Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XII - n. 4 > Interventi > Pag. 345
 
 
Felicità da filosofi nel pensiero antico. A partire da un'intenzione anti-tragica
di Fulvia de Luise
Lo studioso o il lettore appassionato che incontra la riflessione etica dei filosofi antichi non può evitare di essere colpito dalla presenza, in ogni declinazione e prospettiva di pensiero, di una fortissima vocazione alla felicità. Quello che viene chiamato eudaimonismo (dalla parola greca eudaimonia), e che differenzia profondamente la ricerca dei filosofi antichi dalla tradizione deontologica moderna del dovere morale (che fa capo a Kant) è un’intenzione corale, condivisa, che ha le sue radici nel profondo vitalismo della cultura greca, legata omericamente, ma non solo, alla bellezza di ogni espressione di vita, benché (o forse proprio perché) percorsa da inquietudini sul valore e il significato dell’esistenza.
Questa intenzione di felicità, così palpabile nelle strategie di ricerca dei filosofi antichi, non è qualcosa che si aggiunge alla riflessione morale sul bene, ma sembra esserne la radice più profonda, tanto è legata alla nascita stessa della filosofia nella sua versione “socratica”: la prima di cui possiamo seguire con precisione le tracce, attraverso la scrittura dei Dialoghi platonici e da quel che resta dell’imponente fenomeno della “letteratura socratica” nella prima metà del IV secolo, che mette in scena la novità del discorso filosofico. Come è stato detto efficacemente da Martha Nussbaum1, con riferimento a Platone, la rappresentazione del filosofo in azione appare legata a un’intenzione «anti-tragica»: la volontà di contrastare, con un dominio della ragione sulla vita, la diagnosi sull’inconsistenza del bene umano, proveniente dalla tradizione poetica e teatrale su cui si formava ogni greco colto dell’età classica.
Accogliendo l’indicazione della studiosa, soffermiamoci sui due aspetti che costituiscono i perni della diagnosi tragica: la precarietà e l’iniqua distribuzione del bene umano. Per il primo aspetto, vale la condizione di dipendenza, di esposizione del soggetto umano a fattori che egli non può controllare; fattori sia esterni che interni, capaci in ogni momento di strappargli i beni cui egli lega la propria felicità o l’equilibrio faticosamente raggiunto. Per il secondo, vale la casualità a volte perversa con cui beni e mali appaiono distribuiti tra gli uomini; cosa che suggerisce l’inesistenza di un ordine etico sovra-ordinato alle vicende umane, un ordine etico cui appellarsi per pretendere l’abbinamento di virtù e felicità, come davanti a un tribunale di giustizia.
Prima che la prospettiva di una via filosofica al proprio bene si faccia strada attraverso la figura di Socrate, modello razionale di “calcolo” della felicità era quello attribuito da Erodoto a Solone: una somma algebrica dei beni e dei mali di una vita, capace di misurare il suo tasso di felicità solo a consuntivo, cioè dopo la morte del soggetto in questione2. Basata sull’idea che ogni nuovo giorno dell’esistenza può arrecare danni imprevisti, la sconsolata aritmetica di Solone ha una doppia implicazione: che in ogni momento la felicità fortunosamente raggiunta può essere spazzata via e che ogni individuo ha ben ragione a mantenersi inquieto sul proprio bene, visto che non può fare nulla per trattenerlo a sé.
