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I socialisti democratici italiani fra questione meridionale e piano Marshall*
di Michele Donno
I socialisti democratici italiani riunitisi nel Partito socialista dei lavoratori italiani, nato dalla scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947, ritenevano che l’esperienza di un secolo di storia patria avesse dimostrato come l’auspicata solidarietà nazionale, cioè la collaborazione del settentrione col Mezzogiorno d’Italia, non fosse mai stata attuata in un regime di perfetto unitarismo, e che, quali che fossero i dati numerici, corrispondenti ai rapporti economici o finanziari tra Sud e Nord, quest’ultimo per novant’anni non si fosse impegnato nel colmare il vuoto di inferiorità in cui il Mezzogiorno si trovava al momento della unificazione nazionale; riprova di ciò era stata la legislazione unica, il fiscalismo uniforme, che il governo aveva approvato per un paese che al proprio interno presentava forti differenze fra una regione e l’altra, per condizioni geografiche, economiche e sociali.
D’altro canto, il Sud non aveva reagito a questo stato di cose con il vigore necessario. Anzi, la rappresentanza politica del Mezzogiorno, denunciavano i socialisti democratici, molto spesso aveva avuto piuttosto cura di difendere interessi particolari che di farsi propugnatrice degli interessi generali della regione. Nel Mezzogiorno, inoltre, dove vi erano vasti settori di elettorato anticomunista, il PSLI non avrebbe riscosso un significativo successo non solo per la mancanza di un sistema clientelare ma anche per l’assenza di leadership ben radicate. Il neo-nato partito, quindi, nei primi mesi di vita, sembrò radicarsi maggiormente nel Nord d’Italia.
Nell’immediato dopoguerra, con la nascita della Repubblica, l’azione governativa rivolta al Mezzogiorno d’Italia, secondo il programma d’azione del PSLI, guidato da Giuseppe Saragat, si sarebbe dovuta concretizzare in una diversa impostazione del problema, tendente alla trasformazione dell’economia meridionale, attraverso un’azione intesa a portare su un piano concreto il passaggio della terra ai contadini, attraverso il credito cooperativo, e un programma industriale per il Settentrione, destinato a favorire la trasformazione agraria del Mezzogiorno1. Bisognava, cioè, sostenere la creazione delle condizioni “ambientali” favorevoli all’insediamento di nuove e “sane” attività produttive, agricole e industriali; incentivare la costruzione di ferrovie, strade comunali, porti, corsi d’acqua, bacini montani e altre opere finalizzate all’utilizzazione delle acque per la produzione di energia, per l’irrigazione e per l’industria; dare sostegno a un’evoluzione tecnologica del settore agricolo, attraverso la modernizzazione degli impianti esistenti e la creazione di nuove attività industriali connesse con l’agricoltura o con le fonti di energia disponibili.
Secondo il PSLI, era infondato il timore che questa strategia potesse interferire in modo antieconomico con le industrie del Nord; vi erano, anzi, possibilità di creare condizioni industriali di reciproco vantaggio. Gli investimenti in questo settore potevano rivelarsi notevolmente produttivi e permettere di raggiungere due principali obiettivi: 1) assorbire per lunghi periodi un numero considerevole di operai del Mezzogiorno; 2) favorire una maggiore produzione dell’industria settentrionale2.
Saragat, inoltre, riteneva che la fuga verso un regionalismo esasperato, nel tentativo di perseguire una maggiore autonomia per il Mezzogiorno, fosse un’illusione. Il problema dell’Italia meridionale non si sarebbe risolto unicamente con una riforma agraria – di cui erano particolari sostenitori i due grandi partiti di massa. Il leader del PSLI, infatti, negava che il Mezzogiorno fosse refrattario ad uno sviluppo razionale delle attività industriali. «Come diceva Giustino Fortunato – scriveva Saragat –: “Vi sono ancora due Italie, non solo economicamente diseguali, ma moralmente diverse”»3. Perché la situazione cambiasse, quindi, il Sud d’Italia avrebbe dovuto suscitare dal proprio interno la forza politica capace di influire decisamente sui rapporti di forze esistenti, favorendo, proseguiva Saragat, un «fecondo connubio con le regioni economicamente più favorite, in un rapporto non più di sfruttamento ma di solidarietà»4. Il Mezzogiorno, secondo i socialisti democratici, pagava, quindi, il prezzo delle sue condizioni sociali ossia della mancata formazione storica di una borghesia simile a quella del Nord e della inesistenza di una sua specifica coscienza politica. Per modificare questo stato di coscienza, si era da molti invocato il suffragio universale. Ma questo rimedio, secondo il PSLI, alla prova dei fatti si era dimostrato insufficiente. Il suffragio universale non aveva favorito la nascita di una coscienza politica forte nel Mezzogiorno, frutto di esercizio quotidiano, ma si era limitato ad accendere, come sostenevano i socialisti democratici, «delle fugaci luminarie, dopo le quali il buio più profondo torna ad invadere l’atmosfera e i cuori degli uomini»5.
