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Francesco Crispi Presidente della Camera1
di Luigi Compagna
1. «Io sono Crispi»

Dalla democrazia mazziniana al cesarismo bismarckiano Francesco Crispi non sarebbe approdato per mero opportunismo. Né la sua biografia può dirsi tutta e soltanto riconducibile a quel «progetto per la dittatura» evocato da Sergio Romano nel sottotitolo di un fortunato volume del 19732. La stessa formula «la monarchia unisce, mentre la repubblica ci dividerebbe» che Crispi era andato maturando fra il 1861 e il 1865 era assai più articolata e complessa di quanto sembrò a prima vista.
La sorreggeva una cultura di parlamentarismo antico, nell’accezione siciliana, cioè anglosassone, e ad un tempo moderno; nell’accezione risorgimentale, cioè nazionale, che sarebbe stata apprezzata da Arturo Carlo Jemolo3. Nessuno quanto Crispi, del resto proveniente dalle fila della democrazia mazziniana, comprese il significato del “salto” dal diritto e dalla prassi del parlamento subalpino a quelli delle Camere italiane. Gli sarebbe piaciuta anche qui una reformatio facienda ab imis fundamentis, ma nel rispetto della continuità costituzionale; avrebbe compreso lo spirito del nuovo regolamento della Camera del 1868, quando si creò la giunta delle elezioni sul modello inglese; sulle garanzie di imparzialità dovute dalla presidenza alla Camera si sarebbe ispirato ai Farini (padre e figlio)4; contro l’ostruzionismo parlamentare di fine secolo non si sarebbe schierato per il colpo di forza di fatto anti-parlamentare voluto dal Pelloux. Di tutto questo gli avrebbe dato atto la sintetica eppur efficace ricognizione di Paolo Ungari5.
Certo, come uomo di governo Crispi si sarebbe sentito investito, ben al di là del ruolo del parlamento, di un opera legislativa e amministrativa a vasto raggio che ponesse l’intera nazione più in alto della mediazione degli istituti rappresentativi. «Il suo atteggiamento – noterà con finezza Carlo Ghisalberti appariva nettamente contraddittorio in quanto mostrava il Crispi contestare la naturale funzione del parlamento all’atto stesso in cui pareva volere servirsi delle Camere, e segnatamente di quella elettiva, per fondare il proprio potere»6. Insomma, secondo Ghisalberti, il trasformismo di Crispi rispetto a quello di Depretis sarebbe andato colorandosi di motivi ed accenti non sempre nitidamente liberali, compresa la disponibilità ad aprire crisi di governo di natura extra-parlamentare7.
A Palazzo Carignano, dove il nuovo parlamento aveva tenuto la sua seduta inaugurale il 18 febbraio del 1861, Francesco Crispi non era stato comunque preceduto da buona immagine. Lo si associava al ritratto che di lui e dei suoi seguaci era stato tracciato da Cavour nel 1860: repubblicano tenacissimo, mazziniano convinto, spregiudicato burattinaio di Garibaldi che ciecamente pilotava in direzione di Roma. Gli si attribuiva una sgradevole mancanza di timidezza, se non arroganza vera e propria, nell’accostarsi alla vita parlamentare.
Ruggero Bonghi, che aveva conosciuto Crispi a Napoli nel 1847, in un articolo su «La Perseveranza» avrebbe sottolineato con sarcasmo la straordinaria sicurezza di sé che Crispi riuscì a comunicare in quel primo anno alla Camera
Non potete immaginarvi - scrive Bonghi - con che orgoglio di sé il Crispi parla da molto tempo in qua. Dà dell’ignorante o poco meno a tutti quelli che lo contraddicono o l’interrompono; si alza a parlare per dire cose che nessuno ha mai detto, per portare nelle questioni una luce che le risolverà ad un tratto, si stupefà continuamente di se stesso, della propria grandezza, e come a lui vengono spontanei, pronti, improvvisi in grandissima copia suggerimenti, partiti, consigli, idee, che altri a stillarsi il cervello non troverebbe in cento anni8.

Una sensazione per qualche verso analoga Crispi avrebbe suscitato in Ferdinando Petruccelli della Gattina, quel deputato della Sinistra che redasse una serie di ritratti dei suoi colleghi parlamentari pubblicata nel 1862. «Crispi - vi si legge - ha l’atteggiamento più aggressivo e, quando si eccita, rompe la monotonia della Camera. Allorché si alza per parlare, parrebbe volesse tirar fuori dalle tasche un paio di revolvers»9.
L’idea che egli fosse essenzialmente uomo della estrema Sinistra, legato comunque a Mazzini, a Palazzo Carignano non poteva però mai sul serio venir accreditata. Dal Crispi medesimo, soprattutto. «Un giorno io gli chiesi - ricostruisce Petruccelli della Gattina - Siete voi mazziniano? No, egli mi rispose. Siete voi garibaldino? Neppure, egli replicò. E chi siete voi dunque? Io sono Crispi»10.
Personalità del tutto priva di understatement, Crispi si era rivelato tale fin dal giorno, nei primi anni Quaranta, che ne aveva deciso il destino professionale, dalla magistratura all’avvocatura, ed i primi passi dell’impegno politico, da Palermo a Napoli. Proprio da quell’episodio avrebbe preso avvio il celebre discorso di Vittorio Emanuele Orlando pronunciato a Napoli il 4 ottobre del 1923 al Teatro San Carlo, in occasione dello scoprimento della lapide che il Comune di Napoli aveva fatto apporre nella casa dove morì Crispi.
Un giorno dell’anno 1842, in Palermo – rievoca Orlando – il procuratore generale presso la Suprema Corte di Giustizia di Sicilia, Don Filippo Craxi, chiamò a sé un alunno giudiziario, un umile tirocinante ammesso allora. Questi, sebbene già da tre anni avesse conseguito la laurea in giurisprudenza, aveva tuttavia dovuto lungamente attendere la consegna del diploma, perché la sua povertà non gli aveva permesso di pagare la tassa e la Commissione della Pubblica Istruzione ed Educazione aveva dovuto consentirgli un pagamento a rate, in ragione di 9 tari al mese. L’altissimo magistrato intrattiene l’alunno su questa sua tesi: e cioè, che il Re, in virtù della sua sovrana prerogativa, aveva la facoltà di imporre tributi; ma l’alunno gli risponde che, secondo la secolare costituzione del Regno di Sicilia, nessuna tassa è legale, se non è consentita dal Parlamento. Il procuratore generale, sbalordito non tanto dall’opinione diversa, che per ogni siciliano era vera ed ovvia, quanto dall’audacia di quel modestissimo subalterno, che si permetteva di avere una sua opinione, lo richiama aspramente all’ordine: al che l’alunno risponde, spogliando con fierezza la toga e abbandonando la magistratura. Questo lioncello, che già dimostrava di che tempra fossero le sue unghie, si chiamava Francesco Crispi. Ma, intanto, quel nobile gesto significava la povertà, onde egli deve lasciare la città sua e recarsi a Napoli per cercar pane con l’esercizio dell’avvocatura. E qui, a Napoli, si inizia subito la sua attività politica, impetuosa e realizzatrice11.




