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Pensiero vivente e filosofia italiana
di Biagio de Giovanni
Quello che ho sempre apprezzato nell’itinerario di ricerca di Roberto Esposito, almeno dagli ormai lontani anni Ottanta, dagli anni comuni del Centauro, è la coerenza e la costruzione, grado dopo grado, di una posizione filosofica oggi giunta a piena maturazione. Un itinerario netto, deciso, per di più caratterizzato da una notevole limpidezza argomentativa, da una esplicitazione di tutte le sue ragioni (al punto che qualche volta si auspicherebbe la presenza di pagine fra loro contradditorie che mostrino il travaglio incompiuto di un pensiero in atto, o l’emergere, magari, di una contraddizione che gli resti interna), in un progresso di argomentazioni che prelude ad ulteriori prossimi approdi. Il tema intorno al quale da tempo si arrovella Esposito, è quello della “biopolitica”, emerso nel Novecento dalle ricerche di Michel Foucault, ma che egli va ripensando come tema profondo e risalente della stessa “tradizione” italiana che proprio con esso, inteso anzitutto in generale come centralità dell’idea di “vita” con le sue molte e differenti formulazioni, sembra entrare nell’età moderna e offrire addirittura una sua propria e specifica lettura del moderno.
Non ho qui l’occasione per ripercorrere l’itinerario dell’autore, ma se dovessi annotarne solo quello che mi pare il nucleo centrale, direi che l’evoluzione più netta e percepibile è nel passaggio dallo scavo nella categoria dell’“impolitico” a quella del “biopolitico”, che implica il passaggio da una tendenza decostruttiva, soprattutto sulla scia della filosofia francese contemporanea (da Bataille a Deleuze e in una certa misura a Nancy), a uno sforzo di occupare in modo diverso quello spazio umbratile e vuoto che nasceva – se mi è consentito dirlo in modo molto sintetico – dalla possibilità di interpretare l’impolitico come “ombra” negativa del politico, posizione assai caratterizzante, ma che si avvertiva come provvisoria, e sulla quale Esposito ha pazientemente sostato per diversi anni. La pienezza vitale del “biopolitico” porta in un campo tutto diverso, per me intensamente problematico, ma carico di una effettualità che l’impolitico non riusciva, nonostante ogni sforzo in contrario, a conquistare. Una effettualità teoretica e storico-storiografico, se in un volume recente intitolato Bios l’autore poteva proporre una ricostruzione drammatica e inconsueta del nazismo come un cono d’ombra in cui si è andata a immergere il lato estremo e degenerato di una visione “biopolitica” del comando politico.
Tutta la tematica biopolitica, nel senso lato di una tematica attenta al tema del Bios, della vita, si trova al centro di quest’ultimo suo libro dedicato al pensiero italiano (Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2010), dall’umanesimo, a Machiavelli a Leonardo a Bruno a Vico fino ai nostri giorni, e alle ragioni di una sua nuova centralità nel dibattito internazionale. La tesi che unifica tutta la ricostruzione può essere espressa in modo assai sintetico così: quel pensiero ha avuto sempre una attenzione radicata e profonda per quella dimensione non-storica (e non storicizzabile) della vita, che Esposito chiama “originaria”, la quale da un lato non si riversa nella storia, dall’altro sta dietro la storia, se così si può dire, come un richiamo permanente e pervasivo alla impossibilità di essere dimenticata, e perfino alla catastroficità di una possibile dimenticanza. È quella dimensione vitale, animale-umana, centauresca, che nessun razionalismo è riuscita ad assorbire, nessuna filosofia della conoscenza a neutralizzare, nessuna epifania del soggetto ad ammortizzare. L’età nuova ci ha provato nel suo percorso principale, da Cartesio a Kant all’ermeneutica e analitica contemporanee al vattimiano pensiero debole, ma la resistenza di quel mondo originario nella sua esistenziale e profonda vitalità continuamente respinge ogni assalto, sembra talvolta ripiegare, accettare la sconfitta, ma poi torna in campo, annidandosi magari nelle stesse pieghe del discorso egemone e dominante, come potrebbe mostrare, ad esempio, l’assillo crociano sulla vitalità “cruda e verde” che sembrò scuotere dal fondo la politezza del suo sistema dei distinti. Si intende bene, dunque, che quello di Esposito non è un percorso meramente storiografico, di chi vuol mettere in evidenza un aspetto contro altri, ma è una sfida teoretica che tocca la stessa costituzione del mondo moderno.
