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A proposito dell'ultima fatica di Boris Pahor
di Alceo Riosa
La letteratura non rientra solamente nelle competenze dei critici letterari, va da sé. Nelle sue manifestazioni più degne essa costituisce anche una preziosa testimonianza, indispensabile allo studioso, quand’anche più dedito alla storia politica, per ricostruire il clima di un’epoca. Scriverne in questa sede è pertanto quanto mai opportuno, specialmente quando si tratti di testi letterari come l’ultimo lavoro dello scrittore sloveno-triestino Boris Pahor, Piazza Oberdan, che rientra perfettamente nella categoria della letteratura patriottica: non propriamente una narrazione lineare, ma un affresco rapsodico di una vita calata nella biografia collettiva del suo popolo, residente nel Kuestenland asburgico prima, nel Regno d’Italia successivamente al 1918, infine entro i confini della Repubblica italiana. Tema, come si vede, da cui lo studioso dei confini orientali non può prescindere in una ricostruzione storica che voglia allargare l’ottica dai punti di vista parziali, come quasi sempre accaduto in passato, ad una visione di insieme delle vicende della Giulia.
Accoramento, passione e fede sono i principali registri del libro di Pahor, centrato su Piazza Oberdan di Trieste, scelta a centro della narrazione non solo perché riporta alle tragiche vicende del martire irredentista (la cui statua domina lo spazio antistante) ma anche per la sua vicinanza con l’edificio del ritrovo culturale sloveno Narodni Dom, nel quale aveva sede l’Hotel Balkan, il 13 luglio 1920, distrutto dalle fiamme appiccate dalle “squadre volontarie di difesa cittadina” in camicia nera, guidate dal Giunta – sinistra anticipazione dell’ondata di squadrismo fascista che tra poco devasterà intere contrade emiliane e romagnole – con l’avallo di Benito Mussolini, per il quale «di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone»1. Dal dire al fare: l’incendio del Balkan fu solo l’inizio di una interminabile catena di persecuzioni contro la gente slovena, che culminerà, dopo l’8 settembre, nelle spaventose misure antislovene messe in opera dagli occupanti nazisti quando Trieste e dintorni entrarono a far parte della Deutsche Adriatische Kuestenland, coronando per qualche tempo il vecchio sogno pangermanico Nach adriatische See. Proprio in un edifico di Piazza Oberdan si installò la Gestapo, sede di smistamento dei “traditori” verso l’unico lager nazista in terra italiana, la Risiera, non prima di aver loro riservato preliminarmente qualche assaggio della loro tragica sorte futura nelle celle di tortura situate in cantina.
Se allora fu toccato il fondo, durante il ventennio il sistematico stillicidio quotidiano contro la minoranza slovena aveva avuto come obiettivo la sua totale snazionalizzazione: «Non bastassero le spedizioni delle squadracce nere che scorazzavano per i paesi a bordo di camion, il nuovo potere si impegnò ufficialmente per l’abolizione graduale di ogni elemento sloveno, e in Istria croato, per tramite di leggi e decreti. Si intervenne in vari settori: dalla messa al bando della lingua nella scuola e nella stampa fino allo scioglimento dell’associazionismo sloveno e all’imposizione di nomi e cognomi in forma italiana»2.
Certo se ne sa già abbastanza, con cifre relative all’ampiezza del fenomeno che la storiografia ha definitivamente attestato. Il contributo di Pahor, tuttavia, è di offrire esempi inediti delle modalità inumane con cui queste misure assimilatrici furono condotte, specialmente in campo scolastico. Il categorico impedimento all’uso della propria lingua da parte degli alunni sloveni comportava umiliazioni inflitte da insegnanti troppo zelanti destinate a lasciare tracce incancellabili nelle loro coscienze e nella loro memoria. Per un fanciullo in fase di formazione ciò era all’origine di vere e proprie crisi identitarie, non solo sul piano dell’appartenenza nazionale, bensì anche su quello personale, della coscienza del sé.
Le pagine dedicate a «questo genocidio culturale e sociale»3 non fanno certo onore alla storia del nostro paese; tanto più quando lo sguardo si inoltri in un passato ancora più lontano e risalga alle origini delle reciproche ostilità tra italiani da un lato, sloveni e croati dall’altro a Trieste, in Istria e Dalmazia4. Irredentisti e liberal-nazionali triestini non furono estranei a questa atmosfera, specialmente quando il mondo slavo nel trentennio finale dell’Ottocento iniziò a manifestare primi consistenti segni di coscienza nazionale, anche se ancora alla ricerca di una soluzione compromissoria con Vienna. Anzi, la loro aspirazione alla trasformazione trialista dell’impero asburgico non fece che esasperare l’avversione della popolazione di lingua italiana, temendo che una soluzione del genere l’avrebbe posta senza scampo in balia di un popolo “inferiore”. Troppo superbamente gli italiani di quelle parti ostentavano le tracce ivi presenti della lontana civiltà romana, dalla quale essi rivendicavano la propria diretta filiazione a dispetto dei contigui “popoli senza storia”.