2. Dalla Sicilia al Piemonte

Se la spedizione dei Mille effettivamente partì, fu in forza della «quasi disperata» determinazione di Crispi12. Sebbene Mazzini da Londra poco avesse potuto incidere direttamente sulla preparazione della spedizione, si deve a Crispi se essa ebbe un’impronta decisamente mazziniana. Le radici del movimento democratico italiano (e Crispi lo avvertiva profondamente) erano quelle di un movimento anzitutto unitario.
Ecco perché dopo quella spedizione proprio Mazzini, per avere riposto il punto saliente della sua predicazione nell’unità, avrebbe sofferto il passaggio di molti dei suoi esponenti e dei suoi seguaci all’idea di un’unità attuata per mezzo della monarchia. La considerazione risale a Benedetto Croce13. La riprende Giovanni Berardelli nel suo recente volume Mazzini14. E non c’è dubbio che in un personaggio come Crispi ve ne siano e se ne calzino a pieno gli elementi.
Alle prime elezioni nazionali nel 1861 egli era divenuto sì deputato, ma la vicenda non gli aveva conferito grande prestigio. Sconfitto nel terzo collegio di Palermo da un candidato moderato, il marchese di Torrearsa, vinse invece nel collegio di Castelvetrano, dove gli elettori, senza per lo più conoscerlo, avevano obbedito, come del resto erano da secoli abituati a fare, agli ordini del barone Favaro. Insomma, si trattò per Crispi di una cooptazione feudale assai più che di un’indicazione democratica. Quanto all’aver scelto il deputato di Castelvetrano di prender posto all’estrema sinistra della Camera, tutto sembrava obbligato, rituale, datato.
Il 17 aprile del 1861, in un discorso tutt’altro che facile, Crispi arrivò a chiedere al Piemonte sabaudo di retrocedere in favore dell’Italia liberale. Come? Con una sorta di atto di fede nell’istituzione “monarchica”, che portasse Vittorio Emanuele II, da pochi mesi re d’Italia, ad aprire un capitolo nuovo nella storia della sua dinastia, diventando il primo del suo nome. Regno di Sardegna e Regno d’Italia dovevano apparire, pensava Crispi, due diverse realtà, senza condannare quelli come lui a venir bollati dai colleghi come cospiratori, mazziniani, repubblicani.
Fu un discorso alto e nobile. In esso non si sentì affiorare la memoria dei giorni passati nelle prigioni di palazzo Madama, dell’espulsione del marzo 1853, dell’invito a lasciare il Piemonte che la questura gli aveva rivolto nel febbraio del 1860 quando Cavour era ritornato al governo, delle cattiverie che La Farina aveva diffuso contro di lui a Palermo per ordine di Torino. Ogni riserva su Cavour e Vittorio Emanuele II in quel discorso, che si riprometteva nuove aperture, cedeva il campo all’analisi politica e alla proposta costituzionale.
Lo Stato piemontese continuava a non piacergli. Ma era pur sempre il risultato di un grande sforzo unitario. Metterlo a repentaglio con agitazioni interne, complotti, sommosse, sarebbe stato irresponsabile.
A nessun re, certo, sarebbe allora piaciuto sentirsi dire che lo Stato di cui egli era il vertice avesse la sue origini nella “rivoluzione”. Così come il passaggio oratorio di Crispi contro i numerali da far seguire ai nomi dei sovrani («Carlo Magno, Napoleone e tutti i fondatori di dinastie non iscrivevano sulle loro leggi e sui loro decreti che semplicemente il loro nome») era azzardato. Ma il discorso era sinceramente proteso all’unità nazionale.
Gli stessi attacchi all’amministrazione “piemontese”, lenta a capire come col 1860 fossero cambiate dimensioni e implicazioni dello Stato nazionale, non preludevano a intenti eversivi. Tanto più che in Sicilia, non solo a Castelvetrano, Crispi era ormai fautore di moderazione.
Già nel 1848 Crispi era da catalogarsi fra quei siciliani che, per dirla con Rosario Romeo15, al mito della nazione siciliana avevano rinunciato per vederlo sciogliersi nella affermazione di una nazione italiana in un nuovo contesto europeo. Grazie a uomini come Crispi, Pilo, La Masa, registrava Romeo, c’era stato il «rafforzarsi e prevalere del filone mazziniano sul vecchio e provinciale democratismo isolano»16.
Del resto, anche per Cavour, a doversi ribaltare erano gli esiti del Congresso di Vienna. Il senso della questione italiana non sembrava quella di conferire alla Sicilia o al Piemonte il ruolo della Prussia (che era di là da venire nella stessa questione tedesca).
A dodici anni dal ’48 Crispi riusciva ora a guardare all’Italia con ancor più buonsenso. Ai suoi amici meridionali e agli uomini più irrequieti della sinistra italiana quel discorso alla Camera del 17 aprile 1861 ricordava come l’opposizione dovesse ormai accettare lo Stato e provare a modificarlo dall’interno con i mezzi offerti dallo statuto.
Rispetto a quelle avvertite e cercate da Cavour, certo le affinità elettive di Crispi non sarebbero mai state con Guizot e Gladstone. Piuttosto con Bismarck. Ma è vicenda successiva. Al momento, Crispi, a differenza di Bismarck era consapevole di quanto e perché nella storia d’Italia quella parlamentare fosse l’istituzione delle istituzioni, da rispettarsi ed amarsi con questo spirito.


3. Istituzioni, partiti, trasformismo

Presidente della Camera Crispi sarebbe diventato il 21 novembre del 1876, dopo elezioni stravinte dalla Sinistra, al’interno della quale Crispi era coscienza storica e ad un tempo coscienza critica. Un ruolo che si era scelto fin dal 25 marzo, quando Agostino Depretis aveva presentato il primo gabinetto della Sinistra nella storia d’Italia, e che aveva accentuato in campagna elettorale, nel pamphlet intitolato I doveri del Gabinetto del 25 marzo17.
Il titolo, con quell’appello ai “doveri” (uno dei grandi capisaldi morali di lessico mazziniano per gli uomini della vecchia Sinistra), era sia ammonitorio sia programmatico. Ristampando nella prima parte del pamphlet le lettere che aveva pubblicato sulla «Riforma» nel 1868, in cui aveva discusso esaurientemente le riforme radicali di cui l’Italia aveva bisogno, Crispi cercava di rammentare all’elettorato e al suo partito, e specialmente alla vecchia guardia ora al potere, l’esistenza di un’antica agenda alla quale mantenersi fedeli. Passava quindi ad illustrare le sue opinioni sulla situazione politica quale gli appariva nell’autunno del 1876.
Due le questioni principali. La prima era che parlamento e governo fossero più rappresentativi della realtà del paese. Ciò significava coinvolgere il popolo nell’amministrazione dello Stato (soprattutto attraverso la riforma elettorale) in misura molto maggiore rispetto al passato; ma significava anche che il parlamento fosse, o quanto meno apparisse, la voce della nazione, e non un semplice club per la protezione degli interessi economici dei proprietari terrieri, dei banchieri e degli industriali: «Bisogna rendere solidali – insisteva Crispi – il popolo e il Parlamento, stringere il nesso tra il Governo e i cittadini, affinché questi siano convinti che il Parlamento ed il Governo sono una emanazione del paese e non una classe privilegiata, priva d’interesse a fare il bene di tutti».
Strettamente legata a questa era la seconda questione: la necessità di mantenere una netta distinzione tra Destra e Sinistra. Era dai tardi anni Sessanta che si parlava di ridisegnare la fisionomia dei partiti; e negli ultimi anni questi discorsi erano diventati più insistenti, ed era cresciuta, specialmente dopo la presa di Roma, la sensazione che su molte materie ci fosse ben poco da scegliere tra i due partiti. Si sapeva che lo stesso Depretis era a favore di un ammorbidimento delle frontiere di partito, che consentisse e giustificasse il “trasformismo”.
Invece Crispi era risolutamente ostile a qualunque sviluppo del genere. Come scrisse nel suo pamphlet, «No, in Italia non vuolsi una trasformazione, e molto meno un nuovo organamento dei partiti». L’esistenza dei partiti non poggiava sulla volontà degli individui; essi erano fasci di idee sanzionati dalla storia e dai «consentimenti sociali», la cui forza deri vava dalla loro coerenza interna. La distinzione tra la Sinistra e la Destra doveva essere resa più netta, e non affievolirsi. Ai partiti occorreva una guida forte, capace di assicurare che i loro programmi venissero chiaramente formulati, e che i deputati li sottoscrivessero apertamente. Se non potevano farlo, dovevano lasciare il partito.
Negli anni a venire, la “trasformazione” dei partiti – o “trasformismo”, come fu presto battezzato il fenomeno – sarebbe diventata una delle questioni più appassionatamente dibattute della politica italiana. L’opposizione di Crispi al trasformismo non era sempli cemente il prodotto di un’adesione dottrinaria al classico modello bipartitico britannico. Egli certamente pensava che una sana costituzione liberale esigesse due partiti, uno progressista e l’altro conservatore, che potessero alternarsi al governo. «I due partiti alla Camera sono una necessità; se non ci fossero, bisognerebbe crearli», scrisse nel pamphlet del 1876: «Gli Italiani [...] devono essere i Sassoni della razza latina, fondando e facendo funzionare con verità le istituzioni parlamentari».
A suo giudizio in Italia partiti nettamente definiti avevano da svolgere un ruolo particolarmente importante. Innanzitutto, dovevano educare l’elettorato coinvolgendolo nella discussione delle idee contenute nei loro programmi; in secondo luogo, cosa forse ancor più importante, se i partiti si fossero trovati obbligati a conquistare voti sulla base dell’appello nazionale dei loro programmi, avrebbero colmato il fossato tra l’Italia “reale” e l’Italia “legale”, col risultato che i governi avrebbero goduto di una maggiore autorità. La Sinistra e la Destra, disse, dovevano diventare «due atleti che si battono pel benessere della nazione e non due ambiziose fazioni che si disputano il governo del paese pel successo egoistico di personali interessi».
Nella campagna elettorale Crispi e Cairoli si erano sforzati di bilanciare il controllo centralizzato con la spontaneità a livello locale. Fu costituito a Roma un Comitato centrale per sovrintendere alla campagna. Come Crispi rilevò in una lettera a Cairoli del 5 ottobre, la funzione di questo «Comitato centrale progressista» consisteva nel coordinare le attività delle numerose associazioni politiche spuntate in ogni angolo del paese, ma senza dettar legge. Le candidature e buona parte del lavoro di routine dovevano essere il prodotto dell’iniziativa locale: «Noi da qui dobbiamo cooperare, consigliare, mettere d’accordo, ma non imporre»18.
Quanto alla monarchia, un governo di Sinistra sembrava dischiuderle un nuovo ruolo. Come sempre, lo sguardo del re era fisso sulla politica estera, e in questo campo il terreno comune con la Sinistra cominciava ad apparirgli importante. La caduta di Napoleone III l’aveva affrancato dal suo debito d’onore con la Francia e già nel 1873 si era persuaso a recarsi in visita di Stato in Austria e in Germania.
Divenuta la Francia una repubblica, per giunta instabile, non era nell’interesse del conservatorismo italiano avvicinarsi alle salde monarchie dell’Europa centrale? Vittorio Emanuele era rimasto lusingato dall’accoglienza ricevuta, specialmente a Berlino, dove Bismarck aveva lasciato cadere un’allusione, attentamente calcolata, al fatto che il sovrano italiano poteva contare sull’appoggio tedesco in qualunque futura guerra contro la Francia. È vero che molti uomini della Sinistra, incluso Depretis, non desideravano affatto una politica estera forte. Ma c’era chi la voleva, e tra questi spiccavano Crispi e la sua cerchia.
In linea generale la simpatia per la Germania era maggiore a sinistra che a destra. Il fatto che il nuovo ministro degli Esteri, Luigi Melegari, fosse un uomo non solo malato, ma anche poco informato, era un chiaro segno di come il re aspirasse ancora una volta a impugnare personalmente le leve della diplomazia. Suo interlocutore politico, magari nella carica di presidente della Camera, poteva benissimo diventare Crispi, sul quale del resto da qualche anno Minghetti si era preoccupato di fornire lusinghiere valutazioni a corte19.


4. La presidenza della Camera

Alla presidenza della Camera Crispi non volle mai dare la sensazione di aver mirato. Preferì adoperarsi fino all’ultimo in favore di Ricasoli20. Perfino a elezione avvenuta, quando sul nome di Crispi si erano registrati 232 consensi su 374 voti validi, al vecchio amico Cesare Correnti, Crispi avrebbe manifestato disponibilità a farsi da parte21.
In età statutaria, più volte il Presidente della Camera veniva eletto da una maggioranza politica, in lotta spesso acerba con il candidato dell’opposizione. Quanto al presidente del Senato, lo si sarebbe potuto definire una sorta di ministro (della Camera) “per i rapporti con il Parlamento”, anche se sulla sua scelta l’influenza del potere esecutivo andava accentuandosi.
Massima determinazione ed orgoglio politico emergeranno però nel discorso di Crispi di accettazione: la sua elezione al vertice della Camera dei deputati deve considerarsi un riconoscimento alla sua storia politica e personale, non certo un espediente per imbalsamarla, lasciando a Depretis e (ben peggio) a Nicotera di rappresentare politicamente quel che sulla «Gazzetta della Capitale» veniva definito con crudezza di termini «un’aggregazione di esseri indefiniti, di ombre vaghe e indistinte per le quali forse ogni dichiarazione era buona per arrivare a Montecitorio»22.
L’imparzialità del Presidente della Camera, a prescindere dalla sua elezione a maggioranza spesso esigua, era una ricorrente petizione di principio. Un po’ dottrinaria e senza riscontro nei comportamenti concreti. Con Crispi per la prima volta il Presidente della Camera dispose la cancellazione del proprio nome dall’elenco per la “chiama” nelle votazioni23.
Al di là dell’effettiva rappresentatività del paese legale rispetto al paese reale, cioè della Camera scaturita dal voto di novembre, a Crispi il prestigio della presidenza della Camera sembrava l’occasione storica per indossare il manto della responsabilità, per ricondurre a liberalismo e ricomporre in abiti istituzionali i tormentati passaggi della sua biografia politica. Di qui l’importanza di quel discorso:
Onorevoli colleghi, elevato da voi a questo altissimo posto, io ve ne ringrazio, non per me che nulla poteva essermi dovuto, ma perché avete voluto onorare la costanza e la fede in quelle idee che oggi sono divenute il programma del reale Governo. Voi avete dato una tacita, ma significante adesione a quei principi di libertà e di giustizia che abbiamo sempre sostenuto, ed agli intendimenti miei per le riforme politiche ed amministrative da tanto tempo desiderate ed ora più che mai volute dalla pubblica opinione.
Questo mutuo sostegno, questa reciproca corrente di pensieri mi rinfranca negl’intenti, segnandomi la meta a cui devono giungere le nostre volontà riunite. Ed or permettete che io faccia a voi una mia dichiarazione e che vi indichi i miei doveri.
Se un dì l’amore travagliato, ma indomito per la libertà e l’unità della patria mi ha spinto con passione alle supreme e audaci imprese per conquistare un tanto bene – se la mente convinta e l’animo ardente nelle lotte politiche mi concitarono spesso la parola, che irrompeva senza altro ritegno in fuori di quello della illimitata fiducia in tutto ciò che io reputava vero e giusto – se il mio stesso temperamento meridionale e subitaneo sovente mi lanciava in una via piena di pericoli – sappiate, onorevoli colleghi, che questo complesso di elementi costitutivi della mia persona io li conosco, e qui, su questo Seggio, io metterò tutte le mie forze per governarli. (Applausi)
Come nel seno dell’Etna ribolle spesso e si rattiene l’ignea materia antica, mentre sulla sua vetta sta tranquilla e perpetua la neve, così accanto all’ardore dell’animo, alla eccitabilità della fibra ho posto il dominio sicuro di una ferma volontà, e questa adoprerò tutta per mantenere la più stretta imparzialità (Benissimo! a sinistra) nel presiedere e regolare le vostre discussioni.
Con tale proponimento dimenticherò il posto da cui venni (Bene!), ricorderò quello in cui sono. Essendo alla Presidenza di questa Camera, rammenterò sempre che ebbi da voi un sacro deposito, la libertà della tribuna, ed integro lo trasmetterò al mio successore.
A destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comune. (Vivi segni di approvazione) Nello agitarsi e contrapporsi dei vari pensieri e propositi in questa Camera, io ravviserò il fecondo affaticarsi del maggior senno italiano; e dalla copia e dal cozzo delle idee, io vedrò con soddisfazione scattare la scintilla animatrice delle grandi riforme. (Benissimo!)
Se io potessi parteggiare, spegnerei, spergiuro e quasi parricida, quella sacra favilla, e voi concedetemi, cari ed onorevoli colleghi, che io mi senta convinto, che voi non supporrete che io possa menomamente mancare al debito mio. (Bene!) Sono da voi abbastanza conosciuto, perché sappiate quanto ami la patria ed il suo progresso, e vi assicuro che mi adoprerò con tutte le mie forze, onde darvene nuove testimonianze. (Segni di approvazione)
Voi avete, in questa libera e sincera espansione dell’animo mio, la parola che vi dò e che terrò fedelmente, di essere imparziale. Concedetemi ora la vostra, ed è che sarete con me benevoli ed indulgenti. Dipende anche da voi, che a me si renda facile l’esercizio del mandato che mi venne conferito.
Con questi intendimenti io mi metto in possesso delle mie funzioni. (Applausi prolungati da tutte le parti della Camera)24.

All’intonazione e allo stile del suo discorso di insediamento, Crispi fu presidente che non venne meno. Ne trasse ragioni per conferire una nota di urgenza, di continuità, di serietà alle sedute parlamentari. A suo avviso ce ne era un gran bisogno, in quanto gli sembrava stesse inesorabilmente crescendo nel paese, e più ancora nella stampa, la sensazione che con Depretis la Sinistra non fosse dotata di energia e fermezza adeguate alle riforme necessarie e che nel rapporto fra Governo e Parlamento prevalesse una sorta di pigrizia reciproca. Sicché quello di pungolare la Camera fu della sua presidenza cifra irrinunciabile.
Crispi avrebbe spesso insistito per tenere lunghe sedute che iniziavano a mezzogiorno o all’una e continuavano fino alle sette di sera, se non più tardi; e le richieste di aggiornarsi “a domani” che capitava di udire nel tardo pomeriggio venivano da lui sprezzantemente respinte25. Non disdegnò talvolta un piglio caporalesco, da “uomo forte” per dirla col Volpe26, spesso stemperato da una certa ironia.
Rivelatrice la sua irritazione per l’assenteismo dei deputati. «Io sono rigoroso – ebbe a dire una volta – nel richiedere che i deputati siano in numero legale: quando non sono presenti, io faccio procedere all’appello nominale, affinché il paese conosca i nomi di coloro che sono assenti»27. Il che può ben ascriversi a una interpretazione nitidamente crispina, di timbro democratico e mazziniano, ma non per questo illiberale, dei diritti-doveri della presidenza della Camera.
E lo stesso può dirsi dell’asprezza o mancanza di garbo riservata in altra occasione a Quintino Sella. Crispi aveva bruscamente chiuso la discussione generale su un disegno di legge passando alla votazione, malgrado Sella, momentaneamente assente dall’aula, avesse espresso precedentemente desiderio d’intervenire in discussione generale. Alle sue rimostranze («siamo in tempi di libertà o di dispotismo?»), il presidente non aveva esitato a replicare: «Siamo in tempi di libertà, ma in tempi di ordine. Io le faccio osservare che i deputati sono in dovere, quando una legge è all’ordine del giorno, di stare al loro posto. Il presidente è il servo della Camera, ma non è il servo dei negligenti»28.
Presidente ancor prima che collega dei deputati, avido di government forse prima e più che di parliament, Crispi si riprometteva di imprimere grazie alla sua stagione di presidenza un ciclo produttivo, efficientistico a suo modo ai lavori della Camera. E così fu. Basti rammentarsi della fermezza che dimostrò lungo l’iter della legge Coppino (che allungava da due a quattro anni l’istruzione elementare obbligatoria e rendeva facoltativa l’educazione religiosa) approvata nel luglio del 1877.
Il suo atteggiamento complessivo fu di autentico garante di libertà della tribuna, secondo lessico dell’epoca. Ma talvolta affiorò in lui un sentimento sprezzante per la gran massa dei deputati. Si pensi a quando, rivolto a Silvio Spaventa, disse: «Che Camera! Che Camera! Questo è bestiame; non ci sono che io per tenerla a freno»29.
Non se ne deduca però una sorta di autocandidatura a guidare quell’antiparlamentarismo, i cui motivi saranno precisati dai Bonghi, dai Mosca, dai Turiello, dagli Orlando solo dal principio degli anni Ottanta30. Né può ravvisarsi nella battuta di Crispi un autoproporsi già nel 1877 a “uomo forte”. Piuttosto c’è l’amara percezione di quanto trasformismo e clientelismo potessero in Italia alterare il modello parlamentare esemplare che restava per Crispi quello inglese, bipartitico, con uomini e programmi fra loro alternativi.
A suo modo Crispi era sostanzialmente un tipico parlamentare dell’Italia liberale e monarchica. Quasi quanto Mazzini non aveva potuto esserlo. A partire dal 1848, prima nella Camera subalpina, poi in quella nazionale, era andata consolidandosi una monarchia parlamentare, in cui la rappresentanza era stata fin dall’inizio il centro dell’unità della nazione, luogo di formazione del suo indirizzo politico. In quel sistema politico Crispi era stato attentissimo a non farsi imprigionare in questioni di sicilianità, di repubblicanismo, di Sinistra, che dallo Stato nazionale lo allontanassero. Ma ora nel 1876 tutto o quasi tutto poteva apparire mutato.
La discussione sul sistema parlamentare – avverte Giuseppe Galasso in tema di Cultura e Politica negli anni di Crispi – è un buon esempio dell’ampiezza che, nella permanenza del predominio positivistico, vanno prendendo gli elementi di trasformazione e di novità. Il Parlamento costituisce allora l’oggetto di critiche assai forti, che sono rese più gravi dal fatto che in esse il motivo dell’inefficienza si congiunge a quello della immoralità, il cattivo funzionamento è addotto a lato della corruzione come elemento di una sintesi assai negativa. Questo congiungersi di una ragione pratica di funzionalità con una ragione morale di ripulsa e di condanna non viene notato negli studi sulla cultura politica del tempo. Essi insistono sulla critica che da parte di uomini non solo della Destra, bensì anche della Sinistra, copriva un ampio arco di temi: il pratico passaggio dal costituzionalismo previsto dallo Statuto albertino a un parlamentarismo di tipo più o meno francese, il precoce venir meno dell’alternanza bipartitica al potere, la sua conseguente surrogazione con un sistema trasformistico, l’oligarchismo imperante sotto la maschera della sovranità popolare, il condizionamento reciproco fra politica e amministrazione, l’ingerenza dei partiti nell’amministrazione, la conseguente vanificazione delle garanzie civili e cosa via31.

Del resto, nel periodo in cui fu presidente della Camera, matura e si consolida in Crispi l’idea di poter beneficiare in prima persona dell’impopolarità del governo Depretis-Nicotera. Risale al 1877 una spietata e spesso arbitraria “campagna antimafia”, promossa da Nicotera e attuata dal prefetto Antonino Malussardi. Tale campagna fu criticata da Crispi, spinto più che mai dalle circostanze a difendere interessi e buon nome dell’isola32.
Dalle cronache risalendo alla storia, capita inevitabilmente di sovrapporre alle immagini del Crispi parlamentare e presidente della Camera quelle del Crispi uomo di governo e presidente del Consiglio. Ed è necessario non far cadere la sovrapposizione. «Da tutta la sua condotta – nota Jemolo – di fronte al Parlamento, chi non conoscesse le sue idee ed i suoi precedenti dedurrebbe ch’egli fu un seguace del sistema costituzionale a tipo tedesco-austriaco imperiale, ove le Camere non avevano il potere di rovesciare i Gabinetti, invece, per una delle consuete contraddizioni, egli si serbò sempre idealmente fedelissimo al sistema parlamentare, ne deplorò ogni deviazione»33.
Questa considerazione crispina da parte del giolittiano Jemolo è davvero significativa. Anche perché riferita a un discorso di Crispi alla Camera del 1887.
Io accetto, che il Parlamento sia onnipotente, ma è altresì necessario che il potere esecutivo sia potente – diceva alla Camera nell’87, discutendosi il progetto di legge del riordinamento dell’Amministrazione dello Stato. – Il Parlamento ha il mezzo di sindacare e anche indirettamente di governare, perché esso soprintende a tutti gli atti del Ministero, e quando non li riconosca conformi alle rette consuetudini parlamentari, con un voto di censura lo obbliga a ritirarsi. Governa indirettamente, allorché gli nega fondi per l’istituzione di un Ministero, o per il riordinamento di qualche ufficio. Ma ogni altro modo non conduce ad altro risultato che a questo: a vincolare la piena libertà che deve avere il Ministero, e che non gli può togliere, senza togliergli in pari tempo anche quella responsabilità costituzionale, che è più che necessaria agli uomini i quali governano uno Stato34.

Tornando a dieci anni prima, l’esperienza di Crispi presidente della Camera ebbe un suo rilievo nella storia del nostro diritto parlamentare.
Non poche questioni – per Ungari – agitate in quel tempo inerivano ad aspetti dell’azione presidenziale strettamente connessi con l’attuazione del programma legislativo di governo, in un raccordo che la più recente dottrina (ed anche quella più avvertita di certi possibili esiti detti assembleari) giustamente torna a considerare come necessari e perfettamente conciliabili con l’osservanza dei doveri di imparzialità. L’esemplarità dello speaker della Camera dei Comuni, con le sue peculiari caratteristiche, faceva qui necessariamente perdere di vista la diversa funzione che il Presidente poteva assumere in altro sistema, senza con ciò ferire i principi liberali35.



5. In Europa con “linguaggio da soldato”

Nella tarda estate del 1877, il presidente della Camera investì se stesso di una missione presso i governi europei ben al di là dei convenzionali ambiti della diplomazia parlamentare. L’obiettivo era di sondare la Germania sulla possibilità di un’alleanza con l’Italia contro l’Austria e la Francia. Bismarck era davvero interessato ad unirsi all’Italia in una guerra contro l’Austria che permettesse all’Italia di arrotondare i suoi confini a nord e nord-est e alla Germania di acquisire le province austriache e completare così la sua unificazione “nazionale”? Era quel che ci si riprometteva di capire dalla missione.
Quanto alla Francia, Crispi doveva accertare se la Germania sarebbe venuta in soccorso dell’Italia nell’eventualità di una rottura tra Parigi e Roma dopo le elezioni francesi. Naturalmente tutto doveva restare segreto: gli ambasciatori italiani ne sapevano quasi meno del ministro degli esteri. E per gettare fumo negli occhi il presidente della Camera avrebbe visitato nel corso del suo giro un certo numero di capitali europee allo scopo di esplorare la possibilità di un accordo internazionale sui diritti civili dei residenti stranieri (e discutere altresì la situazione politica generale).
Crispi lasciò Roma il 24 agosto. Andò a Stradella per parlare con Depretis, che l’accompagnò poi a Torino, dove fu ricevuto da Vittorio Emanuele. Il re era giunto nel capoluogo piemontese dal suo ritiro estivo di Sant’Anna di Valdieri appositamente per conferire con Crispi. Riferendo il 27 agosto la sua conversazione con il re in una lettera a Depretis, Crispi scrisse:
Egli nulla spera da una combinazione in conseguenza della guerra d’Oriente. Crede anche lui che sia tardi e che non vi sia posto per noi. Nulladimeno mi raccomandò di fare tutto il possibile onde vedere di entrarci con qualche profitto. Fu diverso il suo linguaggio per l’altra operazione, cui realmente mira il mio viaggio. Il Re sente il bisogno di co ronare i suoi giorni con una vittoria per dare al nostro Esercito la forza e il prestigio che in faccia al mondo gli mancano. È linguaggio da soldato e lo comprendo [...]. E il Re ha purtroppo ragione [...]. Ripariamo, se è possibile, il vuoto, e poiché ci credono buoni diplomatici, facciamoci valere affinché la Patria nostra provi a coloro che non la rispettano abbastanza che essa è qualche cosa nel vecchio continente36.

Due mesi dopo, di ritorno a Torino, sottoposto dal re a tutta una serie di domande sul suo viaggio, Crispi si sentì ancora avvicinato a Vittorio Emanuele dal comune desiderio di gloria sul campo di battaglia e dalla recente preoccupazione di un ridimensionamento dell’esercito connesso ai tagli del bilancio militare annunciati dal governo. Erano, in fondo, gli stessi sentimenti in nome dei quali il presidente della Camera elettiva si era inoltrato sul terreno della diplomazia per parlare “linguaggio da soldato”.
Dal suo viaggio era certamente scaturita l’offerta da parte di Bismarck di un’alleanza antifrancese. Crispi ne avrebbe in seguito dedotto che, se fosse stata raccolta, all’Italia sarebbero state risparmiate le umiliazioni subite in seguito al Congresso di Berlino. Un’ipotesi sulla quale Crispi avrebbe poi coltivato e costruito un proprio profilo di bismarckiano d’Italia.
A Bismarck, invece, parve che l’Italia non avesse intenzione di fare sul serio. Per rimediare al danno – riguardo alla Francia, al Vaticano, e anche all’Austria, irritata dall’offerta dell’Albania – il Cancelliere fu costretto a sconfessare Crispi. Di qui un certo numero di riferimenti tutt’altro che lusinghieri allo statista italiano nelle sue conversazioni degli anni immediatamente successivi37.
Ma sono vicende e valutazioni che non meritano di sovrapporsi a quell’anno di presidenza della Camera. Né in quel viaggio sono ricavabili elementi per ancorare rigidamente la biografia di Crispi al “progetto per una dittatura”, come deduce Romano.
Così – egli scrive – il ciclo della sua evoluzione poteva dirsi veramente compiuto. I due mesi passati in Europa nell’estate e nell’autunno del 1877 avevano accelerato la maturazione d’uno sviluppo che egli nascondeva dentro di sé fin dalle sue prime battaglie politiche. Dopo aver abbandonato Mazzini sul terreno costituzionale egli lo abbandonava ora anche sul terreno della politica estera. Da repubblicano a monarchico, da internazionalista a nazionalista. Gli rimaneva da compiere ancora un passo: da liberale a conservatore. Lo compirà nei prossimi vent’anni.
Il viaggio in Europa sortì un altro risultato importante: quello di convincere il re che Crispi non era più l’uomo del ’48 e del ’60. Era fedele alla monarchia, ne condivideva le aspirazioni, parlava un linguaggio di grandezza e di forza militare che Vittorio Emanuele comprendeva. Quale importanza avesse questo mutamento d’animo lo si vide poche settimane dopo, nel dicembre 187738.

Tutto vero, magari, ma non tutto il vero. Perché fra la vicenda di Crispi e la storia d’Italia le connessioni e le contrapposizioni sono assai più profonde e complicate. Ed a suo modo quel viaggio in Europa ne forniva indizi rilevanti.


6. Fra Cavour e Bismarck

Viaggiando nelle capitali europee, una sensazione sgradevolissima era andata maturando nell’animo di Crispi. Gli sembrava che un valoroso esercito, una dinastia realmente nazionale, un’aristocrazia politica, una sagace diplomazia – nonché il buon diritto a metterle in campo – fossero fra quanto si era disposti a riconoscere alla storia del Piemonte sabaudo, ma non altrettanto all’Italia liberale che ne era scaturita. Di qui una sottile eppur onnipresente inquietudine, anzi angoscia, nel rapporto con la storia del proprio paese dello statista siciliano. Il che ne fece un predestinato a venir ricordato come il più controverso e contraddittorio.
Romano ipotizza di raccontarlo come una sorta di antesignano di Mussolini. Eppure passo passo nella sua vita lo incalzano e lo condizionano sempre più il peso e la continuità dell’ombra di Cavour. Mentre finirà a far soltanto da sfondo la memoria di Mazzini, colui che (più intensamente di Garibaldi) ne aveva dettato formazione e giovinezza.
Viene alla mente la biografia di Cavour, alla quale si era dedicato Heinrich von Treitschke fra il 1866 e il 186939 e sulla quale è tornato ultimamente Gian Enrico Rusconi40. A lungo si sarebbe detto che in Cavour Treitschke implicitamente delineasse i tratti ideali «dell’uomo di Stato che non osava offrire ancora apertamente come modello: Bismarck»41.
In realtà, secondo Rusconi, il punto è più complesso. «Nel bel mezzo della biografia infatti c’è una frase che rivela tutto l’imbarazzo dello storico e pubblicista: “Noi lasciamo all’avvenire giudicare tra il fondatore dello Stato italiano e il fondatore dello Stato tedesco, compito che può oggi allettare soltanto il profeta imprudente o la sciocca vanità”. Il fatto che Bismarck non sia mai espressamente nominato non cancella l’impressione che l’autore sia convinto che con lui all’orizzonte fosse comparso un competitore forte dello statista piemontese»42.
A detta dello stesso Treitschke, nella stesura definitiva non poco lo avevano aiutato quei cavouriani italiani che con il passare degli anni diventeranno ammiratori di Bismarck. Ed era evidente quanto il suo volume sottolineasse la solare visione parlamentare, lontana da ogni evasione repubblicana, del monarchico Cavour ed il suo instancabile prender a modello e ad alleato soltanto il mondo del costituzionalismo occidentale. Né Treitschke nascondeva la sua forte antipatia per «l’enigmatico demagogo» Mazzini; non senza riscontrare come nella riconversione in senso nazionale e monarchico delle pericolose iniziative mazziniane l’abilità politica di Cavour avesse toccato l’apice.
Insomma, se per Treitschke parlar di Cavour era un modo per introdursi a Bismarck, il mondo di Crispi (e di Mazzini) era irrimediabilmente assente.
Quanto al giudizio etico-politico, quello di Treitschke era assai preciso quando dichiarava:
fortunati noi tedeschi, a cui la forza militare della Prussia e il favore del destino permisero di spezzare il giogo degli Asburgo senza rag giri in una lotta frontale. Noi comprendiamo bene lo sdegno dell’onesto d’Azeglio che abbandona il servizio dello Stato in dignato contro questo gioco di scaltrezza e scrive irosamente: Nessuno crede più al Conte quando parla; la sola cosa che si ritiene impossibile è appunto quella che egli afferma. Noi comprendiamo questa collera, ma non dimentichiamo quanto sia facile il giudizio e come difficile l’azione. Una mente politica non può sorvolare con luoghi comuni di moralità sul terribile conflitto di doveri che agita la coscienza del fondatore di uno Stato. All’uomo di Stato non è concesso al pari del semplice cittadino di considerare sacra e come il maggiore dei beni morali la purezza immacolata della sua condotta e della sua fama. Egli vive per gli scopi vitali del suo popolo, deve sapere interpretare i segni dei tempi, deve rintracciare l’idea divina nel groviglio degli eventi e svolgerla in mezzo a duri combattimenti. Se l’opposizione del torbido mondo non può vincersi in altro modo, l’uomo di Stato per il trionfo dell’idea deve ricorrere anche ai mezzi della perfidia che l’individuo non può adoperare per gli scopi finali del suo agire43.

Riferite al mondo di Cavour queste parole suonano fin troppo “bismarckiane”.
Anticipatrici, invece, quasi profetiche, se lette a proposito di Crispi.
Non ancora però a proposito del Crispi presidente della Camera, ben lontano da quel dimissionario presidente del consiglio che nel 1894 rivendicò per sé di fronte al paese la responsabilità di voler sciogliere la Camera; come se fosse davvero un cancelliere...






NOTE
1 Relazione presentata alla Sessantaduesima Conferenza della Commissione Internazionale per la Storia delle istituzioni parlamentari e rappresentative (I.C.H.R.P.I.) il 6 settembre 2011.^
2 Cfr. S. Romano, Crispi: progetto per una dittatura, Milano, Bompiani, 1973.^
3 Cfr. A.C. Jemolo, Crispi, Firenze, Lemonnier, 1970², pp. 96-103.^
4 Cfr. D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di Emilia Morelli, Roma, Bardi, 1961.^
5 Cfr. P. Ungari, Profilo storico del diritto parlamentare in Italia, 1971, Assisi, Carucci, pp. 65-92.^
6 C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1994, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 205.^
7 Cfr. Ivi, pp. 201-215.^
8 Cfr. V. Riccio, Francesco Crispi. Profilo ed appunti, Torino, L. Roux, 1887, p. 34.^
9 F. Petruccelli della Gattina, I moribondi del Palazzo Carignano, Perelli, Milano, 1862, p. 47.^
10 Ivi, p. 170.^
11 V.E. Orlando, Crispi, Palermo, Gaetano Priulla, 1923, p. 6.^
12 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli, 1979, vol. IV, p. 430.^
13 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1973, p. 35.^
14 G. Berardelli, Mazzini, Bologna, il Mulino, 2010, p. 191.^
15 Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, Laterza, 1950.^
16 Ivi, p. 303.^
17 Cfr. F. Crispi, Scritti e discorsi politici, Roma, 1890, pp. 398-412.^
18 Cfr. H. Uilrich, L’organizzazione politica dei liberali italiani nel Parlamento e nel Paese (1870 - 1914), in R. Lill e N. Matteucci (a cura di), Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra mondiale, Bologna, il Mulino, pp. 410-414.^
19 Cfr. M. Minghetti, Copialettere, 1873-1876, a cura di M. Cuccioli, vol.I, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1978, p. 454.^
20 Cfr. C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 429.^
21 «È un ufficio cui non tengo e che avrei fortuna a lasciare...Sono pronto a cederlo a te....Quello cui tengo e cui non potrei e non vorrò rinunziare è l’affetto dei miei amici, per il quale farei ogni sacrificio...» (Ibidem).^
22 Cfr. L. Mascilli Migliorini, La sinistra storica al potere. Sviluppo della democrazia e direzione dello Stato (1876/1878), Napoli, Guida, 1979, p. 114.^
23 Cfr. P. Ungari, Profilo storico…, cit, p. 82.^
24 Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, sessione del 1876-77, tornata del 23 novembre 1876.^
25 Cfr. C. Duggan, Creare la nazione..., cit., pp. 421-446.^
26 Cfr. G. Volpe, Italia moderna, vol. I, Firenze, 1943, pp. 478-485.^
27 Cfr. Atti Parlamentari, cit., tornata del 28 aprile 1877.^
28 Ivi, 27 aprile 1877.^
29 Cfr. F. Fonzi, La trasformazione dell’organizzazione politica nell’età crispina, in Atti del IV Cogresso di storia del Risorgimento italiano, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1992, p. 40.^
30 Cfr. G. Galasso, Cultura e politica negli anni di Crispi, in ivi, p. 452.^
31 Ivi, p. 452.^
32 Cfr. G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino, Einaudi, 1956, pp. 109-111.^
33 A.C. Jemolo, Crispi, cit., p. 96.^
34 Atti Camera, leg. XVI, sess. 2², discuss., tornata 9 dicembre 1887, p. 379.^
35 Cfr. P. Ungari, cit., p. 82.^
36 C. Duggan, cit., p. 435.^
37 Cfr. R. Mori, La politica estera di Francesco Crispi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1973, p. 52.^
38 Cfr. S. Romano, cit., p. 103.^
39 H. von Treitschke, Cavour, trad. it. di G. Cecchini, Firenze, Ed. La Voce, 1921.^
40 G.E. Rusconi, Cavour e Bismarck (due leader tra liberalismo e cesarismo), Bologna, il Mulino, 2011.^
41 Cfr. T. Schieder, Das Italienbild der deutschen Einheitsbewegung, in Begegnungen mit der Geschichte, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1962, pp. 210-235.^
42 G. Rusconi, cit., p. 150.^
43 G. Rusconi, cit., p. 158.^
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