E infatti l’altra tesi principale che attraversa il volume sta nell’idea della plurivocità del moderno, delle diverse vie che si aprono e attraversano la sua costituzione, per cui l’insistenza “italiana” sul non storicizzabile della vita, sulla impossibilità di dimenticare “l’origine” con tutto quel che segue, non può essere relegata nel premoderno (in questo senso non mi appare valida l’obbiezione di Ernesto Galli della Loggia consegnata al «Corriere della sera» dello scorso 3 ottobre in una acuta e franca recensione), ma costituisce un’altra via del moderno, un altro percorso che, sconfitto, continuamente ritorna, e che sta lì, talvolta come convitato di pietra, talatra come coprotagonista, come sembra avvenire oggi, in presenza della caduta verticale di quelle filosofie della storia e filosofie del conoscere che si trovano scoperte dinanzi alla crisi delle loro categorie di comprensione.
Ora, vorrei aggiungere a queste osservazioni un mio commento generale: il volume di Esposito mi produce un doppio effetto che non di rado i libri ricchi di pensiero possono produrre. Si accavallano aspetti che mi affascinano e in parte mi convincono, altri che, ancora più radicalmente, mi respingono e mi allontanano, e la riflessione che segue vorrebbe esser la motivazione di questo doppio e certo non comunissimo effetto. Sulla visione del moderno che si disegna nel libro, ho da tempo una idea per molti aspetti convergente, anche se, come dire?, diversamente finalizzata. L’impossibilità di chiudere la nascita dell’età nuova in una genealogia unitaria e univoca; le diverse vie che l’età nuove apre, a muovere dalle diverse letture possibili dell’umanesimo; il rigetto di quella storiografia per accumulazione che ha avuto pure illustri rappresentanti, da Bertrando Spaventa a Giovanni Gentile; l’impossibilità di relegare alcuni tragitti (il caso di Giordano Bruno insegni, con le tesi assai datate di Koyré e della Yates, che hanno avuto gran corso in passato) nel mondo premoderno del mito e della magia. E richiamo Bruno, non solo per le assonanze che ritrovo con la lettura che ne dà Esposito, ma per la centralità assunta dal filosofo nolano nel pensiero contemporaneo, a riprova di una sua attualità da ritrovare proprio in quegli aspetti che altre letture rinchiudevano in un rigido circuito premoderno. La stessa cosa vale per Vico, e mi riferisco soprattutto ad autori che amiamo insieme, e sui quali le nostre interpretazioni almeno fino a un certo punto si muovono in un circuito comune. Un’assonanza, sia pur problematica, con le tesi del libro sta pure nel merito della principale tesi storiografica: mi par giusto e fondato cogliere nella filosofia italiana percorsi che, pur implicati profondamente nel tema della storia e anzi proprio per questo, hanno spesso particolarmente valorizzato la dimensione non-storica e non storicizzabile della vita, rigettato problematicamente la possibilità di una rigida separazione fra “origine” e “storicità”, fra magma della vitalità-animalità – molto belle, in proposito, le pagine di Esposito su Leonardo – e ragione. Ho sempre considerato Vico contro Cartesio uno dei passaggi cruciali del dibattito moderno proprio nella chiave indicata: «homo non intelligendo fit omnia», scriveva il filosofo napoletano, e a lui potrebbe attribuirsi il detto di P.Valery: «cogito, ergo non sum». Tutto questo ha condotto a una conseguenza dirompente, relativa alla critica di ogni soggettività epifanica, di ogni filosofia del soggetto- oggetto, di ogni inizio radicalmente “nuovo” e senza presupposti, dimentico – come dicevo prima – di quella origine vitale che non può essere dimenticata, e che continuava a premere dentro e sotto la pelle dello scoperto “soggetto”, fino a sfibrarne l’interiore certezza di sé. E qui raccoglierei, almeno in parte, una osservazione di Galli Della Loggia, sull’opportunità che, in questo quadro, fosse rivendicato con maggior nettezza il carattere “nazionale” della filosofia italiana, in una chiave, se così posso dire, neospaventiana, adeguata ai tempi nostri, in modo che la tesi potesse essere anche un contributo per tornare su nazionalità e circolarità della filosofia, ma il tema non è forse nelle corde di Esposito, che se ne libera troppo velocemente, valorizzando proprio l’ininfluenza del rapporto, e peraltro la finalità teoretica complessiva dell’autore va in altra direzione. Peraltro, il tema è scivoloso, dai contorni incerti, e lo abbandono subito.