È proprio rispetto a questo tragico scenario che si manifesta la pretesa filosofica di configurare strategie razionali di felicità: strategie che un individuo può perseguire per sanare il doppio deficit del bene umano, la dipendenza e la casualità, instaurando una precisa corrispondenza tra il possesso pieno della virtù e la garanzia di ben meritata contentezza. La pretesa eudaimonistica dei filosofi antichi, ben visibile in tutti i tentativi di ridefinire congiuntamente sia la virtù che la felicità, trova il suo sostegno in un’ambiziosa prospettiva antropologica: bisogna imparare ad essere, a fare di sé un certo tipo di uomo, per poter trarre autonomamente dalla propria virtù le condizioni della felicità; d’altra parte, la possibilità di diventare un certo tipo di uomo è iscritta nella natura umana e ne rappresenta il perfezionamento. In questo senso, i filosofi antichi (e anche i moderni, che riprendono con un più accentuato dinamismo il programma dell’eudaimonismo filosofico) appaiono impegnati a produrre modelli di perfezionismo antropologico, mentre si impegnano a delineare strategie di felicità virtuosa per i soggetti umani3. Al fondo di tali strategie è sempre presente il valore dell’autonomia, cui si associa un’aspirazione costruttiva di raggio più o meno ampio.
Un aspetto molto significativo dell’eredità concorde degli antichi, all’interno della tradizione socratica, è l’indicazione della «cura di sé» come investimento utile per la virtù e la felicità. Autorevoli interpreti contemporanei, come Hadot e Foucault4, hanno letto in questo riferimento dei filosofi antichi a un atteggiamento autoriflessivo di «cura» (epimeleia) per se stessi, un forte significato pratico, che si mantiene costante nella diversità delle prescrizioni e dei modelli teorici sovrastanti. Se è la filosofia ellenistica a declinare esplicitamente il primato pratico dell’«arte della vita» (che è compito del filosofo insegnare), l’elaborazione della «cura di sé» si delinea come prospettiva filosofica («spirituale», secondo Hadot e Foucault) a partire dalla rappresentazione di Socrate, modello di saggezza nuovo, in cui possiamo però riconoscere la traccia di diverse matrici dell’epimeleia hautou già presenti nella cultura greca: l’etica aristocratica della temperanza (sophrosyne), con annessa ambigua indicazione di occuparsi solo di ciò che è «proprio» (oikeion); i miti orfico-pitagorici sul destino dell’anima e le connesse prescrizioni di salvezza nella purificazione e nella memoria; gli esercizi sciamanici di controllo del respiro, finalizzati a liberare la mente dal corpo.
L’indicazione che, a partire dal Socrate di Platone e di Senofonte, si collega all’esercizio della filosofia, come strategia di cura del proprio bene, è che la felicità va pensata come una proprietà che riguarda la vita intera. Anzi, che è della vita intera che si tratta ogniqualvolta ci si domanda se qualcosa è bene per noi. Bisogna dunque pensare la vita intera, non alla maniera sommatoria di Solone, ma nella sua qualità costante, prendersi cura di sé in modo completo e lungimirante, assumendosi la responsabilità piena della propria riuscita nella vita. Anche se la messa a fuoco di questo tema è propriamente patrimonio delle scuole filosofiche a partire dal III secolo a.C., non c’è dubbio che questa indicazione è venuta ben prima dell’«arte della vita» ellenistica. I lavori di Martha Nussbaum5, Julia Annas6 e Christoph Horn7 (ma è importante anche il contributo di alcuni studi specialistici su determinate tradizioni8) suggeriscono una sostanziale omogeneità di intenzioni su questo tema a partire dall’età classica, praticando da un lato il confronto tra i modelli ellenistici di bios (forma di vita), proposti dalle scuole filosofiche, e includendovi dall’altro l’elaborazione etica di Aristotele e di Platone, benché quest’ultimo soltanto come tramite di Socrate. Su questa tendenza a tenere ai margini Platone, filosofo di cui si suppone una forte vocazione teoretica, valorizzando in sua vece il personaggio Socrate, si potrebbe discutere a lungo.
