli continua, il poeta abbandona la satira e la descrizione della natura, soprattutto della sua natura toscana, nelle quali ha prodotto cose di una verità ed evidenza poetica fuori dall’ordinario, è come se la sua voce si indebolisse, la sua ispirazione si affievolisse: una robusta e serrata originalità di espressione e di pensiero fa posto a piatti luoghi comuni, a parole grandi e vuote. Hillebrand non riesce a comprendere come un «classico» come Carducci possa inchinarsi alla Déesse Raison, all’Etre Suprême, al «Mene Tekel der liberté, égalité, fraternité». E gli sembra che, in questo, Carducci mostri come un difetto di prospettiva che nuoce grandemente al suo ingegno. Tutto ciò che è lontano nel tempo e nello spazio gli appare, infatti, bello, omne remotum pro magnifico; tutto ciò che è vicino gli sembra, invece, meschino e brutto. Atteggiamento naturale e ragionevole in un vecchio, non però in un giovane. Se un giovane, infatti, si immagina sul serio che il suo tempo sia il tempo della mancanza dei sentimenti, della viltà, della volgarità per eccellenza, e che il passato, da lui osservato in astratto, sia l’onore e la virtù, dimostra di non possedere quello sguardo filosofico che è necessario ad un poeta moderno, il quale, alla pari di uno Shakespeare, di un Goethe o di un Leopardi, deve imparare a vedere il mondo e l’umanità quali sono, nel bene e nel male.
Un altro elemento originale di questa recensione, strettamente connesso alla fede politica «giacobina» di Carducci, è il giudizio sicuro col quale Hillebrand, che tra 1849 e 1850 era stato per molti mesi segretario di Heine a Parigi, aveva vissuto in casa sua e lo conosceva molto bene, rileva il travisamento del ritratto del poeta tedesco fatto da Carducci nella poesia A un Heiniano d’Italia. Quel ritratto di Heine, afferma, è frutto della fantasia di Carducci, ma non ha la minima rassomiglianza con il poeta tedesco; esso è semplicemente il ritratto del Carducci stesso. Quest’ultimo prende Heine troppo alla lettera, crede all’indignazione morale di Heine, al suo apostolato politico. All’italiano sfugge del tutto il tratto heiniano del ragazzo di strada («Gassenjunge»), del «Juddebub» (ragazzino ebreo) della renana Düsseldorf. Da Heine zampillava senz’altro un’inesauribile sorgente di spirito e di arguzia, di scrupolosità artistica, di rettitudine poetica, unite a bontà di cuore e a genialità, ma volerlo presentare come un Tirteo eroico, come un martire del nuovo Vangelo (quello, cioè, della Rivoluzione francese), significa snaturarlo.
Non ho trovato reazioni di Carducci a questa recensione (che venne subito tradotta in italiano e fatta stampare dai suoi amici di Bologna ne «La Voce del Popolo»19), nel senso che non ci è giunta alcuna sua lettera all’autore del pezzo. Ne riporta, però, in una lettera a Lidia, senza ulteriore commento, il giudizio per lui più lusinghiero: «“L’Allgemeine Zeitung” ha un lungo articolo sul mio libro e dice a un certo punto che io sono non solo il primo dei viventi poeti d’Italia, ma, dopo Heine, il primo poeta d’Europa»20.
Una reazione entusiasta venne, invece, da Giuseppe Chiarini, al quale la recensione di Hillebrand sembrò finalmente il primo, giustissimo riconoscimento della grandezza del suo amico, così spesso misconosciuta in patria:
Avevo già veduto l’articolo dell’«Allgemeine Zeitung», quando ho ricevuto la traduzione fattane dalla «Voce del Popolo», e speditami credo per opera tua, di che ti ringrazio; perché così ho modo di farla leggere a molti […] Ci ho avuto proprio gusto, e che gusto! Che sia venuto un tedesco a dire a questi asini e porci italiani ch’e’ sono asini e porci; e un tedesco ch’è le mille miglia lontano da te quanto a opinioni politiche. Per Dio, i non italiani han più gusto, più buon senso, e soprattutto più onestà di noi […] Io che lo pensava, non l’ho detto, perché, qua, avrebbero detto ch’io son tuo amico; e poi perché le mie parole non avrebbero avuto nessuna autorità! Dire che tu sei il bedeutendste Dichter che l’Italia abbia avuto dalla morte di Leopardi in poi, anzi che dopo scomparso Heine l’Europa non ha veduto nulla di somigliante a te, dir questo un italiano in Italia, sarebbe stato come voler passar per cretino e farsi tirar le sassate dietro; e pure questa pareva e pare a me una verità incontrastabile […] Sai tu chi è questo critico che ha tutte le mie simpatie, e dev’essere un bravissimo uomo, ed un critico come l’Italia non ne ha all’infuori di te21?

Dopo che Hillebrand per primo, nel 1873, segnalò al pubblico tedesco l’esistenza di un grande poeta italiano contemporaneo di nome Carducci, altri due critici, gli austriaci Adolf Pichler, scrittore e naturalista, e Carl von Thaler, scrittore e drammaturgo, recensirono positivamente, ma con una sensibilità, un vigore e un acume critico molto minori rispetto a Hillebrand, le Nuove poesie, il primo nell’«Abendpost» (10 giugno 1874), il secondo nella «Neue Freie Presse» (12 marzo 1875), entrambi quotidiani di Vienna22. Il nome di Carducci iniziò allora a circolare nei paesi di lingua tedesca, e, a poco a poco, cominciarono ad apparire versioni tedesche di qualche suo componimento.
Nel 1874 Hillebrand cercò la collaborazione, tra gli altri, anche di Carducci per la rivista da lui fondata, «Italia», con lo scopo di far conoscere meglio alla Germania la cultura, la storia, la condizione politica dell’Italia. Per la sua impresa egli poté valersi di ottimi collaboratori italiani e tedeschi (tra i quali figurano i nomi di Bonghi, De Gubernatis, Luzzatti, dei due Pareto, di Sonnino, Villari, Otto Hartwig, Hermann Hüffer, Alfred von Reumont). La rivista era redatta in tedesco e conteneva una breve sezione di versioni metriche di poesie tedesche in italiano e di poesie italiane in tedesco. Come assicurava Hillebrand a Carducci, la rivista «Italia» non aveva «spirito di partito: dal communista fino all’assolutista, dall’ateo fino al gesuita, chiunque ha idee, sa scrivere e conosce la materia di cui tratta è il benvenuto». In particolare egli avrebbe desiderato pubblicare qualche versione poetica dal tedesco dovuta a Carducci e, per questo, gli scrisse nell’aprile del 187423. Questa richiesta suona un po’ singolare, visto che, nella recensione alle Nuove poesie, l’anno precedente, Hillebrand aveva giudicato le traduzioni carducciane di Heine e Platen non molto ben riuscite. Del resto, Carducci, poi, non lo accontentò.
Nella sua rivista Hillebrand pensò di pubblicare anche qualche versione tedesca di alcune tra le Nuove poesie di Carducci. In un primo momento ne chiese la traduzione a Paul Heyse, scrittore, poeta e traduttore di poesie, altro mediatore culturale tra la Germania e l’Italia, al quale inviò, nel gennaio 1874, un esemplare del volume affinché scegliesse qualche componimento da tradurre. Accompagnava questo invio con il commento su Carducci: «Der Kerl ist wahnsinnig, aber ein Dichter ist er. Freilich wenn ein Mensch bis in’s Vierzigste Jahr so νεανικος […] bleibt, ist’s immer schlimm» («Quel tipo è un pazzo, ma è un vero poeta. Certo, quando un uomo resta talmente νεανικός fino al quarantesimo anno di vita, è sempre una cosa grave»)24. Ma Heyse, allora, rifiutò e deve aver motivato il suo rifiuto di tradurre Carducci adducendo proprio il lato “pazzo”, cioè fuori delle regole comuni, di Carducci, il carattere per lui troppo “fazioso”, troppo poco sobrio, del poeta, perché Hillebrand, allora, gli rispose:
Carducci ist ein wahnsinniger Demokrat und ein leidenschaftlicher Neider; aber Archilocos und Alkäon waren auch nicht unpersönlich und unparteiisch. Die Ode Italia al Campidoglio, die Satire welche das Bändchen eröffnet, sind wahre Jamben. Seines Seicentismus fängt der Mann an sich zu entledigen. Sonnette wie die Oche, Idyllen wie die Bionda Maria haben doch etwas Theokritisches. Sie können sich denken, daß ein Reaktionnär und Beschauer wie ich keine Sympathie für den wüthigen Schreier und Republikaner habe; deßhalb mag doch wohl auch mein Lob des Dichters nicht unbegründet erscheinen25.