Il punto chiave del mio dissenso sta altrove, e provo a manifestarlo inizialmente nel modo più netto. Sta, il mio dissenso, nel precipitare di tutto questo apparato interpretativo, di tutti quegli autori così fra loro lontani, e di questa lettura per alternative del moderno, nell’imbuto stretto e spesso poco accogliente della biopolitica. Dicendo questo, so di rigettare l’intenzione principale del libro, tutta tesa a quella conclusione, e so pure di ridurre il significato della mia almeno parziale condivisione della tesi “storiografica” sulla filosofia italiana e anche dell’altra sulla plurivocità del moderno, proprio perché ambedue queste tesi, come sono svolte nel libro, convergono verso questo finale e dunque danno di quei due problemi una fisionomia troppo condizionata da questo esito. So di entrare in un dissenso radicale con tutto il percorso di Esposito fino al penultimo suo libro intitolato alla Terza persona. E dunque devo provare a motivare in modo almeno un po’ argomentato il suo significato, ad evitare – come dire? – la sensazione di una recensione eclettica, un colpo qui un altro là, che è lontana dalle mie intenzioni.
E faccio un altro riconoscimento al ragionamento dell’autore: ogni tesi, per esser ricevuta e compresa nella sua fisionomia propria, nelle sue intenzioni ultime, ha bisogno di essere estremizzata, di esser colta e descritta nei suoi lati contrastivi, per usare un aggettivo che Esposito ama, nella sua dichiarata, dirompente autonomia: ogni pensiero che voglia affermarsi è, in un certo senso, di parte, e forza anche i “precedenti” storici. Questo è perfettamente comprensibile, ed è la stessa ragione del suo esistere, ma c’è, penso, un confine invalicabile, dato dal fatto che, soprattutto implicando qui la ricerca di Esposito la ricostruzione di un intero spaccato storico, le genealogie e le alternative si offrono secondo lati particolarmente sensibili e finiscono con lo scoprirsi troppo. Perché dire, ad esempio, Machiavelli “precursore della biopolitica”? E perché non del repubblicanesimo? E perché non dello Stato moderno? Ma se lo è anche di queste altre cose, e di altre ancora, non sarà che magari l’impossibilità di rinchiuderlo in un imbuto stretto germini dal fatto che questo imbuto, isolato in se stesso, non sia in grado di contenere tutto quello che ci si vuol mettere dentro, e che fuori di esso tracimi troppo dello stesso Machiavelli, e che quel che tracima possa condurre in tutt’altro luogo da quello indicato? E che dunque la “biopolitica” di Machiavelli non abbia nulla a che fare con il suo erede contemporaneo? Che lo stesso esito “biopolitico” di Machiavelli, ammesso che tale possa chiamarsi, assuma un altro carattere se posto in relazione a tutto ciò che da quella determinazione resta fuori? Non si tratta di un esempio che magari fa leva su una frase sfuggita, ma di qualcosa che può essere allargato alla intera dimensione genealogica di uno spaccato storico, così come si presenta nel volume. Il punto è che la plurivocità del moderno non disegna e non può disegnare alternative secche, conducenti in vie che non sono destinate a incontrarsi. L’ìntreccio non è meno importante del contrasto, e comprendo il rischio di indeterminatezza e di “ritirata” eclettica che una simile affermazione può contenere, ma posso saggiare questa via critica avendo il vantaggio di osservare il quadro dall’esterno e di guardare all’ambito della biopolitica con motivata diffidenza proprio nel momento del suo massimo successo.
