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«In incerto stat»: Italia, metà autunno 2010
di G. G.
Sembrava ormai chiaro che la pace stipulata tra Berlusconi e Fini non potesse e non dovesse concretarsi in altro che in una guerra non guerreggiata, ma virulenta. Che comportasse una sospensione delle ostilità o una rinuncia ad esse era del tutto esclusa. Chi ne avesse avuto qualche minimo dubbio avrebbe avuto modo di ampiamente ricredersi già solo nella settimana iniziata l’11 ottobre. In questa settimana Fini ha infatti preso tre posizioni, tutte in diretto conflitto con la pace che si suppone intervenuta fra lui e il fronte berlusconiano. In primo luogo, ha dichiarato che lo “scudo Alfano” va bene, ma che le protezioni così assicurate non possono avere valore retroattivo. Considerato che Berlusconi ha in corso, fra gli altri, il processo Mills, questa riserva sulla retroattività del provvedimento consentito in generale ne annulla il valore proprio per il processo certamente più insidioso di tutti a cui Berlusconi è esposto. In secondo luogo, ha dichiarato che nella prossima tornata di elezioni amministrative, Futuro e Libertà valuterà le sue scelte caso per caso, anche, se si è capito bene, in relazione alla possibilità che le sue candidature abbiano particolari riconoscimenti. La forma di questa dichiarazione è stata, invero, un po’ più sfumata, ma la sostanza è quella che si è detta. In terzo luogo – ed è stata questa la mossa più significativa – ha scritto al presidente del Senato, Schifani, invitandolo a trasferire alla Camera dei Deputati la discussione sulla riforma della legge elettorale, già in corso presso lo stesso Senato dinanzi alle competenti Commissioni senatoriali. Come era facile prevedere, Schifani ha risposto che la proposta era inaccettabile, proprio e anche perché l’argomento è già in discussione presso il Senato. Fini ha dovuto riconoscere che la risposta di Schifani è ineccepibile sul piano costituzionale. Ha aggiunto, però, che così si apriva un problema politico. Tradotto in volgare, ciò significa che la riforma della legge elettorale è materia politicamente irrinunciabile per Fini e che, non essendovi una rinuncia del Senato alle sue prerogative procedurali, bisognerà di quel problema fare l’oggetto di una contestazione politica, che non può essere Editoriale concepita altrimenti che all’interno della maggioranza, avversa, come si sa, per parte dei berlusconiani e della Lega, a ogni concessione in materia.
Questo punto merita qualche approfondimento. Perché Fini ha scritto a Schifani una lettera, alla quale sapeva certissimamente in anticipo quale sarebbe stata la risposta e come questa risposta sarebbe stata, come poi da lui stesso dichiarato, ineccepibile sul piano procedurale costituzionale? La risposta può essere una sola: per farsi rispondere come egli sapeva che Schifani avrebbe risposto. In altri, e meno labirintici, termini, per aprire e dichiarare un nuovo e più aspro fronte di guerra con la maggioranza. E perché più aspro è altrettanto chiaro. Con l’attuale legge elettorale il partito ora fondato da Fini avrebbe scarse possibilità di farsi molto valere, perché il conseguimento del premio di maggioranza, molto probabile, nonostante tutto, da parte dell’attuale schieramento Berlusconi-Lega, annullerebbe in gran parte anche i beneficii eventualmente derivanti da un successo delle liste di Fini: figuriamoci, poi, nel caso che un tale successo non vi fosse. Nello stesso tempo si sa bene che la fortissima ritrosia dello schieramento Berlusconi-Lega non è rivolta soltanto a ridimensionare o annullare il risultato elettorale di Fini, bensì a tenere per quanto possibile fuori del Parlamento sia quanto più si può della sinistra, sia tutte le formazioni o raggruppamenti politici, anche di destra, non allineati o allineabili con Berlusconi. Perciò, sollevare il problema elettorale è uno dei più gravi atti di ostilità nei confronti del resto dell’attuale maggioranza a cui Fini potesse procedere. E ciò, per di più, senza contare l’importanza che per Berlusconi riveste la possibilità, che l’attuale legge elettorale gli consente, di decidere in esclusiva i candidati delle sue liste, e con ciò stesso, di procurarne l’elezione, mantenendo così un controllo strettissimo del suo partito e dei suoi gruppi parlamentari (al contrario, detto per inciso, una modificazione delle legge elettorale che reintroducesse, oltre un più o meno rigido criterio proporzionale, le preferenze, anziché proporre liste bloccate, per decidere della elezione dei candidati faciliterebbe di molto il rapporto di Fini con la maggior parte di coloro che lo seguono o lo potrebbero seguire).