La maggioranza del Partito socialdemocratico riteneva, quindi, che per il Mezzogiorno il nuovo ordinamento regionale non sarebbe stato un bene. Si parlava, infatti, di un fondo di solidarietà nazionale, in quanto tutti i bilanci delle regioni del Sud sarebbero stati deficitari. La perequazione dei bilanci delle future amministrazioni regionali dell’Italia meridionale sarebbe, comunque, stata considerata come un atto di giustizia e di riparazione, tenendo presente che nei momenti di bisogno l’Italia meridionale aveva dato le scarse materie prime di cui disponeva, per requisizioni decise dal governo centrale nell’interesse del Paese. Ma, denunciavano i socialisti democratici, era inutile farsi illusioni: con la creazione delle Regioni allo Stato sarebbero mancati i mezzi per poter fare fronte alle necessità e vanamente si sarebbe chiesto alle fortunate regioni del Nord di venire incontro ai bisogni di quelle meridionali, e l’antagonismo tra Nord e Sud sarebbe divenuto ancora più manifesto.
Al termine del primo Congresso del PSLI per lo studio dei problemi del Mezzogiorno, tenutosi a Napoli nel febbraio del 1947, il neo-nato partito assunse una posizione ufficiale: si chiedeva cioè al governo che il passaggio al nuovo ordinamento regionale fosse attuato con gradualità e che, fino al completo risanamento della vita economica nazionale e soprattutto meridionale, lo Stato concorresse mediante congrue istituzioni, sia pure provvisorie e con concessioni opportune, specie tributarie, alla perequazione finanziaria degli enti regionali del Sud con quelli del Nord6.
Il tema del Mezzogiorno assunse ancora maggiore importanza nell’azione politica del PSLI, a seguito del varo del piano di aiuti americani del generale Marshall, che fu peraltro una delle ragioni principali, nel dicembre 1947, dell’ingresso dei socialisti democratici nel quarto governo De Gasperi e dell’avvio della collaborazione governativa con la Democrazia cristiana e i liberali di Einaudi. Ed infatti, la questione del Mezzogiorno, intesa nel suo aspetto sociale-tecnico-produttivo, anche in funzione del risanamento delle aree economicamente depresse, divenne da quel momento per i socialisti democratici uno dei punti essenziali per il consolidamento della democrazia in Italia.
L’attuazione di piani regionali per l’intero Mezzogiorno costituiva, secondo i socialisti democratici, il “primo strumento indispensabile” per un’azione concreta a favore delle aree meridionali. E gli aiuti del piano Marshall rappresentarono una prima risposta. Soprattutto il Mezzogiorno d’Italia abbisognava di un’attenta analisi delle sue potenzialità e di un oculato investimento capitalistico in agricoltura. Premessa di ciò erano la bonifica idraulica dei terreni e tutta una vasta serie di studi che una Commissione di tecnici italo-americana avrebbe compiuto7. Essa rappresentò l’embrione di un auspicato Organo centrale di pianificazione, che avrebbe dovuto avere una visione unitaria del problema meridionale e nazionale. E quindi, la ripresa dell’attività industriale, i finanziamenti a una vasta azione di lavori pubblici e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, trovarono spinta essenziale nell’aiuto americano8.
Il piano Marshall divenne uno dei temi di maggiore impegno politico dei socialisti democratici, che, con Roberto Tremelloni, ebbero un ruolo fondamentale sia nella preparazione dei progetti che nella gestione delle risorse del piano Marshall. Con il piano Marshall le posizioni filo-americane nel PSLI si rafforzano e assunse maggior vigore la critica al sistema comunista-sovietico.
Dopo le elezioni dell’aprile 1948, Tremelloni divenne ministro senza portafoglio per la Cooperazione economica europea e pose i suoi interlocutori di fronte a situazioni concrete e dati reali, al fine di scoraggiare atteggiamenti demagogici e visioni ideologiche dei problemi. In occasione del varo del quinto gabinetto De Gasperi, il PSLI presentò un documento di richieste riguardanti il Mezzogiorno9. Esso si inseriva nel discorso sulla strutturazione degli aiuti del piano Marshall, che Tremelloni avrebbe curato redigendo il piano quadriennale dell’Italia per l’attuazione degli aiuti previsti dall’ERP (European recovery program) destinato all’esame dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).
L’esponente socialista democratico intervenne nella discussione parlamentare sull’Accordo economico con gli USA, affrontando alcune tematiche strettamente collegate: la necessità dei prestiti esteri, il problema dell’indipendenza nazionale, l’europeismo, il Mezzogiorno e la solidarietà nazionale10.
Tremelloni parlò delle responsabilità verso il Mezzogiorno e della necessità di una solidarietà nazionale incentrata su un programma. Ma questo programma non poteva e non doveva essere “improvvisato”. I bisogni erano numerosi e l’utilizzo delle risorse non era elastico. Vi erano, ad esempio, 553mila ettari da irrigare, 773mila ettari di terreno da bonificare nel Mezzogiorno e vi erano le trasformazioni fondiarie da operare. Era necessario il rimboschimento che interessava nell’immediato 95mila ettari; vi erano le comunicazioni da completare, i ponti, le gallerie e i mezzi rotabili; vi erano opere pubbliche di cui il Mezzogiorno era particolarmente deficitario, dagli acquedotti alle fognature, dai porti alle strade, dagli ospedali all’edilizia scolastica.
Il PSLI denunciava, inoltre, come le attese di molti italiani per l’ERP non fossero soltanto attese di lavoro ma anche attese di favori. Ma, secondo i socialisti democratici, favori non ci sarebbero dovuti essere. Il Governo avrebbe dovuto tenere adeguatamente conto dei problemi di carattere regionale nel quadro di una ripresa nazionale, ma sarebbe stato certo assai inopportuno che l’attuazione dell’ERP riaccendesse le infinite polemiche intorno a pretesi dissensi fra agricoltura e industria, fra regione e regione, fra produttori di beni materiali e produttori di servizi, fra città e campagna. Dunque, l’aiuto americano doveva essere inserito armonicamente e con sguardo lungimirante in tutto il quadro dell’economia del Paese. L’ERP, insomma, aveva utilmente stimolato i paesi dell’Europa occidentale a redigere un programma per un periodo quadriennale, e naturalmente ciò aveva rimesso contemporaneamente sul tappeto tutti i problemi nazionali vecchi e nuovi.
Sul problema del Mezzogiorno, secondo Tremelloni, che – lo ricordiamo – fu anche presidente del CIR-ERP, vi era fra i partiti, gli economisti e i tecnici un’ampia concordanza di idee sui criteri cui ispirare l’azione di governo11. Gli ostacoli e le “dissonanze”, tuttavia, cominciavano a manifestarsi nel momento in cui si passava alla “fase esecutiva”, cioè a quella fase in cui bisognava concretamente suddividere mezzi e risorse fra i vari ministeri per il finanziamento delle singole opere.
I socialisti democratici sottolineavano, infatti, la persistente mancanza di un quadro organico di iniziative che sarebbe potuto scaturire soltanto dalla redazione di piani regionali e nazionali, “strumenti indispensabili” a favore delle aree meridionali. I socialisti democratici ribadivano la necessità di non procedere “a casaccio” nella politica degli investimenti pubblici, evitando di agire «soltanto sotto l’assillo della disoccupazione da alleviare»; continuavano a respingere l’accusa proveniente da alcuni settori della maggioranza democristiana di essere dei pianificatori “accaniti”, ricordando che, nell’esaminare i problemi del Mezzogiorno, gli stessi tecnici americani, «non sospetti di manie pianificatrici», avevano proposto la costituzione preliminare di un «organo centrale di pianificazione» con il compito di stabilire criteri e modalità per lo studio dei progetti proposti dai singoli ministeri, mantenendo «una visione unitaria di tutti gli aspetti». Uno specifico organo con funzioni “continuative e permanenti” avrebbe dovuto avere, poi, la responsabilità di compilare tutti i singoli piani d’intervento, accostandoli, sovrapponendoli e, infine, fondendoli in un unico piano generale per il Mezzogiorno. Tale visione si sarebbe, infine, concretizzata di lì a tre anni con la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
Riferendosi alle opportunità fornite dall’ERP, circa l’importazione di beni strumentali per il Mezzogiorno, Tremelloni aveva annotato, fra l’altro:
È importante organizzare una selezionata importazione di beni strumentali e soprattutto di macchinari – che non si producono in Italia – costruiti secondo i più aggiornati dettami della scienza e della tecnica, che gli S.U. possono offrirci con dovizia. L’attrezzatura delle industrie meridionali è arretrata in molti settori e particolarmente in quelli delle piccole e medie industrie agrarie e chimico-agrarie. L’ammodernamento di esse […] è di estrema importanza anche per accrescere le possibilità di competere con la concorrenza internazionale. Se, come sembra, la importazione di questo macchinario avrà luogo con prestiti a lunghissima scadenza, con interessi miti e a condizioni vantaggiose di rimborso, si presenterà per l’industria del Mezzogiorno una occasione estremamente favorevole per rinascere e svilupparsi. Vi è in questo settore una vasta opera da compiere, di propaganda e di organizzazione, per mettere rapidamente in grado le piccole e medie industrie del Mezzogiorno di trarre il massimo profitto dal piano E.R.P.12.

Ma la parola “pianificazione” aveva per molti preoccupanti risonanze sovietiche! I socialisti democratici guardavano, invece, a quanto gli Stati Uniti d’America avevano realizzato, attraverso piani d’intervento, per la bonifica del Tennessee e della California13.
Sono i mesi in cui il PSLI, con il ministro Tremelloni, era impegnato, come si è detto, nella redazione del piano quadriennale italiano per la gestione degli aiuti ERP e nel Partito si apriva appunto un’articolata discussione sulla pianificazione. Essa era ritenuta strumento di governo molto positivo, soprattutto nella direzione da tempo auspicata della formazione degli Stati Uniti d’Europa: il piano degli aiuti americani, esigendo il coordinamento degli stessi da parte dei diversi paesi europei interessati, appariva il volano per i successivi processi di integrazione europea economica e politica. L’idea della pianificazione resterà sempre fortemente presente nei socialisti democratici italiani, ripresa e sostenuta successivamente anche nei governi Moro del centrosinistra organico.
Nei primi mesi del 1950, sul tema della riforma fondiaria, Tremelloni aveva osservato come requisito preliminare per essa fosse il potenziamento delle infrastrutture.
Si tratta – scrisse Tremelloni – di ferrovie, di strade (specialmente comunali), di porti, di sistemazioni montane e dei corsi d’acqua, di bonifiche, di bacini montani e altre opere intese alla utilizzazione delle acque del soprasuolo e del sottosuolo per produrre energia, per l’irrigazione, per la popolazione […]. Tutto ciò si può fare utilmente anche senza riforme strutturali rivoluzionarie del regime fondiario e dei rapporti economico-sociali, pur rientrando anche la riforma agraria, la rottura dei monopoli terrieri e le altre riforme strutturali, nell’ordine dei provvedimenti atti a creare quell’ambiente economico e sociale idoneo alla evoluzione civile delle regioni meridionali e insulari14.

Su questo fronte le difficoltà della macchina amministrativa dello Stato15 si ripercuotevano anche su un secondo punto, relativo agli interventi per il Mezzogiorno e le aree depresse, strettamente collegato con il primo. Il tema di un organismo centrale per il Mezzogiorno – quello che sarà la Cassa – fu proposto con forza dai socialisti democratici, sulla scorta delle analisi dei tecnici americani16.
La presentazione del disegno di legge sulla Cassa per il Mezzogiorno, a cura di De Gasperi, e sostenuto dal PSLI, trattò i molteplici aspetti della questione meridionale17. De Gasperi affrontò il tema della provenienza dei mezzi finanziari riconosciuti alla nascente “Cassa”, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale del Fondo Lire creato nel programma ERP18. Della Commissione speciale nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, per esaminare il disegno di legge sulla “Cassa”, fece parte il socialista democratico Giovanni Cartia, membro anche della Commissione per l’esame del disegno di legge sulla riforma agraria.
La presenza americana nella vicenda di costituzione della Cassa per il Mezzogiorno non fu solo di natura finanziaria ma anche ideologica. Cartia affrontò la contraddizione, da alcuni rilevata, circa la creazione di un ente autonomo dal punto di vista amministrativo, rispetto alla macchina dello Stato, sottolineando come non mancassero in tal senso precedenti in altri Stati democratici: negli Stati Uniti, ad esempio, il problema della valorizzazione della valle del Tennessee era stato risolto con un ente unico – sostenuto dalla cooperazione di sei Stati detentori di sovranità nell’ambito della Confederazione – e attraverso l’unificazione delle iniziative mediante indirizzi organici, decisi dallo stesso ente unico19.
Circa il secondo, importante provvedimento, quello sulla riforma fondiaria, notevoli erano le attese, soprattutto nel Mezzogiorno, che aveva visto nell’anno precedente un grande ciclo di lotte per l’occupazione delle terre incolte20. Il ministro Segni diede le coordinate generali del provvedimento, nel discorso di presentazione, in cui il ruolo dell’ERP appariva decisivo, soprattutto in ragione della vasta estensione di terreni bonificati e bonificabili, attraverso i finanziamenti americani, e che erano destinati alla espropriazione e all’assegnazione ai contadini21.
Nel sostenere il provvedimento, il PSLI, tendenzialmente favorevole non alla forma della piccola proprietà ma alla forma di conduzione collettiva o cooperativistica, chiedeva, quindi, che la riforma agraria non si riducesse alla semplice distribuzione di terra ai contadini, «appagando – precisavano i socialisti democratici – soltanto ansie individualistiche di possesso, moltiplicando il numero di proprietari, piccoli o grandi che siano»22. Giovanni Cartia pose sull’avviso le forze politiche circa la necessità non solo di una politica agraria di “equa distribuzione” della terra, ma di una politica che fosse anche finalizzata a maggiore produttività, attraverso la realizzazione di forme associative volte ad incentivare un’attività produttiva democraticamente consorziata. La piccola proprietà, cioè, sarebbe dovuta essere non solo assistita per quel che riguardava la concessione della terra, le opere di miglioramento fondiario, di impianti arborei, e così via, ma anche sostenuta e guidata nella istituzione di forme cooperative, per la gestione in comune di macchine agricole, per la trasformazione dei prodotti della terra, per una loro vendita che fosse sottratta alla speculazione, e per l’acquisto dei mezzi di produzione; un primo avvio, quindi, a complesse forme cooperative sul modello di quelle esistenti nei più progrediti Stati europei. I mezzi finanziari per provvedere alle complesse operazioni di riforma (espropriazione, trasformazione fondiaria e bonifica, acquisto attrezzature) sarebbero stati attinti dai fondi messi a disposizione della Cassa per il Mezzogiorno e da quelli stanziati nella legge per le opere straordinarie nelle altre regioni italiane.
La Cassa per il Mezzogiorno, in conclusione, avrebbe dovuto preparare, coordinare e finanziare programmi importanti per la valorizzazione dei prodotti agricoli, promuovendo, organizzando e, eventualmente, finanziando, servizi comuni tra utenti associati in consorzi e cooperative.
Dal 1950 fino al termine della collaborazione governativa nell’età degasperiana (aprile 1951), il PSLI condizionò la sua partecipazione alla compagine ministeriale proprio alla realizzazione di una politica produttivistica a favore del Mezzogiorno, «massima area depressa nel quadro dell’economia nazionale», per il quale si chiedeva, in particolare, la realizzazione di un piano per l’irrigazione e la bonifica delle terre23. Sul fronte della produzione industriale meridionale, i socialisti democratici chiedevano poi una politica che sostenesse i consumi e i piccoli consumatori, attraverso una diminuzione delle imposte sui consumi ed un aumento di quelle sul reddito. Ma fu proprio su quest’ultimo punto e, più in generale, su alcune differenti visioni politiche ed economiche dei problemi del Mezzogiorno d’Italia, soprattutto in relazione all’attuazione della riforma agraria, che si consumò progressivamente lo strappo fra De Gasperi e i socialisti democratici italiani.






NOTE
* Testo della relazione presentata al convegno “La prospettiva del Meridionalismo liberale. Politica, istituzioni, economia, storia”, Roma 7 ottobre, Soveria Mannelli, 8 ottobre 2010. Atti in corso di pubblicazione.^
1 Interessanti, in questi mesi, gli interventi su «Critica Sociale» in tema di Mezzogiorno: B. Caizzi, La questione meridionale, 15 dicembre 1945 e 1-16 agosto 1946; C. Barbagallo, La questione meridionale, due articoli, 15 settembre e 15 ottobre 1946; Id., Della industrializzazione del nostro Mezzogiorno, 1 dicembre 1946. Più in generale, sull’azione governativa e parlamentare dei socialisti democratici fra il 1947 e il 1952, cfr. M. Donno, Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009.^
2 Sul Comitato permanente per la difesa degli interessi del Mezzogiorno, fondato nel novembre 1947 da Luigi Sturzo, cfr. S. Zoppi, Il Mezzogiorno di De Gasperi e Sturzo (1944-1959), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.^
3 G. Saragat, Il problema del Mezzogiorno, in «L’Umanità», 22 gennaio 1947.^
4 Ibidem.^
5 C. Barbagallo, Mezzogiorno ed autonomie, in «L’Umanità», 27 aprile 1947.^
6 Il 22 e 25 febbraio 1947, il PSLI tenne a Napoli il primo Congresso nazionale per i problemi del Mezzogiorno. Cfr. Il 1° congresso nazionale sui problemi del Mezzogiorno, in «L’Umanità», 23 febbraio 1947; Il primo Congresso del P.S.L.I. per il problemi del Mezzogiorno, in «Critica Sociale», 16 marzo 1947. Su «L’Umanità» cfr. La razione del pane è nuovamente in pericolo, 19 febbraio 1947; C. Barbagallo, Il problema del Meridione, 20 febbraio 1947; E. Cossu, La disoccupazione problema assillante, 21 febbraio 1947; L’aumento degli affitti sarà deliberato oggi, 27 febbraio 1947; Il popolo non può vivere e il Governo continua a discutere, 4 marzo 1947; Un’altra Commissione di studio sul tesseramento differenziale, 13 marzo 1947; I. de Feo, L’abbicì della questione meridionale, 16 marzo 1947.^
7 Cfr. C. Barbagallo, Gli Americani e il Mezzogiorno, in «L’Umanità», 14 settembre 1949. Vedi anche Commissione Erp e Mezzogiorno, in «L’Umanità», 4 ottobre 1948.^
8 Cfr. P. Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 355-485.^
9 Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa (abbr.: CIRIEC), Fondo Roberto Tremelloni (abbr.: FRT), Carte personali, serie 5, sottoserie 6, busta 18, fascicolo 101 (d’ora in poi si indicheranno solo i numeri), Questione Mezzogiorno, appunto di Tremelloni, vice presidente del CIR, 12 luglio 1948.^
10 Cfr. Atti del Parlamento italiano (abbr.: API), Camera dei Deputati, Discussioni, seduta del 12 luglio 1948, intervento di Tremelloni, pp. 1127-1136.^
11 Cfr. CIRIEC, FRT, Carte personali, 5.6.18.101, “Questione Mezzogiorno”, cit. ^
12 Ivi, “Questione Mezzogiorno”, cit., p. 7.^
13 Cfr. J. Huxley, La ‘Tennessee Valley Authority’ perla della pianificazione democratica, in «L’Umanità», 10 maggio 1949.^
14 CIRIEC, FRT, Carte personali, 5.6.18.101, “Questione Mezzogiorno”, cit., pp. 1-2.^
15 Su questo tema, ripetutamente presente negli interventi di Tremelloni, l’esponente socialista democratico presentò la richiesta di costituzione d’una Commissione parlamentare d’inchiesta, insieme con altri parlamentari. Cfr. API, cit., Proposta d’inchiesta parlamentare d’iniziativa dei deputati Tremelloni, Corbino, Chiostergi, Saragat, Vigorelli sul funzionamento dell’amministrazione pubblica e sul modo di migliorarne l’efficienza tecnica, n. 1480, pp. 1-3.^
16 Sulle origini della Cassa per il Mezzogiorno cfr. G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il “primo tempo” dell’intervento straordinario, in Aa.Vv., Storia dell’Italia repubblicana, I, Torino, Einaudi, 1994, pp. 293-399, in particolare le pp. 387-399; G. Pescatore, La cassa per il “Mezzogiorno”. Un’esperienza di sviluppo italiana, Bologna, il Mulino, 2008. Sulle vicende della Cassa per il Mezzogiorno, per una valutazione complessiva, e negativa, dell’operato dell’Ente, cfr. E. Di Nolfo, La Repubblica delle speranze e degli inganni, cit., pp. 372-374, all’interno di un giudizio molto positivo sulla stagione riformistica dei governi De Gasperi, ivi, pp. 376-377.^
17 Cfr. API, cit., Disegno di legge presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri di concerto con tutti i ministri. Istituzione della “Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale” (Cassa per il Mezzogiorno), n. 1170, seduta del 17 marzo 1950, pp. 1-17.^
18 Cfr. API, cit., Disegno di legge n. 1170, cit., intervento di De Gasperi, pp. 2-6. A questo proposito cfr. Relazione sul secondo anno E.R.P. in Italia (1 Luglio 1949 - 30 Giugno 1950) e Relazione sul terzo anno E.R.P. in Italia (1 luglio 1950 - 10 giugno 1951), C.I.R.-E.R.P., Roma, Anonima tipografica editrice laziale, 1950 e 1951.^
19 Cfr. API, cit., seduta del 22 giugno 1950, intervento di Cartia, pp. 19944-19945.^
20 Cfr., API, cit., Disegno di legge presentato dal ministro dell’Agricoltura e delle Foreste di concerto col ministro del Tesoro e col ministro di Grazia e Giustizia. Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini, n. 1173, seduta del 17 marzo 1950, pp. 1-9. Sul problema dell’occupazione delle terre cfr. E. Villani, L’occupazione delle terre, in «Giustizia Sociale», 16 marzo 1950. Su queste vicende, fra la vastissima bibliografia, cfr. S. Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Torino, UTET, 1984, pp. 585-600; E. Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo degasperiano, Bologna, il Mulino-Svimez, 2006. Un’interessante analisi sulla condizione del Mezzogiorno d’Italia è in I. de Feo, Legislazione per il Mezzogiorno, in «Giustizia Sociale», 13 aprile 1950, in cui l’autore afferma, fra l’altro: «La causa principale della situazione del Mezzogiorno – è oramai risaputo – sta nella sua povertà. Si dice sovente che il nord è prevalentemente industriale e il sud prevalentemente agricolo: l’osservazione è esatta se si ha riguardo soltanto al numero delle persone impiegate nell’una e nell’altra attività. Ma se si volesse intendere quella prevalenza come maggiore ricchezza delle province del nord si sarebbe fuori strada: il Mezzogiorno è più povero del settentrione anche nel campo agricolo sia per la scarsa estensione della pianura, sia per ragioni di carattere idrografico-meteorologico, sia, infine, perché l’agricoltura di oggi, se vuole svilupparsi, ha bisogno di essere strettamente legata alla industria».^
21 Cfr. API, cit., Disegno di legge n. 1173, cit., intervento di Segni, pp. 1-5.^
22 API, cit., seduta antimeridiana del 23 luglio 1950, intervento di Cartia, p. 21326.^
23 Cfr. G. Averardi, I socialisti democratici. Da Palazzo Barberini alla scissione del 4 luglio 1969, Milano, Sugarco, 1977, p. 129.^
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