Propriamente e tipicamente filosofica è l’idea che occorra “essere buoni” per avere una “vita buona”. Lo spostamento di attenzione su di sé, come unico ambito di reale autonomia, dove è possibile costruire le condizioni di una felicità che non si perde, accomuna le ricerche dei filosofi antichi nella produzione di un’antropologia ideale, di cui i filosofi stessi sono l’emblema: da Platone a Aristotele e attraverso le diverse formule con cui le scuole ellenistiche configuravano l’ideale del saggio in rapporto al «fine» ultimo della vita, si delinea la scelta di una forma di vita (bios) filosoficamente preferibile; e, attraverso questa, si esprime l’assunzione che essa richieda l’acquisizione di un modo eccellente di essere uomini. La perfezione antropologica, definita in rapporto a ciò che permette di essere felici nel modo più stabile possibile, si configura secondo molte varianti, ponendo sempre in primo piano l’esercizio della capacità di giudizio, l’autonomia e il controllo della dimensione interiore. Svilupperò qui solo alcuni degli esempi possibili, a partire dalla pretesa di collegare la perfezione antropologica al raggiungimento della felicità. Naturalmente, è il filosofo stesso, con la forma di vita che ha scelto per sé, a dover apparire in primo luogo eccellente.
Ciò vuol dire che solo i filosofi possono essere felici (in quanto saggi) o che non esistono alternative di felicità non filosofiche? Naturalmente no, sul piano della realtà, dove ben altri modi di vita sono percepiti come validi modelli di felicità. Ne era consapevole Platone, che, in una lunga sezione del Gorgia9 mette in scena lo scontro tra Socrate e Callicle su ciò che fa la felicità della vita, da cui non si evince così chiaramente che il modello socratico di felicità, basato sull’armonia interiore, sia quello vincente: l’alternativa rappresentata dallo stile di vita dell’edonista Callicle, basato sulla rincorsa senza freni dei desideri, potrà apparire ansiogena e detestabile ai moralisti, ma corrisponde a ciò che molti sentono come sapore vero della vita. E dalla classificazione sistematica dei diversi concetti di felicità, che Aristotele propone nel I libro dell’Etica Nicomachea10, si evince che esistono almeno altri due modelli principali praticati dai più con qualche soddisfazione: quello centrato sui piaceri che il denaro procura e quello che persegue il godimento degli onori sociali. Il problema è che agli occhi del filosofo essi peccano sempre per la loro intrinseca precarietà, per la condizione di dipendenza in cui si colloca il soggetto che si affida a beni di tipo esterno, invece che a se stesso. È così che il filosofo finisce per apparire come il modello di eccellenza umana, o in quanto capace di coltivare in modo eminente la concentrazione e l’autonomia del pensiero teoretico, o, come avviene nella idealizzazione etico-pratica dello stoicismo, trasformandosi nel “saggio” che fa bene tutto ciò che fa.
Ma sul riferimento ideale della proposta filosofica di felicità, c’è forse bisogno di una puntualizzazione. C’è sempre una tensione tra due sensi possibili nel messaggio dei filosofi antichi, quando parlano di felicità come fine etico dell’esercizio del pensiero: per essere felici bisogna impegnarsi a essere un certo tipo di uomo o diventare un filosofo? E il filosofo che parla, proponendosi implicitamente come esempio di eccellenza umana, parla a quelli che aspirano a essere come lui o a tutti gli uomini?
In gioco c’è il significato da attribuire alla riflessione sulla vita dei filosofi e il valore esemplare del loro modo di vita. Per dirimere seriamente la questione bisognerebbe fare i conti con le metamorfosi della figura del filosofo: dall’esempio di Socrate, uomo tra gli uomini sulla piazza della città, pur nella sua atopia (stranezza) e eccellenza, ai filosofi alla guida di un cenacolo di discepoli, poi maestri riconosciuti di scuole di indirizzo divergente, infine consiglieri privati11. La distanza tra le forme etiche di vita e la forma filosofica aumenta, man mano che si costituisce, si rigorizza, si afferma socialmente, una tradizione intellettuale centrata sulla figura del filosofo come maestro di pensiero. Ma a ben vedere l’ambiguità della prescrizione di fare filosofia per diventare uomini eccellenti (virtuosi e felici) si manifesta in modo deflagrante già nell’esempio offerto dal Socrate platonico.
