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Dopo Bin Laden (e non solo)
di G. G.
Anche chi era più convinto che l’azione promossa da varie potenze europee e dagli Stati Uniti contro la Libia fosse una scelta non del tutto giustificata politicamente dalla congiuntura internazionale e da varie altre considerazioni di diversa natura (e noi stessi abbiamo avanzato alcune riflessioni al riguardo nel precedente fascicolo di questa rivista), deve convenire che quell’azione è caduta, comunque, in una congiuntura singolare e di grande rilievo. La congiuntura è quella della contemporanea esplosione di proteste contro i regimi al potere in tutto l’arco dell’Islam fra la Siria e il Marocco, che in Libia hanno portato alla guerra civile e all’intervento esterno, mentre altrove sembra si siano rassegnate, se non placate, per effetto delle fiere repressioni alle quali sono andate incontro.
Certamente, andando a vedere le singole fattispecie dei varii paesi, non è difficile capire che le situazioni sono diverse, l’una dall’altra, a seconda della storia e della struttura di ciascun paese; e che quel che a noi sembra, sotto la suggestione soprattutto della contemporaneità, il carattere generale della fase di agitazioni di cui parliamo, è soltanto uno dei dati di fatto che al riguardo sono da considerare. È ovvio, tuttavia, che, sia pure ciò premesso, quella generalità non è una mera illusione ottica, e che la contemporaneità delle agitazioni non è un dato di ordine puramente, esclusivamente cronologico.
Tutto induce, infatti, a pensare che i regimi oggi contestati abbiano ormai fatto il loro tempo, sia pure per ragioni diverse nel caso di ciascuno. La evidente mancanza di collegamenti, e, meno ancora, di coordinamenti, tra i varii episodi in questione non fa, peraltro, che dare ancora maggiore rilievo a quel carattere generale che si può ipotizzare per la fase attuale dell’Islam mediterraneo, e non solo, quindi, per la contemporaneità di tali episodi. Ma in che cosa si può concretare l’ipotesi?
È, certo, un paradosso un po’ azzardato pensare che i regimi oggi contestati abbiano fatto il loro tempo perché hanno svolto il compito che ne ha prodotto e giustificato a suo tempo l’affermazione nei rispettivi paesi. Che quel compito sia stato svolto con successo o che sia stato svolto senza successo o con più o meno scarso successo, ha, naturalmente, una indubbia e fondamentale importanza storica sia per l’insieme dell’area considerata che per ciascuno dei paesi che la costituiscono. Da un punto di vista complessivo, però, il dato che ne risulta è lo stesso: i paesi in cui quei regimi hanno agito e agiscono sono nel frattempo cambiati, e presentano oggi problemi ed esigenze che non si possono più considerare con la stessa ottica di una quarantina di anni fa, che è, dal più al meno, l’epoca in cui quei regimi sorsero. Anche questo, infatti, ha la sua altrettanto indubbia importanza, e cioè che – come oggi sono oggetto di contestazioni simultanee – così i regimi in questione furono pure il frutto di una stagione politica simultanea (fatte sempre le debite differenziazioni), alla quale dovettero il loro sorgere, ossia le condizioni che lo determinarono. E questo, se non ci inganniamo, è, oltre che un dato di fatto, anche un elemento di giudizio poco o per nulla considerato nei pur numerosissimi commenti che hanno accompagnato e accompagnano gli eventi di cui parliamo.
In Tunisia il cambio di regime è stato compiuto più rapidamente e, almeno a giudicare dall’apparenza e nell’insieme, con costi umani minori. In Libia si è finiti subito nella sanguinosa guerra civile e nelle complicazioni internazionali che tutti sanno, e da cui appare sempre più difficile districarsi per tutti coloro che vi sono coinvolti. Altrove i regimi sembrano aver resistito e appaiono ancora in grado di resistere alle agitazioni nate contro di essi. L’ipotesi generale che abbiamo azzardato si potrebbe, quindi, tradurre nella supposizione – tutt’altro che azzardata, questa – di un allontanamento delle popolazioni interessate dalle aspirazioni e dai vagheggiamenti ideologici e politici, che a suo tempo le portarono a un forte e diffuso appoggio all’avvento dei regimi oggi in contestazione. È vero che quei regimi prevalsero anche grazie all’uso spregiudicato di quelle violenze che oggi sono ad essi imputate come faccia oppressiva del loro potere. Ma è pur da credere che, come sempre, regimi che durano varii decennii non possono fondarsi soltanto sulla forza oppressiva della violenza, e che un certo grado di consenso li deve pur accompagnare perché arrivino a una tale durata. La contestazione odierna dimostra che questo grado di consenso si è ridotto a un minimo variamente insufficiente, se non addirittura a nulla.