Anche nella prima effettiva uscita pubblica di Fini come leader politico autonomo di un proprio gruppo, quella cioè di Napoli il 15 ottobre (che non ha, sia detto per inciso, riscosso una grande eco nei media), ben poco egli ha aggiunto di notevole a quanto già aveva detto, e che abbiamo cercato qui di riassumere, in precedenza. Da notare solo la premura di Fini nel precisare che Futuro e Libertà non intende essere soltanto un’antiLega, e, quindi, più o meno, un movimento o partito del Sud, bensì di ambire a essere un fatto politico nazionale. La precisazione è importante, perché sembra escludere una pregiudiziale contrapposizione alla Lega non solo in quanto costante e determinante alleata di Berlusconi, bensì anche, e forse più, di per se stessa, come raggruppamento politico che sostiene le sue ben note tesi in materia di federalismo e temi connessi, e in quanto espressione politica di interessi e di realtà ormai molto radicatisi in gran parte del Nord del paese. Il che, se la destra italiana lasciasse la guida di Berlusconi e si riarticolasse in nuovi equilibri al suo interno, potrebbe non impedire che tra Fini e Bossi si aprissero nuovi discorsi. Fino a quando, però, un tale sviluppo non emergesse, sarebbe difficile pensare a una molto pacifica convivenza tra Bossi e Fini nella stessa maggioranza, se Fini continuasse a farne parte. L’accenno di Napoli, dunque, conferma che la guerra di Fini, oltre i temi relativi ai contenuti dell’azione di governo della maggioranza che abbiamo richiamato di sopra, comporta anche una dimensione di schieramento, che rende questa guerra più aspra e più radicale.
In effetti, non per caso questo punto dello schieramento è stato ed è quello che nell’opinione nazionale e nei commenti giornalistici e politici ha suscitato e suscita il maggiore interesse. Che farà Fini? La voce più accreditata parla di grandi manovre già in corso per formare – tra lui, Casini, Rutelli e non si sa chi altri – il “grande Centro” da tempo vagheggiato come via regia, oltre che in vista di altri obiettivi, per sbloccare l’attuale stallo della situazione politica italiana, semianchilosata per i contrasti interni della maggioranza e per il persistente galleggiare della sinistra intorno a se stessa, senza la compattezza che a parole ne viene proclamata, e senza altre idee di programma e di contenuti per il governo di un paese nell’attuale condizione dell’Italia che non siano quelle dell’eliminazione politica di Berlusconi (e si sarà notato che da alcuni anni la sinistra parla molto di più dell’odiato Berlusconi che di se stessa, delle sue idee e dei suoi propositi e programmi). Per noi è, inoltre, intervenuto, sempre nella settimana di ottobre di cui parliamo, un altro elemento di cui tener conto, e cioè l’appello della Conferenza Episcopale Italiana a una nuova militanza dei cattolici come tali nella vita politica e alla necessità che maturi una nuova generazione di politici cattolici che la realizzi. Appello che è stato poi reso più che autorevole dall’intervento dello stesso pontefice Benedetto XVI nello stesso senso. È possibile che si realizzi un grande Centro senza un qualche riscontro a un tale impegnativo discorso, e senza che esso abbia una qualche non trascurabile eco nei cattolici che oggi militano sparsi fra Casini, il PD e altre bandiere o bandierine?