Con il nuovo secolo solo una minoranza di irredentisti (ma per questo non meno significativi), come l’industriale Edoardo Schott, alcuni intellettuali come Scipio Slataper e Giani Stuparich5 e in forze i socialisti locali influenzati dall’austro marxismo prospettarono una soluzione potenzialmente positiva per gli uni e per gli altri attraverso il reciproco riconoscimento dei rispettivi diritti all’“identità culturale nazionale”. Ma nella città alabardata essi erano minoranza arrivata troppo tardi: ciò che soprattutto aveva nociuto alla tollerante convivenza di genti diverse nella Giulia era stata quella vera e propria guerra di linguaggi che si erano scatenati gli uni contro gli altri. La “Cirillo e Metodio” dal lato degli sloveni e croati e dall’altro la Lega Nazionale erano infaticabili nel contendersi palmo a palmo il dominio scolastico del territorio, frammentandolo in una fitta rete di confini simbolici in cui le scuole nella rispettiva lingua fungevano da “casematte” costruite non accanto bensì contro. Tra gli stessi socialisti sloveni il veleno nazionalista e il rifiuto dell’altro aveva fatto ampia strada ed alla vigilia del primo conflitto mondiale esso si tradusse durante l’ultimo Primo Maggio di pace in episodi di aggressione fisica contro i correligionari italiani.
A prescindere dal solito quesito sulla precedenza dell’uovo o della gallina e pertanto procedendo oltre, non può non apparire legittima la rivendicazione di Pahor che «se Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, personalità del Risorgimento sono stati considerati patrioti italiani, ebbene, allora patrioti sloveni lo sono stati anche i nostri ribelli al fascismo»6. E che Pahor se ne renda aedo, può soltanto suggerire umana simpatia. Quella medesima da riservare al suo principio di speranza: «ogni qualvolta che cercheranno di soffocare la nostra crescita vitale, ogni qualvolta che renderanno insensibile il nostro cuore, pensiamo che l’economia delle sorti umane ha richiesto il più bel fiore della nostra terra perché potessimo foggiare le fondamenta di una nuova comunità su questa costa. Siamo consapevoli che nelle fondamenta delle nostre case è stato murato il nostro frutto più caro: i corpi delle nostre ragazze, l’allegria della loro giovinezza, il loro sereno coraggio e il loro gaio sorriso»7. C’è qui il tono lirico del poeta autentico e perciò una volta di più, tra parentesi, viene da chiedere per quale motivo la nostra maggiore editoria nazionale si è mostrata così sorda alla sua vasta opera, nonostante che essa fosse già largamente nota all’estero e in odore di premio Nobel.
Possiamo, però, concludere così? Se l’ambizione di Pahor ad essere bardo del suo popolo è ineccepibile e ampiamente legittimata dalla sua passione patriottica e dai suoi talenti narrativi, viene altresì da chiedersi se il messaggio dello scrittore sloveno-triestino non sia in qualche misura retrodatato e comunque poco in grado di aggiungere qualcosa rispetto a quanto è successo nella città il 13 luglio del 2010, auspice il nostro Presidente della Repubblica. Per la prima volta si è assistito quel giorno all’incontro della nostra massima autorità della Repubblica con i colleghi omologhi delle Repubbliche di Slovenia e Croazia e all’omaggio di tutti e tre reso prima alla lapide che ricorda l’incendio del Balkan poi alla stele in memoria dell’esodo degli esuli italiani nel secondo dopoguerra che sorge nello spazio antistante alla stazione centrale. A sera, in Piazza dell’Unità, il maestro Riccardo Muti ha eseguito i tre inni nazionali. Detto senza enfasi, un avvenimento di cui non si aveva memoria.
D’altra parte, è troppo presto per sapere se il 13 luglio 2010 darà frutti; ma l’applauso scrosciante con cui diecimila persone, tra italiani e slavi, hanno accolto l’esecuzione sta a dimostrare che forse anche a Trieste la storia ha smesso di non passare. Tutto dipende da come si intenderà riprenderne il filo. L’alternativa è tra la ricerca di una memoria condivisa e quella rivolta al reciproco rispetto delle rispettive memorie: sloveni e croati non possono cancellare le offese subita dall’Italia e questa non può tirare un frego sul capitolo degli italiani gettati nelle foibe solo perché italiani. Ma bisogna guardarsi dal dare per scontato che anche nelle vicende umane vale il principio della fisica meccanica secondo cui all’azione segue necessariamente la reazione, senza che questa logica possa essere interrotta dall’umana consapevolezza e dalla volontà di porvi finalmente uno stop definitivo. Magari confortate anch’esse dalla storia passata, in cui, come vedremo, non ci fu soltanto ostilità reciproca o reciproca indifferenza.