Lasciamo, però, da parte questi aspetti di assai difficile valutazione sia retrospettiva che prospettica. Limitiamoci ai due aspetti che sembrano potersi dedurre dall’insieme di ciò che abbiamo cercato finora di osservare. Il primo è che l’Islam mediterraneo si trova oggi in una fase di crisi strutturale, verosimilmente destinata – quale che siano il corso degli eventi e la sorte dei regimi interessati – a non concludersi rapidamente. Il secondo è che, grazie al determinarsi di tale nuova situazione, l’instabilità del mondo musulmano, che sembrava finora concentrata tutta sull’asse Irak-Afghanistan-Pakistan, con qualche più modesta appendice fuori di tale asse, come lo Yemen, si è estesa ora anche a tutta l’area dell’Islam mediterraneo.
Senonché, proprio questa estensione porta a porsi anche un’altra domanda.
L’instabilità dell’Islam orientale è stata largamente attribuita, come tutti sappiamo, a improvvide iniziative occidentali, e in primo luogo alle decisioni americane di intervenire prima nell’Irak e poi in Afghanistan. Anche quando hanno finito con l’allinearsi a tali decisioni, gli europei sono stati sempre in grande maggioranza convinti che se ne sarebbe potuto fare a meno, e sarebbe stato meglio. Oggi, però, l’instabilità è nata in un’altra e non meno importante parte del mondo musulmano per ragioni indubbiamente endogene, a meno di non voler credere a una grande operazione della solita CIA, tradizionale imputata di tutto quanto di riprovevole e di peggio che riprovevole accade nel mondo (ed è significativo che questa volta un sospetto del genere, per quanto ci risulta, non sia stato affacciato). Vi sono state, secondo alcuni, mene francesi (e, si è detto, anche inglesi) in Libia, ma nessuno ha sostenuto che siano state tali eventuali mene ad aver scatenato quel che si è visto negli ultimi due o tre mesi. Ed ecco la domanda di cui sopra. L’instabilità e il suo estendersi è fatalmente destinata ad accrescere la marea dell’estremismo radicale che nel mondo islamico monta da tanto tempo in qua, come si è sostenuto, in particolare, per gli interventi armati americani nella zona? Oppure questa più estesa instabilità è il segno che reazioni elementari e immediate – quali l’adesione crescente a posizioni estremistiche – non rispondono più alla logica della situazione del mondo islamico di oggi, pur nelle sue innumerevoli varietà e circostanze locali, o almeno cominciano a non corrispondervi più, o, ancora, vi corrispondono in misura decisamente minore e tendenzialmente marginale?
Affacciamo queste domande soprattutto perché nella seconda delle alternative indicate – il declino dell’estremismo – la svolta che ne conseguirebbe avrebbe il rilievo che facilmente si può immaginare. Soprattutto, però, avrebbe una conseguenza potenziale forse ancora più rilevante: la necessità o l’opportunità che l’impegno anche militare delle potenze occidentali in tutta l’area islamica sia destinato a crescere, non a diminuire; e che tale impegno militare, invece di apparire, come, per lo più, finora, una mossa imprudente e, come suol dirsi, controproducente, finisca con l’apparire o una necessità sempre meno evitabile o, addirittura, una saggia risoluzione, che i fatti potrebbero confermare per tale.
Nel frattempo è intervenuta la notizia, che ben si può dire folgorante, dell’uccisone di Bin Laden. Anche in questo caso le voci dell’antiamericanismo si sono fatte sentire in maniera molteplice e, non di rado, davvero sorprendente per le sue incongruenze. Ma, antiamericanismo o non, e quali che siano state le reali evenienze del fatto, certo è che in se stesso e per se stesso il fatto – e lo hanno sottolineato un po’ tutti i commenti espressi in tutto il mondo – è uno di quelli per i quali si può certamente usare l’aggettivo “epocale”. Non ne è uscita solo riconsacrata l’immagine degli Stati Uniti come superpotenza che può anche dover inseguire a lungo i suoi dichiarati obiettivi, ma poi li raggiunge. Ne è stata anche largamente dissolta l’idea che con il terrorismo e con l’estremismo radicale, così fiorenti finora nel mondo islamico, non ci sia nulla da fare, e che i sistemi di lotta che si sono escogitati o si escogitano a questo riguardo sono destinati a un sostanziale fallimento. Si è dimostrato, invece, che nessun muro di clandestinità, segretezza, omertà, fanatismo, selezione severissima degli adepti, dottrina del sacrificio estremo di se stessi, e di quant’altro si voglia è invulnerabile. E da questa dimostrazione non è solo una questione di tattica rivoluzionaria o estremistica a essere contrastata e danneggiata; sono le idee stesse sulle quali la tattica si fonda a esserne seriamente intaccate.
Sono decennii e decennii che il mondo islamico pratica il terrorismo. Le questioni essenziali che in tal modo dovevano essere risolte – a cominciare dalla prima e massima, ossia quella israelo-palestinese – non hanno fatto molti passi avanti. Al contrario, le soluzioni moderate sperimentate nei rapporti fra Israele e Giordania e fra Israele ed Egitto hanno dimostrato una vitalità e una stabilità che, anch’esse alla lunga, non possono mancare di avere i loro effetti sulla mentalità e sulle ideologie avverse. L’orologio della storia può essere veloce o lento nel suo battere le ore, ma le batte per tutto e per tutti. Le batte anche per il terrorismo; e tanto più se per decennii non riesce a raggiungere i suoi obiettivi, e mostra di essere anch’esso vulnerabile o, in qualche misura, controllabile.