Noi non sappiamo quale siano per essere in queste materie l’intento e il pensiero di Fini. Se dovessimo azzardare un’ipotesi, riterremmo che sia molto più probabile un suo orientamento a costituire una nuova, grande destra sotto il suo diretto, anche se, magari, non esclusivo, controllo che non un Centro problematicamente molteplice, e in cui sarebbe molto difficile, ad esempio, per un Casini, fuggito dalla cappa berlusconiana, accettarne un’altra indubbiamente di minore forza e prestigio. Si parla anche di una nuova maggioranza, possibile non solo ai fini di una riforma della legge elettorale, ma come non estemporaneo e fuggevole schema di governo del paese, che vedesse associato a Casini, Rutelli e Fini anche il Partito Democratico (e si sarà notata, crediamo, l’estrema sobrietà sostanziale, per non dire altro, di Casini nei commenti all’iniziativa di Fini, pur sotto una veste formale che potrebbe apparire diversa). Certo, la sinistra italiana ci ha fatto e ci fa vedere di tutto e di più, ma dubitiamo che una maggioranza non di occasione con Fini sarebbe facilmente praticabile. Per un esempio, Fini, tra le varie munizioni di guerra che ha utilizzato per imporre la sua presenza in rinnovata veste nell’agone politico nazionale, ha lanciato anche quella di una privatizzazione della RAI. Se l’avesse detto Berlusconi, si sarebbero aperte le cataratte del diluvio universale. La reazione della sinistra è stata soft: Bersani ha definito la proposta interessante, pur ribadendo che il PD è per il mantenimento del carattere pubblico della RAI. E, infatti, è mai credibile che, per amore di Fini, la sinistra rinunci a un suo cavallo di battaglia, in particolare nella lotta a Berlusconi?
È solo un esempio delle difficoltà programmatiche di un reale incontro Fini-PD. Oggi, comunque, non sono più i tempi della “solidarietà nazionale” o del “compromesso storico”; e il peso della sinistra non-PD è ora più forte, pare, di due anni fa, mentre l’opinione di destra appare attualmente piuttosto frammentata, ma non davvero indebolita. Meglio, insomma, aspettare per capirci qualcosa non tanto di più quanto di più attendibile.
A Fini si attribuisce pure il disegno di portare a capo del governo Montezemolo, che sarebbe gradito anche, si dice, alla sinistra. Non discutiamo, ovviamente, la persona, ma anche questo eventuale progetto ci sembra piuttosto aereo. Ci sembra, a essere molto franchi, che Montezemolo sia ancora, nel gioco politico italiano, una moneta di conto più che una moneta effettiva e realmente circolante. Nessuno, inoltre, vuole giocare per il re di Prussia, e certamente sono in molti, nell’arco delle forze che dovrebbero sostenere Montezemolo, a pensarla così. Naturalmente, se poi l’idea di un Montezemolo premier dovesse prendere consistenza, e se ciò dovesse accadere per una spinta decisiva di Fini, saremmo di fronte a una di quelle novità che di solito abbondano più nelle parole che nei fatti, e se ne dovrebbe prendere atto. Ma, anche qui, è meglio aspettare.
È meglio aspettare anche perché in seno alla destra la partita tra Berlusconi e Fini non sembra ancora del tutto chiusa a una qualche forma di compromesso esistenziale, anche se non del tutto conciliativo. Lo stesso Fini ha veramente bruciato i vascelli per un ritorno a una nuova edizione della maggioranza di cui ha fatto finora parte, e della quale continua, sebbene con qualche intermittenza, a dichiararsi partecipe? L’apparenza è questa, ma si ricorderà che lo stesso Fini qualche anno fa diceva di Berlusconi: «siamo alle comiche finali», e che questo preluse solo alla fondazione del Popolo delle Libertà. E il dubbio è rafforzato dagli accenni di autorevoli esponenti leghisti a loro mediazioni tra Fini e Berlusconi; ed è forse con questo che la premura di Fini a Napoli di non proporsi come leader di una formazione politica identificata solo dalla contrapposizione alla Lega ha una qualche relazione.
In conclusione, la mossa secessionistica di Fini rispetto a Berlusconi non lascia intravvedere una gamma completamente soddisfacente di significati. L’accoglienza riservatagli dalla sinistra e da gran parte della stampa non di sinistra può essere significativa di una capacità di eco certamente da non sottovalutare, ma non è risolutiva ai fini di una valutazione della capacità di impatto politico-elettorale della nuova formazione politica. Anche le stime delle società di sondaggi variano molto. D’altra parte, avviare una nuova entità politica e organizzarla su tutto il territorio è un’impresa notoriamente costosa, e non poco. È presumibile che ci si avvalga per questo dell’appoggio concreto e largo di settori economici più o meno importanti. Il che potrebbe essere confermato dall’interesse che l’iniziativa di Fini sembra aver riscosso in varii ambienti di quei settori, e può forse contribuire a spiegare l’intenzione, attribuita, come si è detto, a Fini, di designare come una carta principale del suo gioco una personalità importante del mondo imprenditoriale come Montezemolo (e a Napoli Fini è sembrato corteggiare, stando alle cronache giornalistiche, il presidente degli industriali napoletani, Gianni Lettieri, già designato da Berlusconi alla candidatura a sindaco di Napoli). Cose che richiamano altri momenti e aspetti dell’interessamento degli ambienti economici nella vita politica italiana degli ultimi venti o venticinque anni.