Biopolitica è termine da Esposito e non solo da lui (ma da lui con particolare coraggio teoretico) inteso in modo molto impegnativo: non attiene a un particolare settore della vita o del sapere, ma è vista come un esito destinato, se mal non capisco, ad annientare l’intero apparato categoriale della politica e della filosofia politica moderne, e in qualche misura lo stesso principio del potere. E siccome oggi, in un giudizio assai diffuso, sembra avere finalmente moltissime ragioni dalla sua parte, avendo squadernato l’eterno e nascosto lato biopolitico della politica, la conseguenza sembra essere che la via finora laterale, marginale, del moderno, ha sopraffatto l’altra, che si è considerata vincente per secoli. O meglio: che il moderno ha finalmente scoperto quella via nascosta, che in modo introverso lo ha sempre percorso senza mai poter essere riconosciuta se non dai pensatori più eterodossi, oggi venuta alla luce anche perché il vecchio mondo è in frantumi, i vecchi poteri si vanno dissolvendo e il potere stesso è in questione e non parliamo delle filosofie della storia, che appaiono come carcasse abbandonate, incapaci di leggere il destino della storia. Quale migliore occasione?
Dunque, vediamo: su chi e su che cosa la biopolitica intende porre le proprie ragioni, imporre il proprio segno? A che cosa è alternativa? La risposta è netta non da ora: al mondo del regime sovrano, della politica sovrana, e in larga misura del potere e dello Stato. La sovranità, si pensa, è stata sempre massacro e dominio sulla vita, rovescio nascosto e non dichiarato di una biopolitica distruttiva che spesso si riduceva a tanatopolitica e che, oggi, fatta venire alla luce con un lavoro di scavo, può andare alla riconquista di un ben altro spazio e di una sua compiuta positività ed espansività. Tolto il velo della forma, la sostanza può finalmente liberare tutta la propria energia, sganciandosi dalla violenza del soggetto fondante. Può procedere finalmente alla distruzione del soggetto sovrano, come di ogni altro soggetto o persona, e aprire il mondo all’espansione della vita. Oggi, quando finalmente il gioco è diventato scoperto, la critica della sovranità somiglia molto alla critica dell’ideologia di marxiana memoria: la sovranità vuole apparire diversa da come è, vuol nascondere il suo volto fondato sul nulla e sull’oscura forza, e produttivo del nulla.
La cosa è estremamente impegnativa e diventa curiosamente un punto d’incrocio dove si ritrovano, provenienti da vie diverse, culture e proposte differenti e fra loro lontane: dai teorici della biopolitica ai teorici dei diritti umani, e così qualche volta mi par di assistere a intese e comprensioni provvisorie fra Stefano Rodotà e Roberto Esposito, per restare in Italia: diritti universali senza politica, o vita senza il vecchio apparato politico, “biopolitica” liberata dalla sovranità e dunque finalmente espansiva e positiva: essenziale diventa mettere in mora ciò che resta delle vecchie categorie e apparati della politica, intesa come funzionamento del potere sovrano (ma quanti significati si nascondono in questa espressione apparentemente univoca!) o come “filosofia” di questo potere e “tout court” filosofia politica. Sì, è vero, oltre un certo punto le loro vie si dividono, e drasticamente, ma di fronte alla possibilità di dare il colpo di grazia alla sovranità l’intesa provvisoria è possibile e feconda.