L’uccisione di Bin Laden affretta probabilmente lo scorrere delle ore sull’orologio della storia anche per le idee e per la prassi del terrorismo. È vero che i timori più espressi a ridosso della morte di Bin Laden vanno in senso contrario, ma ciò non significa un gran che. Ragionevole pare, piuttosto, la previsione che possa ora avere una qualche diffusione il terrorismo di piccoli gruppi acefali, che agiscono sotto l’onda di impulsi immediati e autonomi, non controllati dalle centrali terroristiche, e che possono essere molto sollecitati emotivamente in tal senso dall’uccisione di un capo carismatico e mitico come Bin Laden. Ma proprio questo proverebbe, allo stesso tempo, pur se implicitamente, che il grande gioco del terrorismo non potrà che risentire negativamente, entro certi tempi e certe misure, del successo americano in Pakistan.
Ma – si potrà chiedere – questo non è un andare troppo lesti nel gioco delle ipotesi e delle interpretazioni di fatti di una complessità notoriamente imponente? Si, è vero: può darsi che sia così. Le considerazioni che abbiamo qui affacciate resistono, però, a nostro avviso, almeno in una misura di rilievo, a questa e ad altre domande. Ci sembra molto difficile, ad esempio, che si possa prevedere una trasfigurazione della figura di Bin Laden in quella sorprendente icona rivoluzionaria di valore universale che si ebbe da subito per la figura di Ernesto Guevara, il “Che” delle innumerevoli immagini che ancora oggi si vedono per il mondo (anche se oggi – a ulteriore dimostrazione della inesorabilità dell’orologio della storia – il senso rivoluzionario di tali immagini è addirittura trascurabile). Per Bin Laden l’immagine del terrorista non è riscattabile in quella del rivoluzionario. Può contemplare la iconografia del martirio, ma solo in un certo ambito islamico, non certo su scala globale, come accadde per il Che.
Naturalmente, l’individuazione o la supposizione di una linea di tendenza evolutiva delle cose e dei problemi di fronte ai quali ci troviamo non significano in nessun modo che tutto ora sia risolto, o anche soltanto facile. È vero, piuttosto, il contrario, ma, ormai, in un quadro sostanziosamente mutato; e questo è, per lo meno, molto credibile.
Altra questione è, poi, quella dell’effetto che gli sviluppi qui sopra sommariamente indicati potranno avere o avranno sull’equilibrio globale in generale, e in particolare sui rapporti fra le grandi potenze.
Non è potuto sfuggire un certo silenzio osservato, in specie, sul caso Bin Laden da parte cinese, e un imbarazzato commento positivo da parte russa. Per amore di Bin Laden? Non è neppure da lontanamente supporre. È, piuttosto, a nostro avviso, perché, a Pechino, come a Mosca, si sarà capito meglio che altrove l’importanza del caso a vantaggio del prestigio e dell’influenza americana non solo a livello del mondo islamico, bensì a livello globale. Che dal mondo islamico provengano fastidi e rotture all’immagine e alla potenza americana è sempre, di per se stesso, un elemento non sgradito nelle capitali di alcune grandi (e, del resto, anche non grandi) potenze (non escluso qualche paese europeo). In effetti, solo da quando il terrorismo ceceno ha cominciato a imperversare al loro interno, l’Unione Sovietica prima e la Russia poi hanno manifestato una più esplicita condanna dei fenomeni terroristici di matrice islamica.
Il caso Bin Laden si è, comunque, risolto – lo ripetiamo – senz’altro a vantaggio dell’America, quali che ne siano i costi e i residui passivi. La prospettiva di un’assai vasta area islamica in cui possano moltiplicarsi i casi di intervento come in Libia è ancora meno gradevole per le altre grandi potenze (e, da questo punto di vista, è pure da considerare che un’altra grande potenza, quale è oggi l’India, non può vedere di troppo mal occhio una crisi del Pakistan, anche se, in quest’ultimo caso, essendo il Pakistan una potenza nucleare, la forza delle cose impone di essere al riguardo in massimo grado prudenti).
Neppure, per altro verso, si può, infine, trascurare l’effetto non negativo, dal punto di vista sopra illustrato, che il caso Bin Laden può avere sullo sviluppo della questione palestinese, sulla quale ha tanto lavorato fin dall’inizio l’attuale Segretario di Stato americano Hillary Clinton. Sarà stata una pura coincidenza, ma è dopo l’uccisione di Bin Laden che è stato annunciato l’accordo tra Al Fatah e Hamas per l’organizzazione di uno Stato palestinese.
Insomma, molte cose debbono ancora maturare perché si abbia una misura soddisfacente se non piena delle conseguenze dei fatti di cui abbiamo parlato. Ma è più che certo che saranno conseguenze cospicue e durature.
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