Al rifiuto di Heyse, Hillebrand pubblicò, poi, nel 1875, l’Inno a Satana (An den Satan) nella traduzione di Julius Schanz, scrittore, poeta, germanista, traduttore, professore di lingua tedesca all’Università di Roma26. Questa, mi pare, è la prima traduzione di un componimento carducciano in tedesco27. Il 12 marzo 1875, infatti, Carl von Thaler osserva: «È […] incomprensibile che il Carducci non abbia ancora trovato un traduttore tedesco. Conosco di lui una sola poesia in versione tedesca, l’Inno a Satana, per opera di Giulio Schanz nel secondo volume dell’“Italia”»28. In realtà, già nel 1868 Carducci accenna a traduzioni dello Schanz dai Levia Gravia29, ma si tratta, con ogni probabilità, di versioni che rimasero manoscritte, e non ebbero circolazione.
Nel 1878 il medesimo Schanz tradusse Il Canto dell’Amore, uscito proprio allora, in edizione separata, nella Collezione poetica elzeviriana dell’editore Zanichelli30.
L’anno dopo, 1879, Heyse, dopo essersi rifiutato nel 1874, decise di dedicarsi anch’egli a Carducci, e ne tradusse nove componimenti (L’idillio maremmano, Rimembranze di scuola, Sui campi di Marengo, tre sonetti e tre Odi barbare) che inserì nella raccolta da lui curata Verse aus Italien31. Queste sue traduzioni carducciane egli mandò nell’estate del 1879 all’amico fraterno di Carducci, Giuseppe Chiarini. Il 29 dicembre 1879 Heyse scriveva a Chiarini chiedendogli se aveva ricevuto le sue traduzioni carducciane e, per dare un’idea al suo interlocutore dell’intensità dell’interesse nato in Germania per Carducci, usava una metafora meteorologica («Seitdem regnet es förmlich Carducci bei uns»), e Chiarini due giorni dopo gli rispondeva: «Avete ragione, oggi regnet es förmlich Carducci in Germania»32.
A contribuire a questa «vera e propria pioggia» di Carducci in Germania, che era cominciata, grazie a Hillebrand, come un’acquerugiola alla fine del 1873, venne anche, proprio in quel dicembre 1879, una breve raccolta di dieci poesie carducciane tradotte negli ultimi mesi del 1879 da Theodor Mommsen e da suo genero, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, concepita come una strenna natalizia e fatta stampare privatamente da Mommsen. Il suo titolo era: Carducci. 24. Dezember 1879. Questa raccolta conteneva dieci poesie tradotte in tedesco e con testo italiano a fronte: Canto dell’Italia che va in Campidoglio, Pianto antico, In una chiesa gotica, Alla stazione in una mattina d’autunno, Alla Regina d’Italia, Alla rima, nella traduzione di Mommsen; Fantasia, Nella Piazza di San Petronio in una sera d’inverno, Alle fonti del Clitumno, Dinanzi alle Terme di Caracalla, nella traduzione di Wilamowitz. Di queste liriche sette erano tratte dalla prima edizione (del 1877) delle Odi barbare, nelle quali Carducci non aveva usato la rima, agevolando, in tal modo, il compito del traduttore. La scelta dei componimenti pare ispirata, più che dal contenuto, dall’apprezzamento del loro valore poetico. Nel caso, però, della poesia Alla Regina d’Italia Mommsen motivò al genero la sua scelta dicendo scherzosamente che era necessario, in fondo, avere qualcosa anche per le «donne», le molte donne della sua famiglia numerosa («Wir mußten doch was haben für die Frauenzimmer», gli scriveva il 7 dicembre 1879). Nel caso, poi, di Pianto antico, alla traduzione fu indotto dal rimpianto per un figlioletto perduto33.
Naturalmente, oltre alla famiglia Mommsen, che, riunita in quella vigilia di Natale del 1879, trovò sotto l’albero anche questo dono molto particolare, uno dei primi a ricevere il libretto fu l’autore stesso delle poesie tradotte, Carducci, al quale Mommsen inviò un certo numero di esemplari affinché li distribuisse.
Carducci ricevette il pacchetto da Berlino entro il 27 dicembre, perché in quel giorno inviò una copia della raccolta al Chiarini34. Lo stesso Carducci, a sua volta, mandò un altro esemplare, con una dedica, ad un altro suo traduttore: Paul Heyse35.
Dal canto suo, anche Mommsen, desideroso di far conoscere queste traduzioni in Italia, si preoccupò di spedirne esemplari ad amici e colleghi. Due andarono a Verona, dei quali uno era destinato a Pietro Sgulmero per la Biblioteca Civica, dove tuttora è conservata con la segnatura D.584.11, mentre l’altro al fratello di Carlo Cipolla, Francesco, grande conoscitore del tedesco e traduttore delle poesie di Joseph von Eichendorff36. Almeno ancora un altro esemplare fu da lui inviato a Bologna, a Luigi Frati, direttore della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Il 21 dicembre 1879 spediva un pacco con venti copie al primo segretario dell’Istituto archeologico germanico di Roma, Wilhelm Henzen, definendo il libretto «un modesto scherzo di Natale» («Von einem kleinen Weihnachtsscherz erhalten Sie 20 Expl. […]). Lo pregava di tenerne per sé uno e di distribuire gli altri a studiosi tedeschi e italiani residenti a Roma, tra i quali la moglie del secondo segretario dell’Istituto, Nadine Helbig, August Mau, Adolf Klügmann, Ettore Barnabei, Ersilia Caetani Lovatelli, Giuseppe Fiorelli (aggiungendo: «se lo ritiene, dato che conosce il tedesco»). Gli suggeriva anche il nome di Giovanni Battista de’ Rossi, ma gli raccomandava di essere prudente con lui, dato che «die gottlosen Verse werden ihn choquieren». Poi aggiungeva in italiano: «lascio a Lei ciò che pare più a caso»37.
Per la vicenda di queste traduzioni di Mommsen e Wilamowitz-Moellendorff, cui la recente letteratura su Mommsen, dopo le pagine ad essa dedicate dalla fondamentale biografia di Lothar Wickert38, non ha prestato alcuna attenzione, è di un certo interesse ricorrere ad una fonte quasi coeva, al racconto di Giuseppe Chiarini nel suo libro di impressioni e ricordi di Carducci39, dove egli rammenta:
Nel 1879 Teodoro Mommsen, passando da Firenze, e trovandosi un giorno in casa del Malfatti40, caduto il discorso sulle Odi barbare, ch’erano allora una novità, ebbe da esso notizia delle poesie dell’amico nostro […]. A un certo punto della conversazione il Malfatti, lasciato solo per un momento l’ospite illustre, andò nella libreria, prese alcuni volumi delle poesie del Carducci e tornò con essi. Si cominciò a leggere, specialmente delle Odi barbare, e si seguitò a parlare del tentativo della nuova metrica fatto dal Carducci41. Intorno al quale il parere del Mommsen fu che l’ode asclepiadea fosse riuscita interamente, che l’alcaica fosse riuscita solo in parte, che la saffica non avesse niente di saffico […]. Questi poi congedandosi espresse il desiderio di portare con sé alcuni di quei volumi, desiderio che il Malfatti fu ben lieto di soddisfare. Qualche mese dopo il Carducci riceveva da Berlino alcuni esemplari d’un volumetto, contenente sette Odi barbare, l’ode Alla rima e due componimenti delle Nuove Poesie, con a fronte una traduzione tedesca, opera in parte di esso Mommsen, in parte di un amico di lui42.
In uno degli esemplari erano scritti, di mano di Mommsen, alcuni versi, che Carducci, riportandoli in una lettera a Chiarini del 28 dicembre 187943, definisce «curiosissimi». Essi erano intesi come un complimento alle Odi barbare e dimostrano come, pur giudicando nel complesso non riuscito l’esperimento tentato da Carducci, quest’ultimo lo aveva impressionato grandemente:
Tentate pur! Saffo non fia mai vostra.
Però de’ suoi spondei bei e non scarsi
Superba l’alemanna musa nostra
Vien libera ad inchinarsi
Al vinto nella gloriosa giostra.