Naturalmente l’attacco riesce meglio quanto più si riduce lo spessore storico del concetto rigettato, ma questo, nella battaglia filosofica, è normale. Che voglio dire? Che il principio sovrano, come lo trovo rappresentato nelle pagine che lo rifiutano, è a sua volta ridotto, compresso, in una idea di comando assoluto che non corrisponde alla complessità della sua storia e dell’autoriflessione che esso ha compiuto su se stesso, proprio perché si è misurata con la vita concreta: ma quando la politica non si è misurata con la vita? La sovranità è vista ormai come una superfetazione, qualcosa che nasconde la propria vera funzione; è immobilizzata in uno schema algido, e il campo, sgombro dai suoi resti, si immagina rimanga finalmente liberato per l’espansione della vita. Ora il punto vero è che la categoria filosofica sotto accusa, a monte della stessa sovranità, è quella della “mediazione”, il vero muro da abbattere è lì; e se la sovranità è vista come disciplinamento e comando oppressivo sulla vita, la mediazione è rappresentata come conciliazione degli opposti, e la sua azione ancora più subdola e pervasiva. Che il punto su cui affilare la critica sia anzitutto la mediazione lo mostrano autori che ritrovo non a caso valutati con particolare cura nel testo di Esposito, da Mario Tronti ad Antonio Negri, ambedue, in forme diverse, alla conquista di una “autonomia” senza mediazione, e ambedue partecipi, a giudizio di Esposito, di quella visione della filosofia italiana presente nel “Pensiero vivente”. Ricordo qui che lo Spinoza di Negri, il filosofo che Negri considera l’antihegel “ante litteram” per eccellenza, conquistava la sua verità proprio nel rigetto della mediazione, e che la “anomalia selvaggia” impersonata da Spinoza compariva sotto specie di espansione illimite della vita, cui la mediazione opponeva il suo volto autoritario, assorbente, distruttivo, che è un po’, se posso dirla sinteticamente, una clamorosa forzatura, magari elegante e ideologicamente efficace, del pensiero spinoziano.
Faccio ora questa precisazione perché, nella sua più complessa elaborazione moderna, che è quella di Hegel, la sovranità è per eccellenza mediazione, è il luogo stesso della mediazione, tutt’altro che “assoluta”, ed è tutta avvolta in quel problematico rapporto intitolato al nesso critico fra potere e libertà: basti pensare a come essa torni nella elaborazione del diritto pubblico tedesco di fine Ottocento, da Jellinek in poi, come potenza capace di autolimitarsi. Si deve essere, credo, consapevoli del fatto – a cui rivolgerei massima attenzione – che in quella parola” mediazione”, come nell’altra “sovranità”, sia pure con differente ampiezza di confini, si nascondono patrimoni di idee, di elaborazioni, di culture politiche e costituzionali, di percorsi istituzionali, né mere conciliazioni né meri atti d’eccezione. Quanta “riduzione” ha offerto alla discussione il famoso e geniale “incipit” schmittiano: sovrano è chi decide nello stato d’eccezione! Ora, il tentativo è di far sparire questo mondo – o sbaglio? – sotto i colpi critici del pensiero biopolitico, non per caso carico di diffidenza antihegeliana, di un Hegel aggirato piuttosto che affrontato: eppure, senza fare i conti fino in fondo con lui, con la politicità della sua metafisica, potrà mai la biopolitica dichiarare vittoria? I conti con Hegel sono, infine, i conti con lo Stato moderno e con tutto il grandioso patrimonio di idee che vi gira intorno, e credo che quei “conti” non siano ancora esauriti, anche se colpi duri sono stati inferti alla sua fisionomia, e c’è in corso uno scontro complesso dall’esito incerto e che non può esser compreso da nessun eccesso di semplificazione. Insomma il “gelido mostro” di nietschiana memoria sembra che abbia ancora da dire la sua. Penso soprattutto allo Stato come ordinamento etico-giuridico della vita comune e contenitore problematico della democrazia moderna, che non si lascia esaurire nello schema dell’eccezione, secondo una lettura che ha in Giorgio Agamben, altro protagonista del pensiero biopolitico, un analista di grande eleganza, ma tutt’altro che convincente nelle conclusioni. Oggi lo Stato si misura con una autolimitazione della sovranità in vista di un mondo più grande. Ma il tema ci porterebbe lontano.