Resta, comunque, date le disposizioni attuali ancora incerte da una parte e dall’altra, che il cammino non è dei più piani: il rispetto reciproco delle memorie non può limitarsi all’enunciazione del principio, ma dovrà tradursi in atti di natura simbolica visibilmente concreti, ad esempio nella toponomastica o nella monumentalistica. Molto, anzi tutto, dipenderà dal rifiuto di una identità esclusiva, slovena o italiana, e dal sentimento di comune appartenenza alla madrepatria europea8. Dopo il Primo Maggio 2004, data di ingresso della Repubblica slovena nella UE, almeno la cornice istituzionale di questo processo identitario di marca europea è stato disegnato. Se sia molto o poco lo si vedrà dall’evoluzione degli avvenimenti, per ora poco prevedibili non solo in riferimento alla fattispecie, ma anche in termini più generali: il sentimento di cittadinanza a livello europeo è ancora troppo incerto in ogni popolo membro della UE. Paradossalmente, però, le genti della Giulia potrebbero avere, almeno in teoria, una chance in più, derivante dalla loro centralità geopolitica tra est ed ovest, nord e sud. Ovviamente a patto di porre un termine a quel febbrile andamento oscillatorio degli stati d’animo di italiani e sloveni tra orgogliosa retorica mitteleuropea e fuga rassicurante nell’esclusivismo identitario di tipo comunitario in versione Heimat.
Se il riferimento all’attualità, crocianamente inteso, non guasta nemmeno nel nostro caso, le posizioni espresse da Pahor in nome dei suoi connazionali rischiano di appartenere al mondo di ieri. C’è in “Piazza Oberdan” un sottofondo manicheo che poco giova alla comprensione dell’intreccio tra i destini delle varie comunità nazionali della Giulia estraneo al quadro da lui tracciato: troppo drastiche risultano le contrapposizioni tra vittime e carnefici, a superamento delle quali solo una parte sarebbe tenuta a una severo esame di coscienza. Da una lato il mondo incontaminato delle genti slovene, che dopo l’8 settembre non avrebbe mancato di esprimersi prendendo «dagli armadi una giacca o un paio di pantaloni appartenuti a un figlio o al marito assenti per il soldato italiano in fuga: una prova evidente di quanto poco vendicativo fosse il nostro popolo, anche se ben si sapeva come si era comportato l’esercito italiano durante l’occupazione del suolo sloveno»9.
Un quadro, come si vede, dove il bianco si contrappone al nero senza sfumature. A costo di qualche omissione o difficoltà di attribuzione delle responsabilità: le foibe non sono nominate e solo si accenna ai “misfatti” del maggio 1945 per caricarli esclusivamente sulle spalle della «polizia segreta jugoslava»10. Del resto, giova rinchiudersi tanto soffocantemente entro l’orizzonte della propria “comunità” costringendosi a vedere al di fuori nient’altro che fascismo e per questa via confermando, magari senza volerlo, l’equivalenza, di moda tra gli “infoibatori”, tra italiani e fascisti? Non basta che, quasi ad emendare questo vuoto, se così lo vogliamo definire, Pahor adduca – a «dimostrazione di come l’antifascismo sloveno sia entrato in contatto con importanti partigiani italiani»11 – i legami instauratisi al confino di Lipari tra internati sloveni e internati italiani come Lussu, Parri, Rosselli ecc., se poi non se ne osserva la ricaduta nei rapporti con antifascisti italiani locali. Come se nella Giulia il monopolio dell’antifascismo spettasse solo alla minoranza slovena.
Non è questo un modo di erigere un ennesimo muro delle memorie, che non tiene assolutamente conto che ugualmente dall’‘altra parte’ numerosi furono gli antifascisti italiani della Giulia perseguitati e finiti nei forni della Risiera? Tanti furono i cattolici, i socialisti, gli azionisti, i comunisti italiani abituati a vivere a tu per tu con gli sloveni negli stessi luoghi di lavoro, a condividere gli stessi spazi di intrattenimento, gli stessi luoghi abitativi e per i quali l’avversione al regime era nutrita anche dal disgusto nei confronti della brutale politica persecutoria attuata contro la minoranza della Giulia. Tra gli intellettuali basterebbe ricordarne il fiumano Leo Valiani, lo scrittore Giani Stuparich e tutta quella generazione di giovani storici che già allora ponevano le premesse di un dialogo dopo la dissoluzione del fascismo, come Carlo Schiffrer.