Non sarebbe, però, neppure soddisfacente fermarsi qui. A Napoli Fini ha detto che forse la sua secessione si doveva operare anche prima di quando è avvenuta e che probabilmente si era stati in ciò troppo prudenti. È, ci pare, la conferma diretta di una intenzione di Fini a lungo nutrita e meditata. Da quando? La domanda non è solo di curiosità. Dall’indomani delle elezioni del 2008? Da prima? In ogni caso, fatta tutta la possibile tara delle ambizioni personali e del gioco individuale ed egocentrico di Fini, le sue mosse dovrebbero essere state la risultante di una valutazione dello stadio al quale si trovava o si trova la potenza politica di Berlusconi. Al momento delle elezioni del 2008 questo stadio appariva particolarmente consistente e robusto. La grande vittoria dello schieramento di destra sembrava aver aperto una fase duratura della leadership berlusconiana sia all’interno del Popolo delle Libertà, di cui Fini faceva ancora parte integrante, sia nell’apparato di governo. Di qui due possibili ipotesi. O prima del 2008 Fini aveva avuto l’impressione di un declino di Berlusconi, e si preparava fin da allora a distinguersi da lui, anche per non essere coinvolto in quel declino (e a ciò farebbe pensare la genesi e l’avvio preso già allora dall’attività di Fare Futuro, la fondazione di supporto della sua azione politica, che Fini mise su per mantenere il controllo dell’eredità, anche patrimoniale, della disciolta Alleanza Nazionale); oppure è stata proprio la vittoria del 2008 a sollevare in Fini l’idea che era quello il momento di fare qualcosa, prima, cioè, che la leadership di Berlusconi diventasse assolutamente incontrastabile e precludesse ogni prospettiva per l’avvenire.
Sia come sia, il problema è, per l’appunto, quello del declino di Berlusconi. Nel mondo politico italiano l’idea prevalente è che quel declino sia già cominciato e che possa diventare più rapido di quanto si pensi. La stessa idea circola molto anche sui giornali cosiddetti di opinione o di informazione. Corrisponde anche alle idee circolanti nel paese reale? A stare a molti sondaggi, Berlusconi manterrebbe ancora un discreto margine di vantaggio nel suo appeal politico ed elettorale. Ma qui il problema non è quantitativo. È qualitativo. Quali prospettive di sviluppo politico e generale offre oggi al paese un prosieguo della permanenza di Berlusconi nel ruolo che occupa da tanti anni? E quali prospettive offre, dallo stesso punto di vista, l’opposizione a lui?
Lo stato attuale del paese non soddisfa la maggior parte degli italiani: su questo non pare che vi sia possibilità di dubbio. Un po’ (un po’ molto) dipende certamente dalla crisi globale che ha investito l’economia mondiale negli ultimi anni. Abbiamo, però, già avuto modo in altra occasione di far presente che la crisi era cominciata per l’Italia prima di quella mondiale e si era tradotta in numerose manifestazioni di declino o di grande difficoltà per molte delle attività italiane più caratterizzanti e, come suole dirsi, strategiche per la posizione italiana nel mondo contemporaneo. Abbiamo, anzi, espresso pure l’opinione che, se l’Italia sembra aver subito meglio di altri paesi l’impatto della sopravvenuta crisi mondiale, è stato proprio perché quella globale ha trovato un’Italia già in condizioni critiche, che si trovava, quindi, ad aver già pagato alcuni, non esigui costi della recessione globale. Ma, proprio perché anteriore, la crisi italiana era ancor più preoccupante nel suo cumularsi con quella mondiale. E i responsabili della cosa pubblica come hanno fronteggiato una serie così negativa di circostanze?