Qui, forse, si può disegnare una conclusione provvisoria su questo punto della discussione, prima di affrontarne un altro non meno centrale. Se togli la sovranità dal campo, se sgombri la scena da quel peso “oppressivo” invece di provare a sondarne la complessità; se elimini il tessuto della mediazione, che ha di certo una estensione logica più ampia della medesima sovranità pur appartenendo allo stesso tessuto, rischia di scomparire il mondo com’è, rimangono di esso solo principii immediati e disordinati, tracce slogate e irriconoscibili macerie, sulle quali non sarà facile costruire un mondo reale. La ragione ha una sua semplice motivazione, e sta nel fatto che il mondo formato che ci sta intorno, il problematico intreccio di vita e di forme che lo connota, è proprio il mondo che la rigettata mediazione ha formato, e questo non significa affatto che non sia un mondo carico di contrasti, dove la sporgenza della vita rimette continuamente in discussione le “letture”che sono state fornite di esso, e la stessa organizzazione del comando politico. Dove si intrecciano e si contrastano vedute anche opposte, consegnate a opposte filosofie e vedute; un mondo in cui le due visioni del moderno da cui siamo mossi seguendo il ritmo del volume di Esposito si confrontano, moltiplicando la complessità dei tempi storici che da essi sono occupati. Insomma, per dirla in breve, la mediazione moderna altro non è che l’intreccio di tempi storici diversi: dei differenti ritmi e cadenze intorno alle quali si è costituita l’età nuova, tempi storici nei quali l’equilibrio e lo squilibrio tra vita e forme è presente in vesti diverse, e quindi la mediazione è esposta a tensioni anche catastrofiche. La ragione è che “l’originario” della vita continuamente riemerge, non come un modello alternativo, ma come segno della permanente dialettica tra vita e storia che fa l’instabilità della stessa mediazione e delle forme storiche del comando politico, ma non pretende abolirle in una contrapposizione immediata, portatrice, alla fine, di una scissione senza speranza. Il rischio che si annida in questa critica, me ne rendo conto, sta nella sua possibile lettura come “laudatio temporis acti”, timore per la critica radicale. Il rischio c’è, lo so. E qui non posso far altro che dichiarmene consapevole, immaginandolo però legato al punto di vista critico verso una decostruzione che riduce il mondo vecchio in frammenti slogati.
Ma il libro di Esposito va misurato, più dall’interno, con la prospettiva di storia del pensiero che egli ha scelto. Dicevo all’inizio che le pagine dedicate ai singoli autori sono nel loro insieme di qualità notevole. Alcune, in particolare, singolarmente eleganti, con tagli che fanno apparire gli autori sotto nuove luci, come quelle dedicate a Machiavelli Leonardo Bruno Vico, a un inconsueto Cuoco “en philosophe”, a Pasolini, altre forse meno convincenti (e magari meno convinte) come quelle sulla filosofia di Gentile che avrebbero potuto valorizzare quella “Filosofia dell’arte” dove in modo imprevisto compare la sporgenza vital-naturale in altre opere assai meno appariscente. Gramsci è colto come un apice del pensiero novecentesco e “Americanismo e fordismo” come una gemma che distanzia Gramsci da tutta la storia del marxismo contemporaneo: il che colpisce positivamente, stante l’antigramscismo di autori verso i quali Esposito si mostra particolarmente simpatetico.
Verrebbe voglia di mettere in fila anche altri autori, non per banale obbiezione di incompletezza, ma anzi proprio per arricchire ancora il prospetto storico scelto da Esposito: Tomaso Campanella vi starebbe a pieno titolo; un capitolo sul “vitalismo” napoletano lungo il XVII secolo sarebbe pieno di sorprese; il Paolo Sarpi dei frammenti sulla religione, e non solo, ugualmente; il “Triregno” di Pietro Giannone si potrebbe considerare un testo chiave, ed è forse quello di cui veramente si avverte l’assenza; l’hegeliano Bertrando Spaventa (e sarebbe pescare nel campo di Agramante) un “idealista” inquieto e aperto alle sporgenze vitali dell’Essere; nel Novecento, Enzo Paci e perfino Eugenio Garin, sorprendentemente sensibile, da buon attualista critico, al non-storico della vita proprio nella sua lettura dell’umanesimo. Ma il punto non è qui, e piuttosto il mio dubbio stringente nasce altrove: non contesto il fatto che la griglia interpretativa sia sufficientemente larga per consentire la coesistenza sotto lo stesso cielo di Benedetto Croce e Antonio Negri. Quello di Esposito è un testo di cui voglio sottolineare il coraggio nel legare insieme filosofi, letterati, poeti, linguaggi differenti, con lontananze e reciproche estraneità che però talvolta si risentono e pongono interrogativi.
Quali? Anche qui tutto tende a esaurirsi e restringersi nello scomodo erede biopolitico. Tutto è calato in quel “vicolo stretto”. Come se in ciascuno degli autori esaminati, ora con più ora con meno ragione, si volesse isolare, autonomizzare quella valorizzazione dell’“origine”, del vitale, rivendicata come il vero punto che unifica tutto, e le si finisse con l’attribuire una sorta di autonomo peso specifico, quasi assorbente rispetto al contesto in cui è pensata e alle determinazioni radicalmente opposte in cui è avvolta. Come se il richiamo a quell’“origine” potesse diventare un richiamo talmente generale, per comprendere tutto, da significare meno di quanto l’autore immagina, se egli ha inteso costruire una sorta di Pantheon della biopolitica, sia pure a maglie assai larghe e internamente contrastate. Insomma, l’eccessiva ampiezza del criterio adottato, da un lato permette di far ritrovare tanti sotto lo stesso cielo (e qualcuno certamente ne sarebbe sorpreso), dall’altro riduce il significato di una linea di tendenza che tende però a restringersi nello scomodo erede cui più volte mi sono riferito, e sembra che essenzialmente da questo voglia prender valore. Ma il punto è che siccome quella riflessione sull’“origine” e la sua permanenza si cala poi nelle più differenti e antitetiche determinazioni, sempre correttamente rilevate da Esposito che fa storia del pensiero sul serio, resta la domanda “filosofica “se stiamo parlando di una linea di tendenza che ha un senso unificare in quanto condizione lata di uno sbocco, o se non dobbiamo ridurne il possibile significato al rilevamento di linee differenti e incastonate in differenti contesti teoricopratici che non possono come tali rafforzare gli esiti biopolitici infine descritti come vincenti, né esserne considerati come padri putativi, ma ne sono del tutto autonomi, ed anzi spesso sono in controtendenza rispetto a esso, come si potrebbe mostrare a voler andare a fondo della cosa.