Il Socrate che nel Gorgia appare esempio inarrivabile di autosufficienza della virtù, che nel Fedone mostra la stabilità incrollabile della sua felicità, che nel I libro della Repubblica propone una deontologia etica agli uomini di potere, è maestro spesso inascoltato: da personaggi come Callicle a Trasimaco, piovono le obiezioni più dirette e più forti alla desiderabilità del modo di vita da lui proposto, che oppone il valore della stabilità interiore alla possibilità di avere sempre di più, passando da un piacere all’altro e guadagnando posizioni di potere che consentono di vivere meglio di chiunque altro. E alle voci critiche trasmesse dal teatro platonico dei Dialoghi possiamo aggiungere quella di Antifonte, voce di un cittadino eccellente che dalle pagine dei Memorabili di Senofonte addita il pauperismo della virtù di Socrate come scelta di vita miserabile12. Il suo insuccesso pedagogico e sociale, sancito dalla condanna a morte, ne rende infine paradossale l’esempio, facendo della felicità interiore del filosofo qualcosa di incomprensibile ai più: invisibile e ineffabile come la giustizia interiore di un uomo virtuoso che ha la disgrazia sociale di apparire ingiusto.
Senza nulla togliere alla superiorità morale di Socrate (di cui gli appassionati lettori di Platone e Senofonte restano convinti), non si può fare a meno di notare la distanza che si instaura tra il modello del filosofo e le possibilità accessibili agli altri uomini: solo il filosofo, che gode della ricerca della verità, dispone, per sua natura e per theia moira (sorte divina), di un piacere che lo mantiene sempre autonomo, mentre gli altri restano dipendenti dalle condizioni dell’esistenza per poter essere felici. Il distacco che Socrate mostra nel Fedone, rispetto alla morte, la contrapposizione di una volontà dell’anima di restare “tutta sola con se stessa” (autè kath’auten), rifiutando i desideri del corpo e il coinvolgimento nelle istanze della vita, risultano ammirevoli, ma significativamente esibiti come una scelta praticata dal filosofo, in quanto filosofo.
Credo che Platone si sia posto seriamente il problema della intrasferibilità del modello di virtù rappresentato da Socrate, decidendo di sottoporre il personaggio del filosofo ad una notevole metamorfosi interna: da predicatore che si rivolge “uno a uno” ai suoi concittadini, per esortarli a curarsi della propria anima (una “missione” svolta per conto del dio di Delfi), come appare nell’Apologia, a fondatore di città dove convivono uomini diversi, come appare nella Repubblica. C’è un salto di dimensione, dalla cura degli individui, in cui Socrate propone se stesso e il suo modo di praticare la filosofia, alla politica, come instaurazione delle condizioni perché ciascuno possa essere a suo modo un buon cittadino. Qui c’è a mio parere un tentativo di superare l’ambiguità dell’esempio del filosofo, sciogliendola: come tipo umano, egli non sarà più l’unico modello da seguire, ma il curatore di modi differenziati per essere giusti e felici.
Nel libro IV della Repubblica, dove Socrate elabora il progetto di fondare una città bella e buona, la promessa di felicità che convince i suoi interlocutori prevede che si debbano accogliere molti modi diversi di godere della vita nella cornice civile: «e così, mentre la città tutta cresce nel buon governo, si lasci pure che a ciascuno dei gruppi la natura conceda di ottenere la sua parte di felicità». (Rep. IV, 421c). Il libro IX della Repubblica conferma e rilancia la novità, riconoscendo il valore della differenza tra i tipi umani, con particolare riferimento ai desideri che ciascuno di essi sente di più: il desiderio di cibo, del bere e del sesso per «l’amante del guadagno», il desiderio di gloria e di onore per «l’amante di vittoria», il desiderio del sapere per «l’amante della sapienza»13. Tutti e tre i modi di vita sono accolti nella città sapiente, purché i piaceri preferiti dai diversi tipi umani siano scelti e goduti con la guida della ragione14.
