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Canfora e i paradigmi storici
di Daniele Demarco
Nel 2010 la casa editrice Laterza ha dato alle stampe un breve, ma denso volume intitolato L’uso politico dei paradigmi storici. Si tratta della riedizione di un testo concepito più di trent’anni fa da Luciano Canfora. L’opera, originariamente intitolata Analogia e storia, ha vissuto una lunga e complessa vicenda editoriale. Nel 1982, con anni di ritardo rispetto alla prima stesura, il Saggiatore ne curò l’edizione, ma non senza riserve e soltanto a condizione di un taglio sostanziale. Oggi il libro di Canfora torna ad essere proposto nella sua interezza. Il lettore non tarderà, però, a comprendere i motivi delle originarie riserve editoriali né l’urgenza avvertita in passato di una revisione al corpo del testo. Il volume ha una struttura ancipite. L’autore sceglie, infatti, di percorrere due sentieri tematici almeno apparentemente indipendenti: da un lato analizza un aspetto metodologico concernente la modalità di interpretazione dei fatti storici attraverso lo strumento dell’analogia; dall’altro si interroga sul destino delle società post-rivoluzionarie. Il nesso fra le due questioni rimane sfuggente almeno finché, nel quarto capitolo, non compare esplicito il riferimento alla figura di Stalin, “contraddittoria e tragica” epitome a un orrore connaturato al sistema sovietico e che in qualche modo testimonia di un rapporto eternamente oscuro, ancorché organico, tra l’utopia dell’auto-emancipazione e l’esercizio della violenza.
All’indomani del XX Congresso del Pcus, ma anche prima delle sconcertanti rivelazioni di Krushev sulle efferatezze del sistema, posti dinanzi al fatto compiuto, gli intransigenti fautori del socialismo realizzato avevano per lo più giustificato quella che è stata eufemisticamente definita una carenza di “gentilezza” alla luce del precedente francese del 1793. Si istituiva, cioè, un’“analogia salvifica” tra il Terrore giacobino, pur sempre ispirato a grandi principi umanitari, e il terrore bolscevico. È quanto faceva, già nel 1920, Albert Mathiez quando argomentava sulla specularità tra Le Bolchévisme et le Jacobinisme. Il carattere strumentale di quest’operazione appare oggi in tutta la sua enormità se si tiene presente che persino Oswald Spengler, padre di una storiografia piratesca e che già anticipava una certa attitudine alle manipolazioni tipiche degli ideologi del Terzo Reich, aveva proposto, nel 1933, un simile raffronto, ma con intenti tutt’altro che apologetici. Spengler considerava Stalin l’«inevitabile frutto» della civilizzazione giacobina, una forza nichilistica, quest’ultima, che, secondo l’autore del Tramonto dell’Occidente, aveva sotterraneamente attraversato il secolo XIX per inverarsi, infine, nel XX proprio attraverso la rivoluzione d’ottobre. Al pari di Spengler, dopo il 1956, i fautori del socialismo reale avrebbero sostenuto la continuità tra i principi dell’89 e quelli del ’17. Attraverso l’equazione Stalin-Robespierre essi intendevano, però, nobilitare la figura dell’autocrate sovietico descrivendo gli omicidi e le deportazioni di massa come il necessario, ancorché doloroso, viatico a quel processo di emancipazione del genere umano iniziato con la presa della Bastiglia. La consapevolezza dell’oggettiva superiorità dei valori espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, spiega Canfora, aveva posto i protagonisti dell’89 dinanzi a una scelta: lasciare che simili valori si affermassero attraverso il libero confronto (e accettare il rischio di una loro ridiscussione) o perorarne l’affermazione sino alle estreme conseguenze. Era stata quest’ultima l’opzione di Robespierre. In nome del popolo e della libertà, l’avvocato di Arras avrebbe istituito, con la Costituzione del ’93, una dittatura il cui naturale corollario sarebbe diventato il famigerato Comitato di salute pubblica. L’obiettivo di una realizzazione coatta dei principi rivoluzionari si sarebbe, tuttavia, infranto contro l’incapacità di tenere a freno le cospirazioni interne. Il colpo di stato del 9 Termidoro che poneva fine alla parabola giacobina e la Costituzione dell’anno III che accentuava il carattere censitario del sistema elettorale, avrebbero così ostruito la trionfale marcia verso l’emancipazione del genere umano. Sulla figura di Stalin, si sosteneva, era gravato il fardello storico derivante dalla responsabilità di coronare il progetto fallito del ’93. Quanto più permeabile alle correnti e alle cospirazioni interne si era rivelata la soluzione prospettata da Robespierre, tanto più scientifica e spietata avrebbe dovuto mostrarsi la repressione messa in atto dall’autocrate sovietico. La trama interrotta della rivoluzione veniva, così, suturata in quell’universo concentrazionario in cui dissidenti politici e semplici contadini benestanti venivano sterminati a milioni. Il tema dell’incongruenza tra i mezzi e il fine era lasciato cadere in secondo piano.
È un debole argomento quello analogico volto per lo più a mascherare la sclerosi di un apparato ormai incapace di azionare meccanismi autocorrettivi e prospettare soluzioni originali. Quanto più invale la retorica equazione Stalin-Robespierre tanto più si manifesta, dunque, l’incapacità del sistema di uscire dal circolo vizioso dell’autoritarismo. È questo almeno il punto di vista del filantropo, l’osservatore che schiaccia la propria prospettiva sul piano della causa umanitaria. Dinanzi ad ogni concreto progetto politico e persino dinanzi alla questione stessa della coerenza rispetto ai principi, il filantropo fa valere il principio dei principi, quello della tolleranza. Così facendo, direbbe, però, Tucidide, egli si rivela un “osservatore sprovveduto” cui fanno difetto l’elevazione della prospettiva e l’ampiezza degli orizzonti. Il giudizio del filantropo prende posizione, infatti, nella storia e non sulla storia ed è, di conseguenza, portato a prospettare i fatti nella loro immediata grandezza che, sul momento, può apparire macroscopica. Il Gulag, pensato al di fuori del grandioso progetto di emancipazione dell’uomo, diviene il male assoluto. In onore dell’oggettiva, oltre che doverosa rappresentazione della barbarie, il filantropo tenderà ad incedere in una descrizione per così dire annalistica della perversa realtà del potere. È il caso, ad esempio, della fluviale cronaca dell’orrore fornita da Solženicyn in Arcipelago Gulag. Così facendo, però, il filantropo non agisce diversamente dai borghesiani cartografi dell’impero «i quali fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo studio della Cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile e, non senza Empietà, la abbandonarono alle inclemenze del Sole e degli Inverni». «La delusione dei cartografi dell’impero – ricorda Luis Prieto – è la stessa delusione cui vanno incontro tutti coloro che vedono l’ideale della conoscenza nella sua perfetta adeguatezza alla realtà», ma, sottolinea Canfora, «la storia del pensiero moderno va in direzione contraria, mette in crisi il mito della conoscenza come adeguatezza» e lo fa proprio in funzione di un concreto progetto politico. Cosa accadrebbe se, senza operare deroghe al principio della tolleranza si lasciasse libero corso a una descrizione cartografica del reale in cui possa trovare spazio ogni critica, ogni opinione alternativa, persino quella di chi il principio della tolleranza lo nega? Ci si troverebbe, come è successo a Chomsky, gomito a gomito con nazisti e razzisti. Persino in una società liberale, d’altra parte, la coerente applicazione del principio di tolleranza risulta applicabile con molte riserve. Ed è nel solco di questa contraddizione che si inseriscono correttivi giuridici e deroghe procedurali come quelle elaborate nella Germania di Weimar da Carl Schmitt. Come difendere la democrazia, si chiedeva il giurista tedesco nel 1933, quando essa è posta in pericolo con i suoi stessi strumenti? La questione mette a nudo tutte le aporie della critica filantropica della politica.
A differenza del filantropo, il politico osserva i fatti dall’alto e alla luce di un progetto di lungo corso. Egli tende, quindi, a stimare la loro grandezza non nell’immediata e tautologica oggettività, ma sul metro di una comparazione con quelli passati. Da ciò deriva la sua attitudine a confrontarsi con periodizzazioni di ampio respiro, com’è appunto quella che tende a unificare le due rivoluzioni (1789-1917) o quella che tende a prospettare l’intero corso delle guerre mondiali (1914-1945) come una seconda guerra dei Trent’anni da porre in relazione alla prima (1618- 1648). Il corollario di una simile prospettiva è una macrostoria, una storia comparata, una grande visione del mondo che, se per un verso, come sostiene Braudel, ha il pregio di obbligare a servirsi del passato per donare senso al presente, sotto un altro profilo rischia di sfociare in generalizzazioni o manipolazioni che producono la storia anziché spiegarla. È questo il caso della filosofia della civiltà di Spengler il cui presupposto non appare, in ultima analisi, troppo distante dal celebre assunto kissingerino secondo cui «selezionando i documenti si può dimostrare più o meno qualsiasi cosa». Si entra, così, in un inestricabile paradosso. Il politico non può che pensare analogicamente il presente al punto che, sostiene Canfora, egli si trova in difficile equilibrio tra l’identità e la differenza. Allo stesso tempo, però, l’analogia è lo strumento che rischia di alterare la sua percezione della realtà. Su cosa, dunque, poggia l’oggettività di una decisione politica?
È a partire da questo interrogativo che scaturisce l’acuta riflessione di Canfora sul significato ermeneutico dell’analogia. Quasi a sottolinearne il carattere propedeutico, l’autore colloca la propria analisi nei tre capitoli iniziali dell’opera.
L’analogia, sosteneva Tucidide, è, in un certo senso, il sostrato del nostro atteggiamento teorico e pratico nei confronti della storia, «una costante della vicenda degli uomini e degli Stati», da cui discende la prevedibilità degli sviluppi politici. «Ogni giudizio storico – avrebbe aggiunto Joseph Engel nel 1956 – è un giudizio analogico». Questa definizione presuppone l’inestricabilità del nesso soggetto-oggetto postulata da Dilthey. L’oggetto, sosteneva il padre dello storicismo tedesco, non viene colto, mediante forme a-priori, ma attraverso l’accumulazione di vissute esperienze nel senso interno. La comprensione avviene istituendo tra l’oggetto e il contenuto dell’Io una «connessione dinamica»: un’analogia, appunto. Quest’ultima rappresenta il meccanismo innato dei processi cognitivi. L’analogia, specifica Canfora è innanzitutto una parabola, una metafora esplicativa. La sua specificità consiste nel proporre, dinanzi alla «mera e tautologica identità» dell’oggetto, un termine di paragone, un elemento di differenza. In questo senso l’analogia manifesta quel contenuto critico che solo può rendere più piena e profonda la nostra cognizione del reale. Il problema insorge, però, quando ad orientare la scelta del termine di raffronto è un’ideologia. In questo caso l’obiettività della comprensione è subordinata alle esigenze di un indirizzo politico, filosofico o religioso. Si entra, così, nel campo della manipolazione della realtà. Un’analogia strumentale può, ad esempio, influire sulla percezione del presente alterando la nostra periodizzazione del passato. È il caso di quanti, nel 1789, sulla base di una periodizzazione di ampio respiro, pretesero di istituire una relazione tra il loro tempo e quella della crisi della res publica romana, riattualizzando per l’epoca moderna l’antico istituto della dittatura. Da quel momento la pratica del cesarismo sarebbe diventata la pietra miliare dei nuovi tempi vivendo una nuova giovinezza nei pensamenti politici dei due Napoleoni, così come in quelli di Bismarck e Disraeli. Era ancora al modello cesaristico, declinato nella moderna forma totalitaria, che si richiamavano quanti, dopo il 1917, avevano sostenuto le ragioni della rivoluzione bicentenaria, istituendo un parallelo tra il loro movimento e quello giacobino. Come uscire, dunque, dalla coazione a ripetere gli errori del 1789?
Se, come sostiene Canfora, il politico è portato a pensare per analogie, il buon politico è colui che «sa liberarsi in tempo di un’analogia quando questa, lungi dall’illuminarlo, rischia di imprigionarlo in uno schema inadeguato». Questo assunto conduce, però, al paradosso secondo cui un politico, per essere virtuoso, dovrebbe agire e pensare anche in maniera impolitica, vale a dire immedesimandosi nel punto di vista della sua controparte, il filantropo. Tipico pensiero politico è quello secondo cui ogni qual volta un nuovo ordine viene instaurato «si apre una spirale, la cui posta in gioco è comunque la distruzione di una delle parti in lotta». Dinanzi alle inevitabili violenze, alla repressione del dissenso, alla mortificazione della verità il politico «parla di ostacoli che si frappongono lungo la strada che porta all’obiettivo finale”. Compito del filantropo è di denunciare cosa nell’atteso conseguimento di quell’obiettivo si stia compiutamente realizzando. Quante astrattezze siano poi contenute nelle critica filantropica della politica è, di certo, difficile a dirsi. È altresì difficile, però, dimostrare il primato della politica sulla morale. Prese per se stesse, dunque, le posizioni del politico e del filantropo appaiono, a Canfora, inoppugnabili. Ciò che preme all’autore è di mettere in luce l’urgenza della scelta fra una delle due posizioni. L’opzione di Canfora, sebbene mimetizzata in una selva di interrogativi retorici ed edulcorata dalla piena legittimazione del punto di vista filantropico, sembra orientata, anche a costo di perpetuarne tutti gli errori, a una visione politica della storia. L’autore de L’uso politico dei paradigmi storici, in altre parole, rinuncia weberianamente alla salvezza dell’anima: «L’uguaglianza – dice – non si consegue con la predicazione, ma con la lotta».
Paradosso dei paradossi: proprio negli anni in cui la retorica autorappresentazione del mondo occidentale iniziava a convincere sempre meno a causa del sostegno statunitense alle dittature militari in Cile e Grecia, Canfora, uno degli intellettuali di punta della sinistra italiana, sembra far proprio un realismo politico di stampo kissingeriano, per non dire schmittiano. Schmittiano è, ad esempio, il chiaro riferimento che l’autore fa nel suo libro alla polarizzazione amico-nemico: «Un punto di osservazione che tenda ad ignorare questa polarità – egli spiega – si disloca sul piano dell’utopia». Ma la contrapposizione amico-nemico, elaborata e posta da Carl Schmitt a fondamento del proprio concetto di “politico”, non è pensata come puramente formale, bensì come una rivalità che contempla la possibilità dell’eliminazione fisica dell’avversario. Schmitt, hanno sostenuto alcuni, avrebbe desunto i propri pensamenti adattando, non senza una certa spregiudicatezza, gli scritti politici di Lenin al contesto culturale della rivoluzione conservatrice. Così facendo il giurista tedesco non agisce diversamente da Joseph de Maistre che, per elaborare una teoria politica della contro-rivoluzione, aveva finito per contrapporre al radicalismo giacobino un giacobinismo al negativo.
I sistemi di de Maistre e di Schmitt attestano la continuità di uno scambio protrattosi quasi ininterrottamente per due secoli tra teoria della rivoluzione e teoria della contro-rivoluzione e poi tra bolscevismo (erede delle posizioni giacobine) e fascismo (continuatore della tradizione maistriana). È stato Ernst Nolte a teorizzare il carattere non originale del nazional-socialismo. Lo storico tedesco le cui tesi infiammavano, proprio negli anni della pubblicazione del libro di Canfora, un acceso dibattito sul revisionismo, ha evidenziato la priorità non soltanto cronologica ma anche contenutistica dei postulati rivoluzionari di Lenin su quelli elaborati dai teorici del Terzo Reich. A queste ultime Nolte attribuisce un carattere mimetico: «Uno dei postulati principali di Hitler – scrive, ad esempio, lo storico – resta, pur nella varietà delle formulazioni, quello di contrapporre al bolscevismo un antibolscevismo che abbia la stessa risolutezza bolscevica». «Ma sono giochi di parole», avrebbe obbiettato Canfora in un’intervista faccia a faccia pubblicata su «l’Unità» del 20 aprile del 1989. Eppure le posizioni assunte dall’autore de L’uso politico dei paradigmi storici sembrano attestare ancora fra gli anni ’70 e ’80 del Novecento non soltanto la persistenza di quello scambio, ma addirittura una vertiginosa inversione di tendenza. Negli anni della crisi del blocco sovietico alcuni intellettuali di sinistra attingevano, infatti, al pensiero della destra radicale, sdoganando, per la prima volta, autori come Carl Schmitt gravati da una pesante e universale condanna morale.
Stupisce che, a distanza di trent’anni dalla prima edizione del suo libro, Canfora abbia optato per una ripubblicazione integrale, quasi che il crollo del comunismo sovietico e tutti gli eventi ad esso correlati, non abbiano offerto, sino ad oggi, sufficienti spunti per riflessioni e ripensamenti.
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