Carducci spiega a Chiarini che quei versi si riferivano a una discussione che Mommsen aveva avuto con lui «sul non potere noi italiani fare il saffico vero. Diceva invece che benissimo riuscito era il metro asclepiadeo nella Chiesa gotica». Concludeva esortando Chiarini a «fare sul Fanfulla una notizia di questo grande onore concesso dall’antiromano Mommsen all’arte latina», cosa che Chiarini gli promise e, poi, fece44. Chiarini, nel rispondere il giorno dopo, 29 dicembre, dà ragione a Mommsen «quanto alla saffica, ma non soltanto, e non principalmente, per il fatto degli spondei: però, se ho ben visto ieri, le fonti del Clitumno son tradotte con versi tedeschi non saffici, ma endecasillabi come i tuoi». E continua: «È un gran fatto questo del Mommsen, e l’Italia lo deve a te». Soprattutto trovava molto belli i «brutti versi» di Mommsen45.
Dalle parole della lettera di Carducci a Chiarini del 28 dicembre occorre dunque concludere che in qualche modo, dopo la sua visita a Malfatti, Mommsen deve avere avuto un contatto diretto con il poeta. Non essendoci pervenuta corrispondenza tra Mommsen e Carducci, la cosa più probabile è che lo storico tedesco gli abbia fatto visita a Bologna. Esprimeva almeno l’intenzione di farlo in una lettera a Wilamowitz del 22 ottobre 187946. Nella sua recensione su «Il Fanfulla della Domenica» Chiarini conferma che Mommsen si recò a Bologna a trovare il Carducci, e che durante la conversazione si parlò anche della metrica delle Odi barbare: il Mommsen sostenne «che a riprodurre gli antichi metri classici era molto più atta la lingua tedesca della nostra (e il Carducci non ebbe, credo, voglia di contraddirlo)»47. Con la sua lettera del 22 ottobre 1879 Mommsen mandava al genero un «pacchetto» con un libro di componimenti carducciani, con tutta evidenza l’edizione del 1877 delle Odi barbare (quella, cioè, che conteneva quattordici liriche e da lui sfogliata in casa Malfatti) e gli comunicava di essersi cimentato a tradurne uno dei migliori componimenti. È, questo, il primo cenno al lavoro di traduzione che i due porteranno a termine con grande celerità nelle settimane seguenti48.
In questa lettera del 22 ottobre 1879 Mommsen traccia al genero un ritratto molto vivace del Carducci, definendolo una figura tipica dell’Italia del tempo, un uomo nel quale un talento non ordinario si incontra con una maleducazione ordinaria, l’idolo dei repubblicani italiani, peraltro molto innocui, cosa che, aggiunge, non gli impedisce di scrivere strofe molto carine sul diadema di diamanti di Margherita. Mommsen prevede che Wilamowitz riderà delle strofe alcaiche di Carducci, ma giudica ben riusciti i suoi versi sdruccioli e i giambi, e «rispettabile e giusta» la reazione carducciana a ciò che in Italia chiamavano “lirica”49.
Tra Mommsen e Carducci il rapporto fu molto meno cordiale che con Hillebrand. Non che mancasse stima reciproca. E vi era anche una qualche similitudine di temperamento e una certa consonanza di ideali politici democratici, cose tutte, che, invece, mancavano tra Carducci e Hillebrand, il quale si era definito a Carducci un «reazionario», pur essendo in realtà un liberal-conservatore. Ma quella stima era come trattenuta da un senso di antipatia istintiva; turbata da una sensazione di diffidenza da parte dell’italiano, che vedeva esponenti della scienza storica tedesca (Niebuhr, Gregorovius, Mommsen) quali «dotti uomini in vero», ma «stillanti eloquentemente disprezzo per gl’italiani»50. Tale stima era guastata dalla divergenza di idee e di giudizi sul valore dello svolgimento letterario e culturale nella Penisola italiana dall’Antichità romano-latina in poi, che la scienza tedesca tendeva, da un lato, a considerare, quanto ai suoi primi secoli, più come un’imitazione della civiltà greca che un’espressione originale ed esemplare di creatività artistica, di genio intellettuale, e, dall’altro, nei secoli seguenti della civiltà latino-italiana, a ridimensionare ravvisandovi un non trascurabile influsso germanico. Inoltre quella stima fu esplicitata più da Mommsen verso Carducci che viceversa. A Carducci, infatti, lo storico tedesco, del quale lesse senz’altro almeno la Storia romana51, era cordialmente antipatico («Eccolo là, rigido, duro, impalato, con la grinta di chi beve l’aceto», aveva scritto di lui nel 187252) e non perdette occasione di criticarlo per la sua critica al periodo repubblicano della storia di Roma, per la sua interpretazione riduttiva della civiltà latina e delle sue filiazioni, per avere negato «al popolo italiano altro genio che quel delle farse»53.
Mommsen, invece, qualche giorno dopo avere inviato la “strenna” del 24 dicembre 1879 a Carducci, scriveva il 7 gennaio 1880 al fratello Tycho, che aveva espresso un parere sprezzante su Carducci, parole di schietta ammirazione verso il poeta «An Charakter wie an Kunst hat Italien seit Giusti keine zweite ähnliche Erscheinung gehabt, und die Aufmerksamkeit auf ihn ist in Italien wie bei uns sehr lebhaft geworden»54.
Può darsi che anche Hillebrand abbia ricevuto da Carducci una copia del libretto di traduzioni di Mommsen e Wilamowitz, ma non fece in tempo a citarlo nella sua prefazione alla prima, ampia raccolta di traduzioni in tedesco di una scelta di poesie carducciane55. Queste traduzioni furono procurate da Bettina Jacobson e precedute, oltre che dalla Vorrede di Hillebrand, dal testo tedesco della prefazione scritta da Carducci il 19 febbraio 1871 per la prima edizione delle sue Poesie56. La raccolta comprendeva quattordici componimenti dalle Poesie, tredici dalle Nuove poesie, sette dalle Odi barbare, e, in appendice, un frammento dalla Canzone di Legnano e una nuova versione de Il Canto dell’Amore. Questa edizione, che contribuiva, anch’essa, a rendere sempre più copiosa la «pioggia» di Carducci in Germania, fu preparata nel 1879 e uscì, probabilmente, già alla fine di quell’anno, quindi contemporaneamente alla strenna natalizia di Mommsen, pur portando la data di edizione del 1880. Il 29 dicembre 1879, infatti, Heyse già l’aveva in mano stampata. e ne scriveva a Chiarini, nella persuasione che il traduttore, indicato sul frontespizio come «B. Jacobson», fosse un uomo: «Das Büchlein des B. J. ist ganz trefflich und wird dem Dichter Freude gemacht haben und Freunde werben»57. Anche Carducci attesta che la silloge uscì a fine 1879 e attribuisce il lavoro di traduzione ad un uomo, dato che il 28 dicembre 1879 scriveva a Chiarini: «Non ho avuto il Jacobson, l’ordino»58. A Hillebrand fu chiesto (purtroppo non sappiamo da chi) di premettervi un saggio critico di introduzione che è una prova del vigore del suo giudizio critico-estetico, della sua estesa conoscenza della lirica europea e della sua sensibilità letteraria e poetica. In particolare vorrei evidenziare come egli eviti ogni giudizio polemico sul tentativo di Carducci di rendere in italiano la strofa saffica, asclepiadea, alcaica, come egli dia di questo tentativo un giudizio sereno, tollerante, privo di qualsiasi accento di orgoglio nazionale. Di tale saggio si presenta qui di seguito la versione italiana.
I rapporti tra Carducci e il suo primo «scopritore» in Germania, Karl Hillebrand, sono attestati fino al 1880 e rimasero cordiali. Nel 1877 Carducci ricevette, forse dallo stesso autore, il primo volume di un’opera sulla storia francese contemporanea che, nei piani di Hillebrand, avrebbe dovuto coprire il periodo 1830-1870, ma che, per la sua morte, rimase interrotta al 184859. Tra il 1877 ed il 1878 Hillebrand collaborò con Carducci e col traduttore Giuseppe Chiarini ad una versione italiana dell’Atta Troll di Heine, che reca la dedica a Paul Heyse60. L’episodio più significativo è, però, il tentativo fatto da Hillebrand nel dicembre 1877 di indurre Carducci a collaborare alla «Rassegna Settimanale». Ed è, credo, interessante notare che i due giovani toscani Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti si siano serviti proprio dello “straniero” Hillebrand, ritenendolo, evidentemente, in buoni e cordiali contatti con Carducci, per tentare di convincere il poeta a collaborare al periodico di cultura e di politica da loro fondato e finanziato, e ispirato dal forte impegno civile e morale di Pasquale Villari61. Sin dall’inizio, nel 1877-78, Hillebrand fu un convinto sostenitore di questa impresa, non solo e non tanto nella sua denuncia della questione sociale in Italia e nella riflessione sui rimedi che, in primo luogo, lo Stato doveva porvi, ma soprattutto perché espressione dell’ardito tentativo di contribuire a dare vita in Italia ad una cultura in grado di svolgere una funzione di vero rinnovamento morale e politico. Hillebrand la considerò un’iniziativa coraggiosa e necessaria all’Italia, e si adoperò attivamente per diffonderne la conoscenza anche in Germania62.
L’11 dicembre 1877 scriveva al Carducci per ringraziarlo dell’invio delle Odi barbare e per presentargli Sonnino e Franchetti e la rivista che intendevano
fondare:
Cher Monsieur,
Voulez-vous me permettre de vous présenter deux jeunes gens de Florence, M. S. Sonnino et M. Leopoldo Franchetti, les auteurs de la Sicilie en 1876, et de leur servir d’interprète auprès de vous? Ces Messieurs vont fonder une Revue hebdomadaire, absolument au dessus et au dehors des partis. Ils sont sincères, ardents, riches et prêts à tous les sacrifices. Ils voudraient réunir toutes les forces (vraiment fortes) de l’Italie; et il va sans dire qu’ils ont pensé d’abord à vous. Voudriez-vous leur donner de temps an temps une variété, soit poétique, soit critique? Moi-même j’ai promis de leur en donner. […] Vous avez tant de choses à dire que vous n’avez que l’embarras du choix; mais je m’imagine qu’un article de 3 à 4 colonnes exposant par exemple votre “poétique”, ou vos principes de métrique – la raison pour ainsi dire de vos Odi barbare ou plutôt de leur forme, de les [sic] formes poétiques en général et de ses [sic] rapports avec la pensée poétique irait admirablement […]63.

Il 14 dicembre 1877 Carducci gli rispondeva di non aver molta fiducia in queste Riviste italiane che escono a brillar per un momento o a meglio mostrare il gran buio in cui siamo […] e poi ho sempre gran timore, in questa bassezza del livello intellettuale e morale a cui è l’Italia, d’impegnar troppo, scrivendo in un periodico, l’autonomia e l’autocrazia del mio pensiero.

Si rifiutava di inviare alla rivista un articolo sulla metrica o la poetica delle Odi barbare, perché non voleva interpretarsi «a questa borghesia italiana, tutt’altro che artistica». Proponeva articoli «su l’andamento di quelli che col titolo di Arte e critica ripubblicai nei Bozzetti critici», ma esigeva che nulla fosse cambiato del loro testo dalla redazione. Quanto all’eventualità di pubblicare poesie nella Rassegna, aggiungeva:
Poesia? Io non so e non intendo come in Italia ci sia voglia di poesia ancora, e anche nei giornali. La poesia è inutile; ma a punto perché inutile, costa molto. Solo a questo prezzo ella può farsi rispettare. Quando i Signori Franchetti e Sonnino mi avranno spiegato che cosa intesero colla clausula manoscritta che mi aggiunsero al loro programma ‘Per la poesia non ci è tariffa che tenga’, allora io potrò parlare di 4 capitoli di un Intermezzo che potrei dar loro a pubblicare e di qualche altra cosetta64.

Come che sia, Hillebrand rispose a Carducci il giorno dopo, il 15 dicembre 1877, dandogli ragione, e tuttavia esprimendo il parere che
un tentativo così generoso di reagire contro il torpore intellettuale e contro lo spirito di consorteria che regna pur troppo nella vita politica del paëse […] non debba essere scoraggiato. Pei S.ri Sonnino e Franchetti non ci sono parenti né amici che tengano; vogliono dire la verità a tutti e in tutto ed hanno provato che ne hanno il coraggio. Di più (questo frà di noi) hanno deliberato di perdere (perte sèche) 40.000 Lire il primo anno ed occorrendo 20.000 il secondo anno. Eglino rispettano talmente l’indipendenza d’altrui che se Ella gli favorisse d’un articolo critico, non ci sarebbe corretta nemmeno una virgola.

Quanto all’onorario per la poesia, Hillebrand interpretava la “clausula” riportata da Carducci in questo modo: «Questi Signori si sono detti che la poësia […] non si può misurare né calcolare a tanto il metro; che un sonnetto del Carducci per loro vale più che 4 colonne di prosa di un altro»65.
Nonostante le parole di Hillebrand, Carducci in un primo momento persistette nella sua diffidenza e renitenza a dare qualcosa di suo alla «Rassegna», come è attestato da alcune fonti di quei giorni di dicembre 187766, e, ai primi di gennaio 1878, scrisse a Sonnino per rifiutare l’offerta, trovando che il «clima» della «Rassegna» non fosse per la sua «respirazione di poeta», e che non poteva intendersi con lui e con Franchetti né «in poesia», né tanto meno «per la prosa»67. Alla fine, però, qualche suo contributo finì per darlo68.
Nell’inverno 1880-1881 Hillebrand si ammalò di tubercolosi, la malattia che lo portò alla morte precoce. Dopo il 1880 non si ha notizia di altri contatti tra i due. Hillebrand si spense a Firenze il 18 ottobre 1884 a soli 55 anni.