Sarebbe più che ingenuo starsi alle valutazioni delle opposte parti, ciascuna delle quali considera, come di rito, rovinosa per il paese l’azione di ieri e di oggi della parte avversa, alla quale imputa di aver disfatto il buono che era stato fatto prima. Noi vorremmo solo ricordare che nei sedici anni dal 1994 a oggi destra e sinistra sono state al governo per un tempo quasi pari, onde la responsabilità delle condizioni attuali del paese va equamente ripartita fra i due contendenti; e vorremmo anche aggiungere che a nessuna delle due parti può essere disconosciuto il rispettivo contributo positivo che, tenuto conto delle circostanze, hanno dato o cercato di dare in positivo per i problemi del paese. Ma può mai un tale giudizio imparziale chiudere la questione politica posta dalle condizioni dell’Italia, oggi ancor più difficili di ieri, nonostante segni indubbi di ripresa?
Non può essere così. E non lo può essere anche per il ruolo di Berlusconi quale oggi si prospetta nella realtà nazionale. L’idea che, tolto di mezzo lui, i problemi italiani volgerebbero al meglio e che i suoi successori non si troverebbero più nelle difficoltà che a lui si imputano è un’idea che si commenta da sé. Ma che Berlusconi sia diventato in tutti questi anni un problema sempre più evidente della politica italiana neppure può essere molto discusso. Lo è diventato per la sua situazione giudiziaria, via via più interferente addirittura con l’attività legislativa (e questo dato non cambierebbe anche se fosse vero in tutto o in parte che quella situazione si è progressivamente appesantita per una vera e propria persecuzione nei suoi confronti da parte di una fazione politicizzata della magistratura, come egli sostiene). Lo è diventato anche perché nel giro di alcuni anni le maggioranze coagulatesi intorno a lui hanno perduto pezzi di rilievo, come, in particolare, Casini ieri e Fini, sembra, oggi. Lo è diventato, però, ancor più perché dei suoi programmi elettorali, quello del 2001 e quello del 2008, non si è vista e non si vede da parte sua una decisa azione di sufficientemente ampia realizzazione, anche quando, come accade con il presente governo, nessuno può disconoscere i punti all’attivo di tale azione. Lo è diventato, infine, perché si è avuta e si ha l’impressione crescente che nella sua azione la ricerca di costituire e mantenere la maggioranza, in qualsiasi modo e con qualsiasi “pezzo” suscettibile di essere aggregato, ha preso nettamente il di sopra rispetto all’impegno programmatico e progettuale, che fa l’essenza e il merito delle grandi azioni politiche, e che nelle grandi aperture liberistiche e liberali di Berlusconi nel suo ingresso nella politica italiana sembrava dover ricevere sviluppi realmente rinnovatori della realtà italiana.
Non vogliamo dire che Berlusconi abbia sicuramente concluso la sua carriera politica. Nessuno può dirlo. Il problema, tuttavia, c’è, e pesa come il condizionamento più grave della vita politica italiana di questi e dei prossimi anni, al punto che, per quanto, come abbiamo detto, Berlusconi e la sinistra abbiano governato dal 1994 in poi per un tempo quasi pari, tuttavia è da Berlusconi che, non a torto, viene designato il sedicennio intercorso da quella data. La parte di Fini oggi si spiega, come abbiamo già detto, anche con la percezione del montare di questo problema.
Che se poi si volesse precisare in che cosa essenzialmente il problema consista, non si può fare a meno di riferirsi a quell’aspetto giudiziario che, come tutti sanno, ha avuto così gran parte nella posizione politica di Berlusconi fin dall’inizio. Non sono gli eccessi di vario genere a lui imputati, né la sua scelta frequente, intorno a lui, di persone che appaiono sgradevoli o discutibili, a determinare la vera negatività della sua posizione. È qualche altra cosa, di cui egli, forse oltre quanto gli riesce o gli riuscirà mai di capire, è diventato un simbolo generalmente riconosciuto. È il tasso di giuridicità che è stato colpito nell’ordinamento; il tasso di eticità delle norme che si abbassa sotto il minimo tollerabile quando un governo e una maggioranza le propongono non esclusivamente in risposta a interessi generali, bensì a considerazioni e spinte particolaristiche o addirittura di singole persone; è l’incredibilità alla quale ciò spinge anche quando si sostengono tesi non banali, come quelle della durata dei processi e delle garanzie della privacy dei cittadini; è l’impulso a un deterioramento generale del sistema che ne consegue, e che non sempre e non tutto è poi controllabile o limitabile quando lo si è avviato e spinto oltre un certo limite.