Qualche esempio soltanto. In Machiavelli, la tensione verso una origine carica di energia vitale, che è anche fonte della permanente grammatica del conflitto, può esser vista come avente una sua linea di svolgimento verso forme istituzionali, dentro le quali, anticipandosi la forma moderna della statualità, il repubblicanesimo moderno prende una delle sue prime fisionomie. Insomma, quella stessa dimensione vitale, umano-animale, può esser guardata entro la problematica della costruzione dello Stato moderno, come Gramsci, ad esempio, provò a fare, non per ammorbidirne la drammaticità, ma per segnarne un tragitto che non individui un semplice punto di resistenza irrisolto e irrisolvibile, restato lì quasi in attesa di chi ne cogliesse la drammatica autonomia e separatezza. Se si va in questa direzione, cambia o no qualcosa nella genealogia del mondo contemporaneo? Non si rìesce così a collocare l’autore indagato più dentro il suo svolgimento, nel quale egli ha portato un lato immanente alla dimensione istituzionale della politica? E questo non porta a guardare con più comprensione proprio verso quella “mediazione” senza la quale il mondo moderno della politica mai sarebbe nato? Vico, se non scioglie “l’origine” nella storia, anche se la storia che corre in tempo ne è continuamente affetta, tuttavia scopre tutta la potenza ordinamentale di quest’ultima, sempre sull’orlo di rovesciarsi e sempre obbligata a riscoprire la propria mente comune, che è la storia comune delle nazioni, di quella Europa in cui crisi e istituzioni, plebi, sovranità, equità diventano i soggetti della sua umanizzazione. L’origine vitale, in questo senso, compare piuttosto come permanente condizione di una mediazione necessaria che come spettro di una catastrofe annunciata. Sono vie che riguardano in modo cogente la costruzione dello Stato moderno, nelle quali lo sforzo di unificare prevale sullo spettro della radicale scissione. “Americanismo e fordismo” di Gramsci è sguardo premonitore sulla nascita della biopolitica e non piuttosto una apertura geniale su tutto il tema della democrazia del “consumo”? Che cosa voglio indicare con questi esempi? Che mettere une relazione più stretta e problematica fra origine e storia pone in discussione l’intenzione radicalmente decostruttiva delle categorie della moderna filosofia politica, che è nelle indicazioni più consistenti dell’impostazione biopolitica e spinge a guardarne i concetti fondanti con una attenzione critica attenta alla loro complessità. Insomma, si tratta di vedere dove ci si ferma, dove si mette la targa del traguardo. E molto dipende da questo.
Ma l’intenzionalità teoretica di Esposito è troppo evidente per poter derubricare la sua ricostruzione a rilevamento quasi statistico di spezzoni di tesi e di ispirazioni comuni: il fatto che tutto si cali nell’erede biopolitico sembra il suo vero segno distintivo. Come vero segno distintivo, l’ho avvertito prima, è l’idea che tutta questa linea di tendenza infine contribuisce a mettere in mora il mondo della mediazione. Proprio per questa ragione so bene che i rilievi svolti non intaccano il senso dell’operazione compiuta dall’autore, che si trova dentro un punto di vista speculativo che ha per obiettivo di scardinare le categorie intorno alle quali quel mondo ha pensato e organizzato se stesso, squadernando le ragioni di una crisi che c’è, e spingendo sui pedali perché essa giunga tutta a luce. A Esposito forse non interessa che l’erede sia spurio rispetto ai suoi avi, quanto piuttosto che questi “avi” possano essere utilizzati come sintomo della relativa fragilità e problematicità di un mondo di cui la biopolitica contemporanea pretende di sancire la fine, anche se il mondo che viene delineato appare ancora più nella sua dimensione decostruttiva che in quella avente per sé l’avvenire. Proprio perché prendo molto suo serio questa prospettiva, penso che chi la vede criticamente debba rendere sempre più esplicita la possibilità di un altro “punto di vista”, della costruzione di un altro luogo critico dal quale guardare il mondo, in cui anche le linee ricostruttive proposte in questo libro prendano un’altra direzione, siano accolte all’interno di un’altra narrazione. La risposta biopolitica mi appare come un elemento acuto della crisi, non come una risposta convincente alla sua soluzione. Ma qui si aprirebbe un discorso troppo diverso e devo quindi interrromperlo, avendo, spero, offerto una informazione e qualche ragione di riflessione su un bel libro, destinato a restare nella letteratura filosofica italiana.
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