Colpisce qui l’importanza attribuita all’esperienza umana del filosofo, intesa come condizione che permette di giudicare del valore dei modi di vita e di indicarne il grado di preferibilità: identificato come il miglior conoscitore in materia di piaceri15, il filosofo risulta essere, per questo motivo, il solo che possa svolgere il ruolo di guida etica e politica degli altri tipi umani. Qui, a mio parere, si conclude un’opera di revisione della figura del filosofo, come modello di eccellenza umana, che lo consacra, da un lato, come maestro di pensiero (detentore perciò di un tipo di piacere esclusivo), dall’altro come uomo, partecipe di modelli minori di felicità, dentro un sistema inclusivo di tipi umani e relazioni civili. L’esperienza del filosofo, attraverso la condivisione dei piaceri moderati e giusti, si riversa nell’impegno dell’uomo di pensiero (al governo per officium) a rendere buona e felice la vita di tutti, senza far prevalere le ragioni di una vocazione contemplativa e solitaria, spesso attribuita a Platone come solo fine degno del filosofo.
Assai diversa è l’operazione con cui Aristotele arriva a distinguere la felicità dell’uomo pratico da quella del filosofo, in un quadro teorico in cui l’obiettivo strategico della felicità, come «fine ultimo» di ogni azione, appare iscritto nella natura dell’uomo. Dalla complessa analisi condotta nell’Etica Nicomachea, emergono due tipi di uomo felice: l’uomo pratico e il teoreta. Il primo è dotato di una forma di saggezza chiamata phronesis: una virtù della mente che si esercita a partire dalle buone abitudini acquisite nell’ambito dell’ethos e permette di deliberare e di agire bene nell’ambito pratico, dove l’uomo è «animale politico». Il secondo è dedito a quella forma di attività sui generis che è l’esercizio della capacità teoretica, priva di ogni valore sul piano pratico, ma tale da realizzare in lui la virtù della sapienza (sophia), avvicinandolo alla condizione del dio (felice nella sua autosufficienza e dedito alla contemplazione di sé, nell’esercizio del pensiero)16. Entrambi risultano modelli di realizzazione di quello che è l’anthropinon ergon, l’«opera propria» dell’uomo. Entrambi possono a buon titolo rientrare nella definizione di felicità che considera «bene propriamente umano» la realizzazione delle potenzialità specifiche dell’uomo: felicità è infatti, secondo la definizione di Aristotele, «attività dell’anima secondo virtù, e, se queste sono più di una, secondo la migliore e la più perfetta»17. Phronesis e sophia, virtù dianoetiche usate in modo eminentemente differenziato dai due tipi umani (ma entrambe espressioni della capacità di pensiero), costituiscono in modo diverso la realizzazione di ciò che è più proprio e più alto nell’uomo. La loro pari dignità sul piano antropologico e su quello del perfezionismo della virtù sembra delineare uno scenario di collaborazione sociale tra l’uomo pratico e il filosofo, oltre che configurare una doppia possibilità di essere felici in modo degno di un uomo.
Nei modelli ellenistici la differenza tra filosofo e uomo tende ad essere in secondo piano rispetto alla differenza tra scuole, ma rimane un punto sensibile di difficoltà per la tenuta della promessa filosofica di felicità. Epicurei e Cinici riducono la distanza al prezzo di un significativo ridimensionamento delle pretese conoscitive del filosofo, la cui superiorità resta affidata al grado di consapevolezza e di autodominio con cui persegue la medesima strategia eudaimonistica consigliata a ogni individuo. Messi a più dura prova per il rigore del loro modello di saggezza, gli Stoici tenderanno invece ad ammettere che il vero saggio sia introvabile, posto com’è a incommensurabile distanza rispetto al mondo degli «stolti», benché valga la pena di pensare secondo il suo modello normativo.