Sono cose gravissime dalle quali Berlusconi è andato rischiando sempre più che venga anche storicamente definito il suo sedicennio. Resta da chiedersi che cosa accadrebbe se egli cadesse a un tratto e la vita politica italiana perdesse il punto di riferimento che egli, bene o male, ha segnato e segna. Si avrebbe, con tutta probabilità, un processo di frammentazione delle forze del centro-destra, che, tanto più in presenza di un’assai scarsa capacità aggregante della sinistra, introdurrebbe nuovi e gravi problemi di equilibrio politico e di governabilità in un paese che di problemi ne ha già veramente molti. Avremmo, cioè, una situazione paradossale per cui la disgregazione sarebbe il rischio che la destra dovrebbe evitare e l’aggregazione sarebbe il problema che dovrebbe risolvere la sinistra.
Fase necessaria di trapasso a una nuova fisionomia e composizione della struttura politica italiana? Può darsi. Intanto, però, l’avvio a un funzionale bipolarismo che è stato tra i pochi frutti sicuramente positivi dell’ultimo quindicennio rischierebbe di venir meno, certo non compensato da un pluralismo senza punti e centri di riferimento. Ed esito uguale avrebbe anche un ristabilimento del sistema elettorale in senso proporzionale, della cui opportunità pare che oggi siano in tanti a essere convinti. Di sicuro vi è solo che nella legge elettorale attuale ciò che davvero non va è il punto delle liste bloccate, senza possibilità di scelta da parte dell’elettore tra i nominativi della lista, per cui i candidati sono eletti in blocco, nel numero dovuto, unicamente in base al fatto che occupano le prime posizioni della lista di cui fanno parte. Grande strumento di potere per chi ha in mano i partiti e le loro decisioni, ma mortificazione sicura della libertà di scelta dei cittadini per il loro fondamentale diritto di esercizio della sovranità popolare (e, inoltre, pensiamo, prassi al limite della costituzionalità, se non proprio incostituzionale).
C’è, dunque, indubbiamente, il problema Berlusconi, e ce ne sono molti altri nell’Italia di oggi. Per alcuni sviluppi è meglio aspettare, come si è detto, prima di dire qualcosa. Ma, in generale, occorrerebbe qualche colpo d’ala da parte di almeno alcuni dei protagonisti dell’attuale vita politica italiana o da parte di qualche nuovo leader. Dopo tutto, è sempre e solo così che si esce da situazioni come quella italiana di oggi. Con l’augurio, ovviamente, che il colpo d’ala sia dato nella buona e giusta direzione.

* * *

Le cose sembravano essere a questo punto, quando il 7 novembre si è avuto il discorso di Fini alla prima assemblea del suo nuovo partito a Bastia Umbra. Le previsioni della vigilia erano nel senso che egli avrebbe pronunciato un «discorso forte» non solo per caratterizzare energicamente la linea di Futuro e Libertà, bensì anche per precisare il suo reale orientamento nei riguardi di Berlusconi e della maggioranza parlamentare fondata sull’asse Berlusconi-Bossi, e, quindi, anche sul governo Berlusconi. In realtà il discorso di Bastia Umbra è andato oltre le previsioni, poiché in esso Fini ha chiesto esplicitamente le dimissioni di Berlusconi e la formazione di un nuovo governo, fondato su una maggioranza allargata al partito di Casini.
Non si è, peraltro, capito se di tale nuovo governo Fini vedesse o non vedesse ancora a capo lo stesso Berlusconi. Per quanto lo riguarda personalmente, sembra che si debba stare alla sua dichiarazione a un giornale tedesco, secondo la quale egli mira a diventare presidente del Consiglio dei Ministri nel 2013. Inoltre, si è rimasti nel dubbio sul senso dell’appello a Casini, che finora aveva rifiutato i ripetuti inviti di Berlusconi a entrare nella maggioranza ancora formalmente integra, nonostante l’avvio della secessione di Fini. È vero, tuttavia, che quest’ultimo ha chiesto, come si è detto, le dimissioni di Berlusconi per la formazione di un nuovo governo e quindi, di un nuova maggioranza; ed è presumibile che, con tale procedura, l’atteggiamento di Casini possa radicalmente cambiare. In tal caso, della secessione di Fini si avrebbe la conseguenza, senz’altro un po’ paradossale, della ricostituzione della più ampia maggioranza che sosteneva Berlusconi prima che se ne allontanassero Casini e Fini.