Anna Maria Voci





Karl Hillebrand, Prefazione a: Ausgewählte Gedichte von Giosué Carducci. Metrisch übersetzt von B. Jacobson, mit einer Einleitung von Karl Hillebrand, Leipzig, Friedrich, 1880, pp. V-XXIV.

Allorché l’Autore di questa prefazione – prefazione: profazione69. Perché no? – sei anni fa attirò l’attenzione del pubblico tedesco su Giosué Carducci e si arrischiò a chiamarlo uno dei più importanti, forse il primo poeta europeo dalla morte di Heine70, Carducci era ancora del tutto sconosciuto in Germania, e, in Italia, il suo rilievo ancora molto discusso. Oggi, nella sua patria, egli è il sovrano riconosciuto del Parnaso, anzi, il capo, pur se riluttante, di una considerevole scuola; Paul Heyse e l’eccellente traduttrice della Vita Nuova dantesca, B. Jacobson71, hanno volto in tedesco, e nella maniera più riuscita, parecchie delle sue cose; anche Julius Schanz ha tradotto in tedesco qualcosa di lui, tra l’altro l’Inno a Satana, così spesso citato72.
Quando dico «nella maniera più riuscita», queste parole devono pur sempre intendersi cum grano salis. Non faccio parte della schiera di coloro i quali ritengono che le traduzioni di poeti possano mai sostituire l’originale. Anzi, mi prendo la libertà di trovare piuttosto debole persino la versione di Shakespeare fatta da Schlegel e Tieck73, della quale noi Tedeschi andiamo così orgogliosi, se la prendo in mano dopo aver letto il testo inglese, e piuttosto stentata e poco tedesca, se la leggo dopo il Wallenstein o l’Ifigenia. E, infatti, già il parroco di Don Chisciotte – un crititco veramente non disprezzabile – asseriva che «todos aquellos que los libros de verso quisieren volver en otra lengua, que, por mucho cuidado que pongan y habilidad que muestren, jamás llegarán al punto que ellos tienen en su primer nacimiento»74. Può darsi che poeti minori, nei quali capacità espressiva e di pensiero non sono né così perfettamente unite, né così assolutamente peculiari come in Carducci, presentino minori difficoltà; in quest’ultimo il compito è quasi insolubile.
Dalla pubblicazione del volumetto di Nuove poesie75, che recensii nel novembre del 1873, Carducci ha pubblicato una breve raccolta di Odi barbare76, che hanno avuto un successo sonoro e hanno suscitato ancor più sonore obiezioni. Egli ha inoltre dato alle stampe nella «Rassegna Settimanale» – un periodico politico-letterario degno di affiancare i migliori fogli tedeschi e inglesi – e nel «Fanfulla della Domenica», nonché in opuscoli separati, singole poesie e frammenti di poesie che hanno grandemente contribuito a consolidare la sua fama – agli occhi di taluno, però, anche a scuoterla. L’occasione per la maggior parte di queste ultime poesie è data da eventi contemporanei; altre, come Il Canto dell’amore77 e l’Intermezzo78, sono liberi frutti della Musa. Le une e le altre sono, in talune parti, tra le cose migliori scritte da Carducci.
Dico apposta “in talune parti”; e, infatti, l’ode all’ultimo (?) Napoleonide in Sud Africa79, e il parallelo satirico tra le donne romane che assistevano alle lotte dei gladiatori con quelle presenti alla Corte d’assise nel dibattimento del processo Fadda80, hanno, accanto a flutti ondeggianti e cristallini scorrenti in un letto stretto, anche passi dove l’acqua è poco profonda, dove la corrente, allargandosi, minaccia di arenarsi, o, ancor peggio, di divenire torbida e melmosa. So bene che Carducci non nutre la pretesa di essere un poeta per scuole femminili. Si presenta volentieri come un moderno Rabelais. Ma, in fondo, è altrettanto poco rabelaisiano del tempo per il quale scrive. Anche quando la rabelaisiade è serena e naturale come in Heine, è, tuttavia, solo l’arguzia a rendercela godibile. Ma a Carducci manca sia l’arguzia, sia la serenità. Da tutte le sue poesie traspare un temperamento collerico e, in più, le sue trivialità tradiscono l’intenzione: egli vuole scandalizzare le persone costumate; pertanto esse hanno per lo più un odore che è ancor meno gradito a sani nervi olfattivi che al senso schizzinoso del decoro. Le sconcezze del Simplicissimus81 non sono mai indecenti, come le nudità degli antichi mai appaiono “svestite”. Le nudità nelle poesie erotiche di Carducci posseggono anche, per le più, questa sana naturalezza. Il suo senso per la bellezza gli consente, qui, di sorvolare felicemente sulle scogliere, la sua sensualità ha così poco di moderno e di corrotto quanto le Elegie romane82. In questo egli è decisamente superiore anche a Heine – al giovane Heine almeno; soprattutto egli si distingue dai suoi stessi imitatori. In costoro la sensualità degenera in lascivia, il vero dell’arte decade al vero della natura, a ciò che i signori – poeti, pittori e scultori – in questo paese chiamano “verismo”.
Certamente anche Carducci è stato sin dall’inizio un artista. Alla pari di tutti i giovani di talento egli iniziò come imitatore e schiavo della sensualità, che l’artista deve soggiogare. Un giovane non può essere originale: gli stessi Goethe e Shakespeare non lo erano. Un giovane non riesce ad oggettivare la sua sensualità; ha bisogno, al pari di Schiller, o di Heine, dell’arte come del veicolo della sua sensualità. I Juvenilia83 di Carducci sono quasi tutte prove così immature come la maggior parte delle poesia scritte a Lipsia da Goethe. I sonetti che scrive a Goldoni, Metastasio, Monti, sono poesie da liceale; deboli anche nella forma, prive di unità, senza quella capacità di sintesi concettuale che il sonetto richiede. Già ben più importanti sono i Levia Gravia84, nei quali l’arte dell’imitazione – un’arte di rango inferiore – è spinta fino alla perfezione. Si vede come lo studio del Trecento gli abbia dato frutti abbondanti. E, infatti, Carducci è anche un dotto, e uno molto valente. La sua edizione di Cino da Pistoja85 e delle poesie di Angelo Poliziano86, i suoi lavori su Petrarca87 sono tra le cose migliori prodotte in Italia dalla critica storico-letteraria, ed il suo nome è ben conosciuto anche tra i romanisti transalpini. Talvolta, tuttavia, esagera nei suoi componimenti giovanili. Taluni pastiches hanno anche una loro giustificazione, dato che non vogliono sembrare altro che quello che sono; ma quando nelle poesie, che vorrebbero apparire originali, si accumulano troppi richiami a consuetudini passate di stile e di pensiero, allora il lettore si stanca. Forme tra le più gracili, quasi scarne, giottesche, si stipano spesso con contorsioni di membra che ricordano il virtuosismo di qualche allievo di Michelangelo; la più concisa locuzione dantesca con il secentismo più esuberante. Ancor oggi Carducci non ha superato l’influsso di quest’ultimo; o, per essere più precisi, dopo che quello stesso pareva superato, erompe di nuovo di tanto in tanto nelle sue ultime poesie. Inversioni temerarie, quali
E i ruinati già pe’l declivio
Dell’età mesta giorni risursero