Insomma, anche quando più toccanti appaiono le pagine di Pahor sulle colpe dell’Italia contro la minoranza slovena e non si intenda usare la pratica del bilancino per concludere che i perseguitati divenuti a loro volta persecutori non furono da meno nel secondo dopoguerra, varrebbe forse la pena richiamare le parti, al di là delle rispettive brutture, alla coscienza del loro destino comune che, nonostante tanti esempi in senso contrario, è riconoscibile in alcune situazioni non meno decisive, come quella della loro comune sofferenza sotto occupazione nazista: il monumento della Risiera celebra ugualmente italiani e sloveni, di religione cattolica ed ebraica. Perché non riprendere anche da lì il filo della memoria sia degli uni che degli altri?
Nonostante tutto Trieste, da qualsiasi parte la si riguardi, appare finalmente sempre più estranea alla sua Sonderweg di un tempo, per rivelare via via i caratteri di una città come tutte le altre in Italia e in Europa, dove nei luoghi di intrattenimento pubblico si possono ascoltare conversazioni nelle lingue più disparate senza che nessuno ne ostenti scandalo, come succedeva un tempo nella città alabardata. Che colà ciò sia motivo di orgoglio per la parte slovena, deve suscitare compiacimento anche da parte italiana. E, forse, è proprio per questo motivo che si avverte qualche disagio ed anche un po’ di fastidio quando Pahor ne parla orgogliosamente utilizzando il termine «rivalsa che continua»12 vittoriosamente da parte slovena.
E, purtroppo, non basta. Certo, in una visione pacificata delle antiche contese, non c’è nessun motivo per negare a Pahor il diritto di rivendicare alla storia della propria gente piazza Oberdan e dintorni. Ma non fino al punto che si neghi lo stesso diritto alla memoria degli italiani. Che altro infatti vuol significare la chiusa del libro dedicata «al figlio di Marija Jozefa Oberdank, un giovane uomo che rinnegò la lettera K del proprio cognome»13? Pahor lo spiega meglio nelle pagine precedenti: «A parecchi altri ragazzi, privi di una solida educazione, l’incontro con i coetanei italiani inculcò un marcato sentimento di italianità, e da qui diventare antisloveni il passo fu breve. I componenti di questi gruppi avversi alla popolazione slovena avevano spesso cognomi sloveni. Una sorta di moderni giannizzeri che erano – e sono ancor oggi – soprattutto se di estrazione sociale inferiore, più acrimoniosi e aggressivi degli stessi italiani purosangue. Forse bisogna considerare che dai loro padri ereditano insieme ai geni anche un atavico rigetto del dominio austriaco, e ora cercano in qualche modo di prendersi una rivincita senza tenere conto di quanto era sofferto l’asservimento dei loro genitori. Optano, così per l’elemento più forte rifiutando la propria identità, oggi sottomessa a un nuovo padrone»14.
Si perdoni la lunga citazione, ma serve per offrire maggior chiarezza: nel contesto la parola purosangue non è casuale. Insomma siamo ancora in una logica in cui, paradossalmente, ogni scelta di appartenenza nazionale costituisce un tradimento. Più Maurice Barrès che Ernest Renan, più nazione biologica che nazione come quotidiano plebiscito.



NOTE
1 Si veda su questi episodi, A.M. Vinci, Il fascismo e la società locale, in Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, Gorizia, Gorizia Libreria editrice goriziana, 1997, pp. 221-271.^
2 B. Pahor, Piazza Oberdan, Portogruaro, Nuova dimensione, 2010, p. 22.^
3 Ivi, p. 36.^
4 Mi permetto di rinviare al mio Adriatico irredento. Italiani e slavi sotto la lente francese (1793-1918), Napoli, Guida, 2009. Per un panorama complessivo delle varie interpretazione storiografiche sul’argomento, E. Capuzzo, Alla periferia dell’impero. Terre italiane degli Asburgo tra storia e storiografia (XVIII-XX secolo), in “Quaderni di Clio”, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009.^
5 Si veda R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali italiani del ’900, Trieste, Lint 2009.^
6 B. Pahor, op. cit., p. 47.^
7 Ivi, p. 143.^
8 La tesi secondo cui «no one is defined by one identity alone» è sostenuta da M. Hroch, Comparative Studies in Modern European History. National, Nationalism, Social Change, Ashgate variorum, 2007, pp. 195 sgg.^
9 Ivi, p. 124.^
10 Ibidem.^
11 Ivi, p. 94.^
12 Ivi, p. 199.^
13 Ibidem.^
14 Ivi, p. 17.^
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