Tutto sarà ancora da vedere. Le ambizioni di Fini sono state da lui stesso definite molto alte. Non sappiamo, però, quale eco reale le sue ultime decisioni e i suoi ultimi comportamenti possano avere in quello che è – anche se sono in molti a dimenticarlo – il vero arbitro delle partite politiche, ossia l’elettorato, e non tanto nei sondaggi quanto, inappellabilmente, il giorno delle elezioni, col verdetto delle urne. Se si guardasse solo ai commenti e alla stampa dell’attuale opposizione, quella che Fini ha aperto davanti a sé è un’ampia strada, a scorrimento veloce, di protagonismo politico. Già abbiamo avuto, però, in passato casi numerosi che hanno dimostrato abbondantemente l’assai scarso fondamento di cui queste previsioni sono suscettibili. Non è, tuttavia, questo il problema che può e deve davvero preoccupare nelle circostanze che si sono così determinate, bensì l’avvio che le cose prenderanno, una volta liquidato Berlusconi, il cui astro politico sono in molti, oggi più che mai, a proclamare definitivamente condannato a un’eclisse totale e finale.
Abbiamo già sopra indicato quel poco che, allo stato delle cose ai primi di novembre del 2010, si può ipotizzare sul futuro di una destra senza Berlusconi, o con un Berlusconi ridotto al lumicino. L’8 novembre, all’indomani del discorso di Fini a Bastia Umbra, un editoriale di Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera recava il titolo, del tutto pertinente e significativo, «Strappo finale, ma poi?», il cui senso generale appare del tutto conforme alle nostre preoccupazioni di cui sopra. Vi era contenuta, però, una considerazione fondamentale, da tenere in particolare considerazione. Battista elencava tutte le (diciamo così) tentazioni o scorciatoie o furbizie o giochi e giochetti, dai quali Fini dovrà guardarsi, se davvero vuole che il suo sia un vero e proprio partito nuovo, e non soltanto un nuovo partito. Tra queste considerazioni Battista inseriva, però, quella per cui, «se la rottura [con Berlusconi] è una cosa seria, allora Fini deve accettare di misurarsi con nuove elezioni, anche in presenza di una legge elettorale orribile». E ciò, precisava Battista, anche «per non cedere alla tentazione di governi dai nomi più fantasiosi (“tecnici”, “istituzionali”, “di larghe intese”), che assomiglierebbero a un ribaltone e che, tra l’altro, regalerebbero a Berlusconi la fantastica chance di presentarsi come vittima di una manovra oligarchica e ostile al popolo che ha vinto le elezioni». Anche se «questa è una porta strettissima», concludeva Battista, essa è l’unica per assicurare che Fini abbia preso «la strada giusta» per uscire «da una stagione politica ormai tramontata, avendo come stella polare gli interessi dell’Italia e la sua credibilità internazionale, la sua stabilità finanziaria».
Per la verità, la strada presa da Fini appare intanto discutibile, poco rassicurante e fuori dalle norme istituzionali più logiche. Come giudicare altrimenti il presidente di una delle due camere del Parlamento che, come capo di un partito, guida un’azione di affondo contro il presidente del Consiglio dei Ministri, creando un’inedita, diseducativa e deleteria situazione di interessi e competenze, dal rischioso profilo istituzionale? Come altrimenti giudicare un tale presidente di uno dei due rami del Parlamento, se consente e accetta che membri del governo rimettano nelle sue mani nelle sue mani i loro incarichi ministeriali in vista di eventuali dimissioni?
A prescindere (nella misura in cui si può) da tutto ciò, e dopo quanto abbiamo osservato di sopra, non possiamo, comunque, che essere pienamente d’accordo con Battista (anche se sulla definitiva chiusura dell’ancora presente stagione politica nutriamo qualche consistente dubbio). Certo appare che Berlusconi non accetterà, salvo novità clamorose, l’invito di Fini alle dimissioni perché si formino un nuovo governo e una nuova maggioranza; e vorrà essere apertamente sfiduciato da Fini e dai suoi in Parlamento per cedere il campo, nell’idea che così si vada subito a nuove elezioni, come è suo chiaro e comprensibile interesse. Il meglio, per così dire, è, dunque, ancora da venire; ed è, quindi, nel senso di una persistente incertezza che accenna a chiudersi il 2010, senza che si possa già pronosticare su quale scenario si aprirà il 2011.
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