ricordano le sue poesie giovanili. Rispunta anche il cumulo degli aggettivi – credo che non vi sia alcun pezzo delle Odi barbare nel quale non ricorra l’aggettivo roseo – che nelle Nuove poesie aveva fatto posto ad una sana semplicità; lo stesso vale per l’abuso dei nomi mitologici e classici e delle allusioni alla maniera di Dryden. In linea di massima mi sembra che le Nuove poesie (1873) abbiano segnato il vertice del talento carducciano, per quanto nelle Odi barbare e nei frammenti recentemente pubblicati88 vi sia qualche pezzo nel quale egli ha superato quelle poesie del periodo medio della sua produzione. Peraltro Carducci si lasciò relativamente presto alle spalle la fase dell’imitazione. Già nel Canto di Primavera89, e ancor più nel Carnevale90, aveva trovato se stesso, semplificato il proprio stile: solo non aveva ancora imparato ad essere conciso. In queste poesie, come nel Febo Apolline91, e nel Congedo (1863)92, il lungo svolgimento del pensiero guasta ancora il meraviglioso effetto delle prime, piene strofe. Evidentemente, l’esempio di Victor Hugo lo ha sedotto, invece di intimorirlo. Victor Hugo è un grande genio poetico; ma ha scritto solo poche poesie leggibili, perché non ha mai saputo limitarsi. L’amplificazione è il pericolo più seducente di ingegni eminenti. Scorgono di colpo così tanto in un pensiero, in una situazione, che vorrebbero mostrarlo anche a tutti i lettori. E qui l’intelligenza artistica deve venire loro in soccorso, metterli in guardia come Mentore Atena, in modo da non cedere a se stessi. In Carducci tale ammonitrice si presentò anche precocemente ed egli imparò a darle ascolto – per quanto non sempre. Anche le reminiscenze classiche sono troppe nelle ultime poesie carducciane, cosa che, del resto, dipende da tutto il suo orientamento.
La rilevanza storico-letteraria di Carducci – che non è inferiore a quella estetica – consiste nel fatto che egli avviò la reazione del Classicismo antico al Romanticismo. Nessuno vi era adatto più di lui. La sua origine toscana, la sua solida cultura, il suo meraviglioso talento per la forma ve lo rendevano idoneo in sommo grado. Carducci gioca con tutte le forme in maniera leggera e graziosa, e supera le difficoltà apparentemente più insuperabili senza che si noti mai il minimo sforzo. Si legga, ad esempio, il suo magnifico componimento I poeti di parte bianca93 – una delle sue creazioni più perfette – dove compaiono cantori medioevali e maneggiano i versi e lo stile del tempo in modo così spontaneo tanto che si crede di ascoltare trovatori provenzali. Carducci festeggia il giorno di Mentana94 nel metro del Cinque Maggio, che gli scorre così facilmente nella penna come mai solo a Manzoni. Ha portato alla perfezione il martelliano, ad esempio nella poesia Sui campi di Marengo95; e non è una cosa da poco rendere piacevole agli Italiani il verso alessandrino – il verso martelliano non è altro, solo che non richiede l’alternanza tra rima femminile e maschile. La lingua italiana consente, è vero, di trattarlo in modo più abbondante, vivace e sonoro che la nostra; tuttavia, l’alessandrino italiano consegue solo raramente la varietà e la leggerezza del francese, per le quali è appunto necessaria la mancanza di accenti della lingua francese. Né credo che il verso si imporrà durevolmente. Allo stesso modo Carducci ha tentato di introdurre nella lingua italiana gli antichi metri lirici, il saffico, l’alcaico, l’asclepiade, e ha prodotto cose stupende, ma non gli riuscirà di procurare agli stessi un diritto duraturo di cittadinanza nella poesia italiana. Persino da noi, e nonostante Klopstock, Hölderlin, Platen, il verso delle odi è rimasto un estraneo e deve il modesto posto che occupa solo al fatto che i primi tentativi caddero in un’epoca nella quale la nostra arte poetica era in via di formazione, né disponevamo ancora di forme certe. Carducci si è avventurato in quel tentativo – che, peraltro, non è il primo in assoluto – ma la sua lingua ha alle spalle seicento anni di forme poetiche certe. Ed è egli stesso a dubitare della possibilità di successo: le avrebbe altrimenti chiamate Odi barbare, avvertendo quanto barbare, nonostante la loro perfezione, debbano essere suonate all’orecchio greco? Come si è espresso nel Preludio96, poesia singolarmente bella, forse la più perfetta tra tutte le sue, che Paul Heyse ha felicemente tradotto in tedesco, a lui premeva soprattutto reagire contro la forma metrica tremolante-comoda dei contemporanei, come già Goethe e Schiller, reintroducendo le forme drammatiche francesi, vollero protestare contro la maniera compositiva troppo libera degli scrittori di teatro loro contemporanei. In Italia le forme consuete erano divenute un vestito da casa talmente comodo che anche quello spirito, che pur era ancora insito in loro, aveva assunto qualcosa di filisteo-quotidiano. Bisogna, ad esempio, leggere le vuote poesie di Aleardi o le effusioni inesauribili di Prati per persuadersi della necessità di una reazione. Non mi si fraintenda: nessuno più di me è in grado di ammirare sinceramente talune poesie di Prati: è, infatti, come se egli cantasse «come canta l’uccello che vive tra i rami»97: ma per un’inestimabile melodia quante centinaia di modi monotoni, che rammentano l’ininterrotto stillare di una fontana!
E non solo nei versi, anche nell’intero trattamento Carducci è uomo dell’antichità, un reazionario. Si legga la sua stupenda poesia Classicismo e Romanticismo98, dove contrappone l’astro diurno, fecondo, caldo e splendente, a quello notturno, freddo, sterile, velato. È significativo che, perciò, le sue imitazioni di poeti tedeschi, come di Heine, la cui ironia egli non afferra mai abbastanza, o come di Platen, che egli senz’altro sopravvaluta, non gli riescano bene. Persino nei confronti di Shakespeare non ha un vero e proprio rapporto; come potrebbe, altrimenti, chiamarlo l’Eschilo «che su l’Avon rinacque»99? Anche le reminiscenze di Heine nelle sue stesse poesie – e ve ne sono molte, come in Fantasia, nella Piazza di San Petronio, nelle Fonti del Clitumno100 – sono stonature, che feriscono in quei pezzi anticheggianti. Heine fu, infatti, in tutto un romantico, cioè universale e ironico, con un tono di fondo pieno di fantasia. Carducci è tutto classico, italo, plastico. E non ci si inganni: persino lì dove gli riesce di riprodurre in versi, ingannevolmente somiglianti, pie leggende o invocazioni medioevali, come in quelli Alla Beata Diana Giuntini101, rimane sempre chiaro e definito come i meridionali; la fantasia e la mistica gli sono lontane. Anche la mitologia antica, che Heine vede sempre attraverso la nebbia offuscante di due millenni, si manifesta in Carducci nuda e chiara con contorni definiti, e nessun chiaro di luna getta la sua luce tremolante e incerta sulle sue figure marmoree, come sul Bacco e le Baccanti di Heine102. I folletti, gli elfi, gli gnomi, tutte le storie tedesche delle streghe sono un mondo estraneo a Carducci. E non gli si può dar torto per il fatto che il Romanticismo italiano, che non conosce nulla dell’affascinante mondo fantastico dei nostri, il cui intero Medioevo si riduce alla cavalleria convenzionalmente devota dell’invenzione di Chateaubriand, gli sia sommamente antipatico; per ciò anche la sua esagerazione nel sottolineare la sensualità e la pienezza antica di contro a questo costume teatrale vuoto.
Non che Carducci non abbia compreso la grandezza del Medioevo: ma, direi, è l’Antichità che lo eccita nel Medioevo, nella forma e nel contenuto. Nella forma l’espressione precisa, concisa del Trecento; nel contenuto la disputa tra l’antico impero romano e le antiche repubbliche latine. Carducci prende purtroppo raramente in mano lo stilus epico; ma, quando lo fa, non saprei chi gli sia pari tra i poeti moderni. Il suo racconto dell’imperatore Barbarossa103, che, accerchiato dall’esercito dei Lombardi, sembra non potersi sottrarre alla morte, ma ecco che il nome imperiale è più forte del ferro, ed egli vi confida, e tutti si inchinano davanti ad esso:
Quando in conspetto a l’aquila gli animi ed i vessilli
D’Italia s’inchinarono e Cesare passò

è un piccolo epos in una dozzina di strofe. Ricorda la traversata per mare dell’imperatore Carlo di Uhland104; solo che quello è, appunto, storico-antico; questo ironico-romantico. Il frammento carducciano della battaglia di Legnano – nella «Rassegna Settimanale»105 –, la sua descrizione dello schieramento umbro contro Annibale nelle Fonti del Clitumno, sono prove ineguagliate. Qui è la sua vera forza. Peccato solo che egli per lo più preferisca il comodo lirismo, del quale il nostro tempo e l’Italia non sente veramente la mancanza.
Come si vede, Carducci sceglie sempre temi italiani, e anche nel suo anticheggiare è più latino che greco. Tra le sue poesie italiche soffia come una corrente d’aria dalle Georgiche virgiliane. Le sue descrizioni della campagna toscana e della grassa Romagna sono di un’inimitabile freschezza e forza. E non sono mai solo descrizioni. Già dall’Idillio maremmano106 si può ricavare in qual modo egli sappia sempre connettere la dimensione umana, spesso quella personale, con la natura. Deliziosa è, a tale riguardo, la poesia inedita che il curatore della terza edizione dei poemi giovanili di Carducci pubblica nella premessa107:
I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar
Quasi in corsa giganti e giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar

Ed egli sa animare ed umanizzare la natura non solo con i sentimenti in lui suscitati dal paesaggio, ma anche mediante il movimento degli uomini che vi agiscono, i loro negozi e rapporti primitivi. Così, ci par di vedere le ricche e fertili pianure, le colline coperte di alberi di olivi e vigneti, l’aia pulita e l’aperto podere in affitto, la coppia lattea di oche dagli occhi neri che avanzano pesantemente, tutto l’odore dei campi della bruna terra italica, e, insomma, l’intera antica Italia, l’Etruria soprattutto:
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
Nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
Patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
Gli itali Iddii.

La sua grandezza di poeta si manifesta soprattutto quando, assumendo questo tono locale, si limita ai particolari più minuti: e, infatti, ha bisogno di questa limitazione, per non cadere nel generico e nella retorica. Accanto all’elemento storico e locale è, però, quello personale in cui la sua musa si palesa nella maniera più gradevole. Carducci, che ha un così pronunciato talento per l’epica, è rimasto, in realtà, un poeta lirico. La sua ira, il suo amore, il suo dolore sono, infatti, sempre i toni di fondo dei suoi canti. Il dolore specialmente torna sempre a risuonare, o quando piange la morte precoce e tragica di un fratello amato, o quando descrive la casa deserta, dalla quale l’epidemia gli ha strappato il diletto figlio:
Ivi non più le stanze sonanti di risi e di festa
O di bisbigli, come nidi d’augelli a maggio.
— — — — — — — — — — — —
Invecchian ivi, nel’ombra i superstiti, a’l rombo
Del tuo ritorno teso l’orecchio, o dea,

grida all’inesorabile Dea della morte108. Persino nelle ultime poesie, e in mezzo alle satire più amare risuona ancora il lamento per il fratello perduto, che vibra nelle sue prime poesie giovanili. Così in Intermezzo109:
Miei dolci colli, ove fra’ lauri move
L’arte serena l’orme,
Ove Lionardo vide il sole e dove
Il mio fratello dorme
Dorme anzi sera e dorme a lungo e solo:
Aulisce il biancospino
Intorno al cimitero, e ferma il volo
Cantando un cardellino.

Certamente, le poesie d’amore di Carducci, anche le prime, hanno poco di wertheriano. È passione meridionale, sensuale, che ricorda più Catullo e Properzio che il canto tedesco, sensato, pieno di malinconia. E, posso confessarlo? Le poesie tarde, dove senza infervorarsi canta Bacco e Amore come gli Dei che danno gioia, mi sono le più care; e anche se qui e là una Cloe, o Glicera o Lesbia usurpano illegittimamente il nome dell’unica Lidia. Già all’inizio ho ricordato che la sua nudità non ha nulla di impuro e che il servum imitatorum pecus, che, adesso, crede di essere carducciano dedicandosi alla patologia erotica e all’anatomia, deve aver letto il Maestro con animo singolare.
I componimenti più noti di Carducci sono le satire, che sono effettivamente ammirevoli. Non intendo ripetere quanto ho già scritto in passato su queste frecce archilochee110. È soprattutto la sua satira spietata che gli ha dato quella grande popolarità di cui oggi gode, come Giusti, trent’anni fa, acquistò il favore popolare grazie alla satira. Non vi è da temere che la fama di Carducci sarà così effimera come quella di Giusti. La sua satira, come la sua lingua, non ha nulla di quel tono provinciale, del ridacchiare, delle punture di spillo di Giusti. Essa è ruvida, priva di riguardi, spietata. È l’ampio fiume dell’antica tradizione toscana che scorre tra i suoi versi, non il tono spiritoso-irridente, saltellante, increspato del moderno Toscano. Le satire di Giusti possono superare, per la loro arguzia – anch’egli non ha umore – quelle di Carducci: Giusti gli è, però, di gran lunga inferiore nello stile e nella visione; e, infatti, in nessun luogo Carducci è più diretto, più antico, che nell’insulto, come quasi definirei le crudeli satire nelle quali egli scortica i suoi Marsia. Di nuovo, non intendo copiarmi e rimando i lettori alle mie osservazioni sulle satire carducciane. Vorrei solo richiamare loro in mente che la “chiave”, senza la quale si ritiene di non poter comprendere il poeta satirico, non è necessaria in Carducci, come non lo è in Aristofane o in Orazio. In queste cose occorre non essere troppo pignoli. I personaggi principali ci sono noti; e, per ciò che concerne quelli secondari, non si farebbe un gran passo avanti qualora se ne conoscessero i nomi. Quanti Francesi sanno chi erano Vadius, Trissotin o Diafoirus? Provano per questo meno piacere leggendo il loro Molière111? Perfino nei testi degli antichi, dove la satira aveva un carattere personalissimo e non possedeva proprio nulla della tipizzazione di quella francese, niente ci impedisce di godere appieno della genialità dell’invettiva. La cosa principale rimane sempre la forma artistica, nella quale si presenta un qualcosa di umano. Ed è per noi affatto la stessa cosa sapere chi siano tutti i personaggi raffigurati sulla Disputa da Raffaello o nel Cambio da Perugino112. Se i personaggi vivono nella satira o nell’affresco, essi sono percepiti direttamente, ingenuamente, obiettivamente, in una parola al modo degli antichi; dei nomi e della storia non importa.
Purtroppo Carducci vede l’età moderna non sempre con gli occhi degli antichi e quando abbandona la satira per intonare l’inno può divenire talvolta abbastanza spiacevole. Comprendo bene l’amarezza di tutti i buoni Italiani sullo stato della loro patria, la delusione subentrata ad aspettative così alte, l’indignazione per l’abuso che la classe dominante fa del suo privilegio di governare. Tutti questi sentimenti, però, non devono rimanere attaccati alla realtà, il poeta li deve trasfigurare nell’arte, soprattutto non deve mettersi al servizio di un partito. A giudicare dalla sua poesia alla Regina113 e da quella al figlio di Napoleone III114, Carducci sembra essersi in certo qual modo liberato dai vincoli di partito, ma si tratta di rare eccezioni. Inoltre non è solo questione di svincolarsi dal partito, il poeta deve anche liberarsi del sentimento stesso: ira e sdegno possono essere oggetto di poesia, al pari dello scherzo e dell’amore; ma oggetto, non mezzo di espressione. Il poeta deve avvicinarvisi con un certo grado di indifferenza personale. Anche Dante era in tutto uomo di parte, anche la sua musa era il rancore; ma il rancore non lo sopraffece mai. Carducci non riesce spesso a divincolarsi dall’ira. Un po’ più di serenità, un po’ più di indifferenza non gli arrecherebbe alcun male. Un Omero, uno Shakespeare, un Cervantes ed un Goethe prendevano gli uomini e le cose come sono, non pretendevano che dovessero essere come avrebbero potuto essere, non si lamentavano sempre sull’ingiustizia del mondo, non schizzavano ininterrottamente fiamme contro i “tiranni”; al pari degli Dei dell’Olimpo, si libravano sull’umanità sorridendo con mitezza; non volevano migliorare, né convertire, non condannare, né crocifiggere; si accontentavano di spiegare al nostro occhio stupido la babele del mondo. L’altro atteggiamento è cosa dell’apostolo e del tribuno. Può anche darsi che apostolo e tribuno siano poeti, e non vorrei vedere cacciati dal Parnaso né Isaia, né Tirteo; ma non devono tendere la mano verso la corona più bella: essa è solo di colui che si solleva sui nostri interessi quotidiani, non prende partito nelle lotte intorno ad essi, ma guarda il mondo e mostra come esso è, come esso era. Anche Heine, che Carducci ammira così tanto, pervenne solo tardi su questa vetta, ma solo quando vi pose sopra, sicuro, il piede divenne quel grande poeta che la posterità venera.






NOTE
1 G. Carducci, Ausgewählte Gedichte. Metrisch übersetzt von B. Jacobson. Mit einer Einleitung von Karl Hilllebrand, Leipzig, Friedrich, 1880: Vorrede, p. V.^
2 Imola, Galeati, 1873.^
3 A Karl Hillebrand, e a questa recensione rinvia brevemente G. Cordibella, Carducci e la cultura tedesca, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, a cura di E. Pasquini e V. Roda, Bologna, Bologna University Press, 2009, pp. 355-383; pp. 356-357. Tale contributo è una «sommaria rassegna» (ivi, p. 371) sia della ricezione di Carducci in Germania, sia dell’interesse di Carducci per la poesia tedesca. ^
4 Su di lui rinvio a L. Haupts, Karl Hillebrand als Publizist und Politiker, Diss. Köln 1959; a W. Mauser, Karl Hillebrand. Leben, Werk, Wirkung, Dornbirn, Vorarlberger Verl. Anst., 1960; a R. Vierhaus, Zeitgeschichte und Zeitkritik im essayistischen Werk Karl Hillebrands, in «Historische Zeitschrift», 221 (1975), pp. 304-325; al capitolo a lui dedicato (Karl Hillebrand et la crise de la culture occidentale) nel lavoro di J. Nurdin, L’idée d’Europe dans la pensée allemande à l’époque bismarckienne, Bern-Frankfurt, Peter Lang, 1980, pp. 527-560, infine agli atti del convegno Karl Hillebrand eretico d’Europa, Firenze, 1-2 novembre 1984, a cura di L. Borghese, Firenze, Olschki, 1986, e a G. Marahrens, Über den problematischen humanistischen Idealismus von Karl Hillebrand, in: Autoren damals und heute. Literaturgeschichtliche Beispiele veränderter Wirkungshorizonte, hrsg. von G.P. Knapp, Amsterdam 1991, pp. 321-366. L’autrice di queste note sta preparando una biografia intellettuale di Hillebrand. ^
5 La sua principale raccolta di saggi è intitolata: Zeiten, Völker und Menschen, e uscì in sette volumi tra il 1873 ed il 1885. ^
6 G. Carducci, Lettere, III, Bologna, Zanichelli, 1945, pp. 219-222: p. 220 Cfr. anche la lettera successiva al Chiarini del 29 novembre 1862 (ivi, p. 237), in cui gli comunica gli estremi bibliografici esatti della seconda edizione del Dino. Il libro su Dino Compagni è la tesi di dottorato difesa da Hillebrand alla Sorbona nel 1861: K. Hillebrand, Dino Compagni. Étude historique et littéraire sur l’époque de Dante, Paris, Durand, 1861; ²1862. Hillebrand vi prese posizione a favore della genuinità della Cronica di Compagni. ^
7 Hillebrand a Carducci, Firenze s.d., ma aprile 1871: Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Karl Hilllebrand, cart. LXIV, 27, n. 17767, pubbl. in Karl Hillebrand eretico d’Europa, cit., pp. 289-290. La data si ricava dalla risposta di Carducci da Bologna, 28 aprile 1871, pubbl. in G. Carducci, Lettere, VI, Bologna, Zanichelli, 1943, p. 324. ^
8 Carducci a Chiarini, Bologna 13 gennaio 1863 (Carducci, Lettere, III, cit., p. 279). ^
9 Carducci a Chiarini, Bologna 14 gennaio 1865, in G. Carducci, Lettere, IV, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 163-165: p. 163. ^
10 Nella stessa lettera del 14 gennaio 1865, cit. in nt. preced., elenca a Chiarini le “moltissime brighe” che gli si erano “addensate intorno” quell’anno: una carica di consigliere di reggenza (“non si sa cosa abbia a consigliare”); una supplenza di letteratura italiana al liceo Guinizelli di Bologna; l’urgenza di finire uno scritto sulle rime di Dante; la revisione di “stampe del Monti e del Rucellai”; le lezioni all’Università. ^
11 K. Hillebrand, Études historiques et littéraires. Tome I. Études italiennes, Paris, Franck, 1868. ^
12 Carducci a Hillebrand, Bologna 9 febbraio 1869, pubbl. in G. Carducci, Lettere, VI, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 24-25.^
13 Bologna 15 gennaio 1869 (ivi, pp. 9-10: p. 10).^
14 Poesie di Giosué Carducci, Firenze, Barbèra, 1871. Il volume contiene i Juvenilia, i Decennalia e i Levia Gravia.^
15 Hillebrand a Carducci, aprile 1871, lettera cit. sopra, in nt. 7.^
16 Ibidem.^
17 Carducci, Lettere, VI, cit., p. 324.^
18 Cfr. sopra, alle nt. 2 e 3. Una risposta ai rilievi di Hillebrand al “giacobinismo” di Carducci fu data da E. Panzacchi nell’Introduzione alla terza edizione delle Nuove poesie, Zanichelli, Bologna 1879, alle pp. XXXVI e XL. ^
19 Ciò risulta dalla lettera di Chiarini a Carducci, Livorno 18 novembre 1873 (Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Giuseppe Chiarini, cart. XXXI, n. 8818). Ringrazio vivamente Matteo Rossini (Bologna, Casa Carducci, Biblioteca Museo Archivio) per avermi aiutato a rintracciare e avermi messo a disposizione per questo saggio i testi di questa e delle successive lettere di Giuseppe Chiarini e di Giulio Schanz a Carducci che citerò. ^
20 Carducci a Lidia (Carolina Cristofori Piva), Bologna 5 novembre 1873 (G. Carducci, Lettere, VIII, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 328-330: p. 330). ^
21 Lettera del 18 novembre 1873, cit. sopra, in nt. 19. Il 20 novembre 1873 Carducci comunicava a Chiarini che l’autore della recensione era Hillebrand (Carducci, Lettere, VIII, cit., p. 340). ^
22 Queste tre recensioni furono premesse, in versione italiana, alla seconda edizione delle Nuove poesie (Bologna, Zanichelli, 1875, pp. XXVII-XLII). Oltre a Hillebrand, Carducci aveva conosciuto personalmente anche Pichler: cfr. la sua lettera a Chiarini e quella allo stesso Pichler, entrambe del 16 settembre 1876, in G. Carducci, Lettere, X, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 229-230. ^
23 Hillebrand a Carducci, Firenze 14 aprile 1874 (Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Karl Hillebrand, cart. LXIV, 27, n. 17768). Rinnovava la richiesta il 6 giugno 1874 (Ivi, n. 17769). Cfr. anche le lettere del 20 agosto e 16 ottobre 1874 e del 4 febbraio 1876, ivi, nn. 17770, 17771 e 17772. ^
24 Cfr. le due lettere di Hillebrand a Heyse, da Firenze, una del 15 gennaio 1874, l’altra s.d., ma di poco dopo (Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Abteilung für Handschriften und Seltene Drucke, Heyse-Archiv VI. Hillebrand, Karl). ^
25 Hillebrand a Heyse, Firenze 6 febbraio 1874 (Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Abteilung für Handschriften und Seltene Drucke, Heyse-Archiv VI. Hillebrand, Karl). Non ci sono pervenute le lettere di Heyse a Hillebrand. ^
26 An den Satan, in Metrische Uebersetzungen. Aus dem Italienischen Zendrini’s und Carducci’s, von Julius Schanz, in «Italia», 2 (1875), pp. 247-266: pp. 258-264. ^
27 Una bibliografia delle recensioni e delle traduzioni di poesie carducciane in tedesco si trova nel volume monografico dedicato a Carducci della «Rivista d’Italia», IV/II, Roma, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1901, pp. 222-223. In questo elenco, che va dal 1873 (anno della recensione di Hillebrand) alla fine del sec. XIX ed è molto ben documentato, non è tuttavia ricordata la traduzione di Schanz dell’Inno a Satana, uscita nel 1875. Essa è, invece, menzionata nel lavoro di M. Dell’Isola, Carducci nella letteratura europea, Milano, Malfasi, 1951, p. 288. ^
28 Dal testo della recensione di Thaler apparsa sulla «Neue Freie Presse» di Vienna il 12 marzo 1875, ripubbl. in trad. ital. nella seconda edizione delle Nuove poesie carducciane, pp. XXXVII-XLII: p. XLII (cfr. sopra nota 22). ^
29 Ne scrive a lui lo stesso Schanz l’8 settembre 1868, da Como (Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Giulio Schanz, cart. CII, 110, n. 29179). Carducci ne riferisce, poi, nelle due lettere del 24 settembre a Carlo Gargiolli e a Felice Tribolati, e in una a Giuseppe Chiarini del 25 settembre 1868 (G. Carducci, Lettere, V, Bologna, Zanichelli, 1943, pp. 261-265). Dieci anni dopo, il 1° aprile 1878, Schanz scriveva a Carducci di avere già tradotto «una cinquantina» delle sue «stupende poesie» (Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Giulio Schanz, cart. CII, 110, n. 29186). Queste traduzioni rimasero per il momento manoscritte, ad eccezione dell’Inno a Satana e del Canto dell’Amore. ^
30 Der Gesang der Liebe. Deutsch von Julius Schanz, mit einer Widmung an Bernardino Zendrini zu seiner Hochzeit, Roma, Deutsches Schriftsteller-Hospiz, 1878. Su questa traduzione, che Schanz pregò Carducci di rivedere, richiesta che Carducci respinse „bruscamente”, sono conservate a Bologna, Casa Carducci, Epistolari, Giulio Schanz, cart. CII, 110, nn. 29184-29186 e 29188-29190 sei lettere di Schanz a Carducci scritte tra il 28 gennaio ed il 24 novembre 1878. ^
31 P. Heyse, Verse aus Italien. Skizzen, Briefe und Tagebuchblätter, Berlin, Hertz, 1880. ^
32 Queste due lettere, una nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, nel Fondo Heyse (Heyse-Archiv), l’altra di proprietà di Paolo Chiarini, sono citate da R. Bertozzi, Paul Heyse: le traduzioni da Giosué Carducci e il carteggio con Giuseppe Chiarini, in «Studi Germanici», 35 (1997), pp. 133-150: p. 133, nt. 1.^
33 L. Wickert, Theodor Mommsen. Eine Biographie, Band I., Frankfurt am Main, Klostermann, 1959, p. 260. ^
34 Cfr. la sua lettera a Chiarini del 28 dicembre 1879 (G. Carducci, Lettere, VI, Bologna, Zanichelli, 1879, pp. 189-190): «Ieri ti mandai un libretto di traduzioni delle cose mie fatte dal Mommsen e da un W. che io non so chi sia». La copia inviata da Mommsen a Carducci è oggi a Bologna, Casa Carducci.^
35 Tale esemplare si trova oggi a Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Heyse-Archiv XII-31,2, e, oltre alla dedica di Carducci, contiene anche, ai margini di alcune pagine, prove di traduzione dello stesso Heyse. ^
36 Cfr. V. La Monaca, Aggiornamenti epigrafici e traduzioni carducciane in una lettera inedita di Theodor Mommsen a Pietro Sgulmero, in Studi in onore di Adriano Rigotti, Rovereto, Edizioni Osiride, 2006, pp. 83-95. Devo a Marco Buonocore, che ringrazio, la segnalazione di questo saggio. ^
37 Wickert, Mommsen, I, cit., p. 555, nt. 216. ^
38 Wickert, Mommsen, I., cit., dove, tra le pp. 257-262 e 546-557, ricostruisce questa vicenda e i rapporti tra Mommsen e Carducci. ^
39 G. Chiarini, Impressioni e ricordi di Giosué Carducci, Bologna, Zanichelli, 1901. Fonte non usata da Wickert. ^
40 Bartolommeo Malfatti, storico, geografo ed etnografo, allora docente all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. ^
41 Di applicare, cioè, alla metrica italiana, basata sul criterio accentuativo, i criteri della metrica antica (strofa saffica, asclepiadea e alcaica), basata sul principio della quantità delle sillabe.^
42 Cioè di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, che aveva sposato la figlia primogenita di Mommsen, Marie. Lo stesso racconto della visita di Mommsen a Malfatti Chiarini fa nella sua recensione al volumetto di traduzioni carducciane di Mommsen (Carducci. 24. December 1879), Teodoro Mommsen e le «Odi barbare», apparsa ne «Il Fanfulla della Domenica» l’11 gennaio 1880. ^
43 G. Carducci, Lettere, XII, Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 189-190. ^
44 Chiarini a Carducci, Livorno 29 dicembre 1878 (ma lapsus calami per: 1879): Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Giuseppe Chiarini, cart. XXXI, n. 8950. La recensione uscì l’11 gennaio 1880 (cfr. nt. 42). ^
45 Ibidem. ^
46 Cfr. Wickert, Mommsen, I, cit., p. 25. A p. 550, nt. 190 Wickert sostiene che Mommsen, poi, non si fermò a Bologna durante il viaggio di ritorno in Germania in quell’autunno 1879. Lo fa sulla base di una lettera di Mommsen alla moglie, sempre del 22 ottobre 1879, dalla quale si ricaverebbe, in contrasto a ciò che scriveva a Wilamowitz il medesimo giorno, che egli non intendeva fermarsi a Bologna. Contro questa ipotesi di Wickert sta, però, l’affermazione dello stesso Carducci nella lettera a Chiarini del 28 dicembre 1879. Rinviando a un passo del lavoro di E. Hunziker, Carducci und Deutschland, Aarau, Sauerländer, 1927, p. 146, che egli stesso definisce «naiv», Wickert sostiene che Carducci avrebbe incontrato Mommsen a Firenze nell’ottobre del 1879. Hunziker, che non cita la fonte della sua asserzione, si basa con ogni probabilità sul racconto di Chiarini, sopra riportato nel testo, dal quale, però, non si ricava affatto la presenza del Carducci in casa Malfatti durante la visita di Mommsen, anzi, se ne deduce, al contrario, l’assenza. ^
47 Cfr. sopra, alla nt. 42. ^
48 Per le tappe di questo lavoro di traduzione, ricostruibili dalla corrispondenza tra i due studiosi tedeschi, rinvio a Wickert, Mommsen, I, cit., pp. 258-259. L’8 dicembre 1879 il manoscritto era già in tipografia a Berlino. ^
49 Ivi, p. 258. ^
50 Cfr. Wickert, Mommsen, I, cit., pp. 556-557, nt. 228. ^
51 Da diversi passi di lettere a Chiarini si ricava che Carducci acquistò (o almeno intendeva acquistare) cose del Mommsen. Il 10 aprile 1864 parla di una traduzione italiana, riferendosi probabilmente alla Storia romana, la cui traduzione italiana (per cura di Giuseppe Sandrini) uscì tra il 1857 ed il 1865. Il 12 dicembre 1864 parla di fascicoli del Mommsen, riferendosi, forse, sempre alla Storia romana. Ancora il 5 settembre 1867 comunica di avere avuto del Mommsen «fino alla dispensa 23-24», probabilmente della Storia romana: cfr. Carducci, Lettere, IV, cit., pp. 47 e 139; V, cit., p. 137. ^
52 Wickert, Mommsen, I, cit., pp. 258 e 549. ^
53 Nel suo discorso Del rinnovamento letterario in Italia del 1874, riferendosi, naturalmente, al famoso passo del I libro cap. XV, della Storia romana di Mommsen. Del 1877 è un’allusione ostile a Mommsen, che però non è nominato, nella poesia Nell’annuale della fondazione di Roma, una delle Odi barbare. Cfr. Wickert, alle pp. indicate nella nt. preced. ^
54 Wickert, Mommsen, I, p. 257. ^
55 Cfr. sopra, alla nt. 1. ^
56 Cfr. sopra, alla nt. 14. ^
57 Lettera cit. da Bertozzi, Paul Heyse, cit., p. 137. ^
58 Carducci, Lettere, VI, cit., p. 190. Una recensione di questo «piccolo canzoniere», che riconosce come l’arduo lavoro di tradurre le liriche carducciane fosse ben riuscito e come la traduzione fosse «fedele» ed insieme «elegante», si trova, non firmata, nella Rassegna Settimanale, 7 (1881), p. 206 (numero del 27 marzo 1881). ^
59 K. Hillebrand, Geschichte Frankreichs von der Thronbesteigung Louis Philippes bis zum Falle Napoleons III. Teil 1.: Die Sturm- und Drangperiode des Julikönigtums (1830-1837), Gotha 1877 (²1881). Cfr. le due lettere a Chiarini del 26 luglio e 26 settembre 1877 (G. Carducci, Lettere, XI, Bologna, Zanichelli, 1958, pp. 159 e 184). ^
60 Enrico Heine, L’Atta Troll, tradotto da Giuseppe Chiarini, con prefazione di Giosué Carducci e note di Carlo Hillebrand, Bologna, Zanichelli, 1878. ^
61 Su questo periodico rinvio a P. Carlucci, La “Rassegna Settimanale” (1878-1882). Il percorso originale di una rivista militante, in Le riviste di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, a cura di M.M. Augello-M. Bianchini-M.E.L. Guidi, Milano, Angeli, 1996, pp. 443-470, e, per le sue origini, al libro della stessa Carlucci, Il giovane Sonnino tra cultura e politica 1847-1886, Roma, Archivio Guido Izzi, 2002, pp. 121-139. ^
62 Sulla collaborazione di Hillebrand alla Rassegna rinvio al saggio di M. Moretti, Karl Hillebrand e la «Rassegna Settimanale», in Karl Hillebrand eretico d’Europa, cit., pp. 79-125. Nella monografia su Hillebrand che sto preparando sono tornata su tale collaborazione e sulla propaganda da lui fatta in Germania in favore di questa. ^
63 Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Karl Hillebrand, cart. LXIV, 27, n. 17773. ^
64 Firenze, Archivio Contemporaneo-Gabinetto Vieusseux, Fondo Hillebrand-Deposito Mauser, pubbl. da W. Mauser, Incontri italiani di Karl Hillebrand, in «Nuova Antologia», 1957, n.469, pp. 541-550: p. 549. ^
65 Bologna, Casa Carducci, Corrispondenti, Karl Hillebrand, cart. LXIV, 27, n. 17774. ^
66 Cfr. le due lettere a Lidia (Carolina Cristofori Piva) del 16 dicembre 1877 («Un nuovo giornale di Firenze, fondato da due israeliti che hanno l’ottima idea di rimetterci 60 mila lire, pur che vada, mi scrivono che per le mie poesie, se voglio darne, non vi sarà tariffa»), e a Giuseppe Chiarini del 17 dicembre 1877 («Hillebrand mi scrisse chiedendomi poesie o prose per la Nuova Rivista che uscirà in Firenze fondata da Franchetti e Sonnino. Darò, se mi daranno quello che ho chiesto, 4 capitoli dell’Intermezzo») in G. Carducci, Lettere, XI, Bologna, Zanichelli, 1947, pp. 211-213. ^
67 Carducci a Sonnino, 7 gennaio 1878, in Carducci, Lettere, XI, cit., pp. 230-231. ^
68 I suoi pochi contributi, usciti tra il 1878 ed il 1881, si trovano elencati in Moretti, Karl Hillebrand e la «Rassegna Settimanale», cit., p. 84, nt. 11. ^
69 Hillebrand gioca qui con le due parole «Vorwort», nell’accezione di pre-fazione, e «Fürwort», nel significato di intercessione a favore di qualcuno, quindi pro-fazione. ^
70 Cfr. sopra, alla nt. 3. ^
71 Sulle traduzioni carducciane di Heyse fino al 1880 cfr. sopra, e alla nt. 31. Negli anni seguenti ne seguiranno altre: cfr. Bertozzi, Paul Heyse, cit. La traduzione della Vita Nuova cui Hillebrand allude è: D. Alighieri, Das neue Leben. Übersetzt von Bettina Jacobson, Halle 1877. ^
72 Nella rivista pubblicata dallo stesso Hillebrand: «Italia», 2 (1875), pp. 258-264, col titolo: An den Satan. Nel 1878 Schanz tradusse anche Il Canto dell’Amore (Der Gesang der Liebe) in occasione delle nozze di Bernardino Zendrini (cfr. sopra, alla nt. 30). ^
73 Shakespeare’s dramatische Werke, übersetzt von August Wilhelm Schlegel, ergänzt und erläutert von Ludwig Tieck, Berlin, Reimer, 1825-1833.^
74 M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, Primera parte, Capítulo VI. ^
75 La prima edizione delle Nuove poesie è quella di Imola, Galeati, 1873. ^
76 La prima edizione delle Odi barbare è quella di Bologna, Zanichelli, 1877. ^
77 Bologna, Zanichelli, 1878. Poi inserita nella raccolta Giambi ed Epodi. ^
78 Cfr. più avanti, alla nt. 109. ^
79 Per la morte di Napoleone Eugenio. L’unico figlio di Napoleone III (1856-1879), morì in Africa combattendo per gli Inglesi. La poesia fa parte delle Odi barbare. ^
80 Il 6 ottobre 1878 un cavallerizzo uccise Giovanni Fadda. Mandante dell’omicidio era la moglie, e amante dell’assassino, Raffaella Saraceni. Il processo si svolse a Roma tra il 20 settembre ed il 21 ottobre 1879 nell’aula dei Filippini (l’attuale Sala Borromini a fianco della Chiesa Nuova), suscitando un’enorme curiosità. Tra la folla era anche Carducci che, nell’ottobre 1879, scrisse la poesia A proposito del processo Fadda, poi inserita nella raccolta di Giambi ed Epodi. ^
81 Allude al romanzo d’avventura Der abenteuerliche Simplicissimus Teutsch di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, pubblicato nel 1668. ^
82 Si riferisce, naturalmente, alla celebre raccolta poetica goethiana. ^
83 La prima raccolta poetica di Carducci che risale agli anni 1850-1860, pubb. nel volume Poesie di Giosué Carducci, assieme ai Decennalia e ai Levia Gravia (Firenze, Barbèra, 1871), la cui edizione definitiva è quella di Bologna, Zanichelli, 1880. ^
84 La raccolta di poesie, scritte tra il 1861 ed il 1867, la cui prima edizione è: Pistoia, Niccolai e Quarteroni, 1868, e la definitiva: Bologna, Zanichelli, 1878.^
85 Rime di Cino da Pistoja e d’altri del secolo XIV. Ordinate da Giosué Carducci, Firenze, Barbèra, 1862. ^
86 Allude al saggio di Carducci Delle poesie toscane di messer Angelo Poliziano, introduttivo all’edizione delle Stanze, Orfeo e Rime del Poliziano, Firenze, Barbèra, 1863. ^
87 Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo col raffronto dei migliori testi e di tutti i commenti a cura di Giosué Carducci, Livorno, Vigo, 1876. ^
88 Si riferisce probabilmente ai componimenti sparsi che Carducci pubblicò nella «Rassegna Settimanale» e nel «Fanfulla della Domenica». ^
89 Fa parte della raccolta Juvenilia.^
90 Inserito nella raccolta Levia Gravia. ^
91 Pubbl. nella raccolta Juvenilia. ^
92 Poi inserito nelle Rime nuove. ^
93 Fa parte dei Levia Gravia. ^
94 Allude al componimento Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana, poi inserito nella raccolta di Giambi ed epodi, libro II, ed. 1882. ^
95 Poi inserita nelle Rime nuove. ^
96 È il componimento che apre le Odi barbare. ^
97 «Wie der Vogel singt, der in den Zweigen wohnet», citazione dalla poesia di Goethe Der Sänger. ^
98 Poi inserita nella raccolta di Rime nuove. ^
99 Nella poesia Al sonetto, poi inserita nella raccolta Rime nuove. ^
100 Queste tre poesie fanno parte delle Odi barbare. ^
101 Componimento inserito nei Juvenilia. ^
102 Allude probabilmente ad una scena de Die Göttin Diana, uno dei due Tanzpoeme di Heine, scritto nel 1846. ^
103 Sui campi di Marengo la notte del Sabato santo 1175, poesia poi inserita nella raccolta delle Rime nuove. ^
104 È il componimento König Karls Meerfahrt di Ludwig Uhland, che fa parte della raccolta Balladen und Romanzen. Questa osservazione della reminiscenza di Uhland in tale poesia carducciana era stata fatta anche da Adolf Pichler nella sua recensione sulla «Abendpost» di Vienna (cfr. sopra, e alla nt. 22), ma senza cogliere la differenza fondamentale di spirito tra i due. ^
105 La Canzone di Legnano apparve nella «Rassegna Settimanale» del 30 maggio 1879. ^
106 Inserito poi nella raccolta delle Rime nuove. ^
107 Davanti San Guido, inserita da Adolfo Borgognoni, senza titolo e alle pp. XXX-XXXII, nella sua biografia di Carducci, che è al tempo stesso una sorta di premessa alla terza edizione delle Poesie carducciane, uscita a Firenze, per Barbèra, nel 1878. ^
108 Mors. Nell’epidemia difterica, che fa parte della raccolta Odi barbare. ^
109 Pubbl. nella «Rassegna Settimanale», 1 (3 febbraio 1878), p. 73, poi nell’edizione delle Rime nuove del 1887. ^
110 Nella sua recensione alle Nuove poesie: cfr. sopra, e alla nt. 3. ^
111 Vadius e Trissotin sono personaggi de Les femmes savantes; Diafoirus de Le malade imaginaire.^
112 Allude, naturalmente, all’affresco di Raffaello detto La Disputa del Sacramento, in una delle Stanze Vaticane (la Stanza della Segnatura), e al ciclo di affreschi che Perugino dipinse nella Sala dell’Udienza nel Collegio del Cambio di Perugia. ^
113 Allude Alla Regina d’Italia, poesia datata al 20 novembre 1878 e pubbl. nella seconda edizione (1878) delle Odi barbare. ^
114 Cfr. sopra, alla nt. 79. ^
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