Un’ultima osservazione riguarda la mancanza di modelli di eccellenza umana al femminile nel pensiero antico. La perfezione antropologica si considera, com’è noto, realizzabile solo nel maschio, adulto, libero, acculturato e greco, titolare di pieni diritti di cittadinanza. Non può certo stupire che in un contesto sociale che nega diritti e opportunità di realizzazione alla donna, in quanto donna, la femminilità sia pensata come difettività. Anche su questo tema, cruciale a suo modo per il nesso tra modelli di eccellenza umana e felicità, si registrano differenze di prospettiva, entro un orizzonte comune di ricerca: in Platone (Repubblica V) troviamo l’idea che sia irrilevante la differenza di genere, rispetto all’importanza delle differenze individuali e tra i tipi umani (benché in generale si registri una maggiore debolezza nelle qualità etiche e intellettuali dei soggetti-donna); in Aristotele, troviamo la più coerente e completa giustificazione della gerarchia di genere e della subalternità sociale della donna, sulla base di una diagnosi di manchevolezza, etico-
politica e biologica, della variante antropologica femminile; nelle filosofie ellenistiche, il valore discriminante della differenza sessuale si attenua insieme all’attenzione per le forme politiche di realizzazione. In nessun caso la riflessione dei filosofi sulla felicità umana prende a modello un soggetto femminile o mette a fuoco il valore della sua specificità per l’esperienza della vita.
Si conferma per questa via che l’idea di felicità, e la riflessione che il pensiero antico dedica a questo tema, è parte della costruzione di un modello strategico di dominio sulla vita, riservato per sua natura solo a chi è in grado di raggiungere condizioni soggettive di eccellenza e indipendenza.



NOTE
Questo intervento costituisce la rielaborazione di una lezione tenuta all’Università di Verona il 15 dicembre 2010.
1 1 Il riferimento è a M. Nussbaum, La fragilità del bene, tr. it., Bologna, il Mulino, 1996 (ed. or. 1986), Intermezzo 1 “Il teatro antitragico di Platone”, pp. 257-279.^
2 Erodoto, Storie, I, 29-33.^
3 Per questo schema interpretativo, cfr. F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli Antichi e i Moderni, Torino, Einaudi, 2001.^
4 I principali testi di riferimento sono: P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino, 2005 (ed. or. 1998); M. Foucault, Ermeneutica del soggetto. Corsi al Collège de France (1981-82), tr. it., Milano, Feltrinelli, 2003 (ed. or. 2001).^
5 M. Nussbaum, La terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, Milano, Vita e Pensiero, 1997 (ed. or. 1994).^
6 J. Annas, La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Milano, Vita e Pensiero, 1997 (ed. or. 1993).^
7 C. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai Neoplatonici, tr. it., Roma, Carocci, 2004 (ed. or. 1998).^
8 Si vedano, ad esempio, per la tradizione aristotelica: C. Natali, Bios theoretikos. La vita di Aristotele e l’organizzazione della sua scuola, Bologna, il Mulino, 1991; S. Gastaldi, Bios hairetotatos. Generi di vita e felicità in Aristotele, Napoli, Bibliopolis, 2003.^
9 Gorgia, 481b-527e.^
10 Cfr. Etica Nicomachea, I, 3, 1095b14-1096a10.^
11 Cfr. G. Cambiano, La filosofia in Grecia e a Roma, Roma-Bari, Laterza, 1983, con particolare riferimento al saggio Le metamorfosi del filosofo.^
12 Senofonte, Memorabili, I, 6, 1-14.^
13 Resp. IX, 580d-581c.^
14 Cfr. a questo proposito Resp. IX, 586e-587a.^
15 Resp. IX, 583a.^
16 Per il paragone tra il filosofo e il dio, sul filo dell’attività teoretica, cfr. i celeberrimi passaggi del libro X dell’Etica Nicomachea, §§ 7-8. Per la definizione dell’attività divina, cfr. anche E.N. VII, 15, 1154b27, dove essa appare del tutto autosufficiente, in quanto priva di tensione verso altro: “attività” “consistente nell’immobilità”.^
17 E.N., I, 6, 1098 a15-16.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft