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Europa tra due ere*
di Arrigo Levi
Avendo davanti a me un pubblico di giovani, la prima riflessione che s’impone, nell’accingermi a parlarvi dell’Europa, e avendo scelto per titolo di questo intervento L’Europa tra due ere, è la differenza immensa fra il mondo in cui io vivevo, quando avevo la vostra età, e il mondo in cui vivete voi. Per essere più preciso, io compii 19 anni il 16 luglio del 1945; la guerra in Europa era finita da poche settimane, anche se non la guerra col Giappone, che di fatto finì (anche se ci fu una coda prima della resa del Giappone), alle 9,15 del mattino del 6 agosto 1945, quando esplose, su Hiroshima, la prima bomba atomica, seguita poi da quella su Nagasaki.
Tenendo presenti queste date, e il titolo che ho dato a questa conversazione – L’Europa tra due ere – la prima differenza, tra me e voi, è più che evidente. Io, nato nel 1926, ho vissuto in un’Europa di guerre: guerre dei nostri padri o nonni, guerre del nostro tempo, nell’attesa di altre guerre. Il io era un mondo che viveva costantemente sotto l’incubo della guerra, e che, nel 1945, offriva un immenso panorama di rovine materiali e morali, essendo appena uscito dall’ultima, e di gran lunga la più terribile, delle guerre civili susseguitesi nei secoli sul nostro continente. Io ero uno dei sopravvissuti a quella guerra. Un uomo fortunato. Come ebreo un uomo doppiamente fortunato. Al momento della mia nascita, come Ebreo europeo, le mie probabilità di arrivare a compiere 19 anni erano sì e no del 10 per cento, forse meno; anche se ovviamente non lo sapevo.
Ho poi avuto la fortuna di vivere il resto della mia vita in un’Europa di pace, maestra al mondo nell’arte della pace fra i popoli.
Tuttavia (non so se lo ricordate, forse no) durante i decenni della guerra fredda, ossia per buona parte della mia vita, la paura di una terza guerra mondiale è rimasta sempre viva e presente. Guerre “locali”, ma che coinvolgevano le grandi potenze, o gravi crisi internazionali (la guerra di Corea; la guerra del Vietnam; la crisi di Cuba; ma anche le guerre mediorientali, l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968), fecero temere più volte che si realizzasse l’incubo di un nuovo grande conflitto mondiale, che avrebbe potuto comportare l’impiego di armi nucleari.
Voi – i diciannovenni di oggi – non soltanto avete vissuto tutta la vostra vita in un’Europa di pace; ma perfino la guerra fredda per voi è probabilmente diventata, in pochi anni, soltanto un ricordo. Voi vivete oggi, e avete la tranquilla sicurezza che vivrete tutta la vostra vita in un’Europa di pace.
Certo, oltre l’orizzonte c’è il mondo, con le sue incognite, i suoi conflitti, le sue minacce. C’è Al Qaeda, c’è stato l’11 settembre e il crollo delle Twin towers. Ci sono le guerre del Golfo e dell’Afghanistan. Ma da queste minacce noi Europei, a torto o a ragione (più a torto che a ragione), ci sentiamo toccati solo marginalmente. Quello che più conta è che l’Europa vive la prima stagione di pace della sua storia. Il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma è stato celebrato da un’Unione Europea di 27 stati, estesa a quasi tutto il continente.
Cinquant’anni fa, chi mai avrebbe potuto immaginare che quello che era allora soltanto un sogno, un’utopia, si sarebbe così compiutamente realizzato?
Ricordiamo che, anche se nacque come comunità economica di sei nazioni, il Mercato Comune fu concepito fin dall’inizio come strumento di unificazione non solo economica ma politica. E l’unificazione europea, come dice l’articolo di copertina del penultimo numero di «Time», è stata la più straordinaria storia di successo del nostro tempo. Oggi l’Unione rappresenta «la più vasta estensione di pace e di prosperità largamente condivisa che esista al mondo». L’altro grande settimanale americano, «Newsweek» (e i settimanali americani non sono grandi fans dell’Europa), ha parlato dell’Unione come dell’«esperimento di cooperazione internazionale volontaria di maggior successo di tutta la storia moderna […] i cui valori dilagano in tutto il mondo». Effettivamente, l’Unione Europea è imitata in tutti i continenti. Anche se finora l’ASEAN nell’Asia Sudorientale, il Mercosur in America Latina, e l’Organizzazione degli Stati Africani, sono soltanto degli abbozzi di organizzazione interstatale, a paragone del modello europeo.
Questo modello, che si è via via realizzato superando fasi di crisi e di europessimismo, e battute d’arresto più o meno gravi, ha però sconfitto e distrutto (senza sparare un colpo di fucile), tutti gli Stati totalitari, tutte le dittature, militari, fasciste o comuniste, del nostro continente. La potenza americana era lo scudo, dietro la cui protezione l’Europa unita ha avuto la funzione della spada, una spada che ha ferito a morte gli antagonisti o nemici, grazie all’efficacia di quello che gli studiosi definiscono il soft power, la potenza morbida dell’Unione, confrontandola al hard power, la potenza dura, soprattutto militare, degli Stati Uniti (o della Russia.)
È bensì vero che l’Unione è oggi, per l’ennesima volta, in crisi; che non è ancora riuscita a superare la soglia del Trattato Costituzionale, dopo i referendum negativi di Francia e Olanda; che sta ancora cercando il modo di darsi istituzioni di governo più efficaci, più operative, che le diano maggiore influenza sullo stato del mondo. Ma chi ha seguito, passo passo, per gli ultimi
cinquant’anni, il processo di unificazione, e lo giudica una straordinaria “storia di successo”, non può assolutamente pensare che finirà qui. Anche se non sappiamo ancora come usciremo da questa ennesima crisi.
Potrei ancora dilungarmi negli elogi dell’unificazione europea. In queste giornate, ne avete sentiti tanti, e più che giustificati. In base a questo primo significato del titolo che ho scelto – l’Europa fra due ere – la vostra generazione, quella dei ventenni d’oggi, la prima che sta crescendo nell’era di un’Europa di pace, è, chiaramente, una generazione fortunata.
Lo è, anche se l’Europa sta vivendo quella che è stata definita la sua “crisi di mezz’età”. Potrei, quindi, interrogarmi con voi sulle ragioni di quella specie di cattivo umore che, nonostante tutti i successi del processo di unificazione, o forse proprio a causa di tanti successi, sembra essere lo stato d’animo oggi prevalente fra i popoli europei. Potrei anche cercare di analizzare le ragioni che hanno portato a un certo rigurgito di nazionalismi, fra soci vecchi e nuovi dell’Unione Europea. E potrei, evidentemente, analizzare le varie ipotesi che si stanno facendo sul miglior cammino da percorrere per superare la crisi attuale, seguita alle bocciature francese e olandese del progetto di Trattato Costituzionale, e cercare di spiegare come questa crisi potrà evolversi e risolversi, anzi su come sarà superata e risolta, cosa di cui ho certezza. Ma di tutto questo sono pieni i giornali.
Ho pertanto scelto di condurre i vostri pensieri in tutt’altra direzione. C’è infatti un secondo significato nella definizione l’Europa fra due ere, a cui si riferisce il titolo che ho scelto per questa conversazione. Il fatto è che tra voi e me c’è un’altra straordinaria differenza, che in generale viene dimenticata. E questa non gioca a vostro favore. Perché è vero che io sono sopravvissuto ad anni terribili. Ma comunque, sono nato, e ho vissuto quasi vent’anni, nella prima era nella storia della specie umana; voi, nati dopo quel mattino dell’agosto ’45, avete vissuto tutta la vostra vita nella seconda era. E la differenza fra la prima era e la seconda è radicale.
Fino a quel giorno che ho ricordato dell’agosto del 1945, l’uomo, per quante catastrofi provocasse, (e, ripeto, stavamo appena allora uscendo dalla seconda guerra mondiale, che aveva causato circa 50 milioni di morti, contro i 20 milioni di morti della prima), nonostante tutto questo, l’uomo, in quella prima era della sua storia, prima della scoperta e costruzione delle armi atomiche, prima di Hiroshima, non poteva distruggere la civiltà, e meno che mai la vita, sul Pianeta Terra.
Dopo Hiroshima, nella seconda era della sua storia, l’era nucleare, l’umanità sarà sempre in grado di autodistruggersi. Non lo dico per pronunciare una frase a effetto. Lo dico perché questa è la realtà. E non ci si possono fare illusioni. Sarà così per sempre. Perché le armi di distruzione di massa potranno anche, forse, chissà, essere un giorno distrutte: ma non potranno essere mai più “disinventate”; potranno essere sempre costruite o ricostruite. E questo significa che la spada di Damocle della fine di tutto rimarrà per sempre sospesa sul destino dell’umanità. La mia generazione è la sola, in tutta la storia della specie umana – e questa è davvero una condizione singolare, di cui sono ben cosciente – che ha vissuto una parte della propria vita nella prima era, e una parte nella seconda. Per questo noi sentiamo con particolare forza, e ansia, la differenza fra le due.
Noi sappiamo che con voi, e dopo di voi, tutte le generazioni che verranno vivranno sempre in una condizione di precarietà assoluta. E il primo compito, il primo obiettivo che la vostra generazione, e tutte quelle che verranno, debbono e dovranno porsi, e che già si pone la mia generazione, è: come fare per scongiurare una “apocalisse atomica”?
E in particolar modo (e qui vengo a mettere insieme i due significati di l’Europa tra due ere): che cosa può fare l’Europa, anzi l’Unione Europea, per contribuire ad allontanare o eliminare questa minaccia? E può farlo? Anticipo sinteticamente la risposta che vorrei darvi stasera: l’Europa unita deve porsi come supremo obiettivo quello di operare per la creazione di istituzioni di governo mondiale che impediscano, anzi, che rendano inimmaginabile una guerra nucleare, una ecatombe universale, così come è oggi inimmaginabile una nuova guerra fra i popoli europei. Ma, a tal fine, l’Europa unita deve prima darsi istituzioni di governo dell’Unione capaci di operare credibilmente, con efficacia, non solo in Europa ma sulla scena mondiale, per raggiungere questo obiettivo, nel tempo più breve possibile. Perché non sappiamo quanto tempo abbiamo per salvare l’umanità. Ma non è un tempo illimitato.
Immagino che a questo punto qualcuno di voi penserà, con ragione, che ci sono anche altre minacce alla sopravvivenza della specie. Fino a trenta o quaranta anni fa una delle più gravi sembrava l’aumento della popolazione, che si immaginava avrebbe portato all’esaurimento inevitabile delle risorse naturali per la vita sulla terra; poi ci si è accorti che la popolazione in tutti i paesi “avanzati” non cresceva più, che questo era anzi un fenomeno contagioso per tutti i popoli, e la “bomba biologica”, come si diceva allora, si è disinnescata, spontaneamente. In compenso, oggi non passa giorno senza che leggiate della minaccia dell’“effetto serra”, di un surriscaldamento del pianeta, dello scioglimento dei ghiacci e della crescita di livello degli oceani. E questo pericolo è reale.
C’è però una differenza fondamentale fra questa minaccia e quella nucleare, ed è questa: l’effetto serra dispiegherà i suoi effetti gradualmente, e non rappresenterà, per un tempo molto lungo, una minaccia alla sopravvivenza della specie. Ma soprattutto, fin da ora può essere combattuto, e di fatto incomincia ad esserlo, dalla società umana come è oggi organizzata: in un sistema di Stati nazionali, affiancati da un certo numero di istituzioni transnazionali o anche soprannazionali, che si sforzano di coordinarne le azioni per sconfiggere una minaccia che quasi tutte le nazioni sentono come reale, e diretta contro se stesse, e contro tutti.
Ma questo non vale per la minaccia nucleare. Il sistema mondiale, come è oggi, non è nemmeno capace di ridurre in modo drastico il numero delle testate nucleari esistenti: ne esistono ancora, nei nove paesi con armi nucleari, parecchie migliaia, molte di più di quelle che basterebbero per porre fine alla civiltà e per fare della Terra, come è stato scritto, un “pianeta di insetti e di erbe”. Ricordiamoci: per salvare l’Europa è stato necessario cambiare l’Europa, il modo in cui è governata. Per salvare il mondo, bisogna cambiare il mondo, cioè cambiare radicalmente il modo come è stato sempre governato fino ad oggi il sistema mondiale. E questa è un’impresa titanica.
Nel mondo come è oggi, gli Stati-nazione che hanno i mezzi per costruire armi nucleari, anche se finora non l’hanno fatto, sono fra venti e trenta. Alcuni di loro, che stanno imboccando questa strada, pensano che una volta che avranno l’atomica saranno più sicuri. Ma un vicino con l’atomica ci appare più pericoloso di una superpotenza nucleare. Alcuni degli aspiranti all’arma nucleare dichiarano di voler cancellare dalla faccia della terra altri Stati (è quanto ci ripete l’Iran parlando d’Israele). E in più vi sono organizzazioni terroristiche, come Al Qaeda, che esaltano l’ideologia del suicidio, e che – gli esperti lo danno per certo – stanno cercando di procurarsi almeno una o due bombe atomiche, ciascuna di esse sufficiente per distruggere una qualsiasi metropoli in qualsiasi paese.
Dio solo sa quale sarebbe la reazione dal paese colpito. Ecco perché, qualche settimana fa, le lancette dell’“Orologio dell’Apocalisse” sono state spostate in avanti. L’Orologio dell’Apocalisse è stato inventato nel 1947 dal Bollettino degli Scienziati Atomici, e misura i minuti che separano il mondo dalla mezzanotte di una catastrofe nucleare. Le lancette sono state spostate già 18 volte, avanti o indietro. I minuti erano scesi ad appena due nel 1953, dopo le esplosioni delle prime bombe H russe e americane. Poi vennero diversi trattati, fino a quello di Non Proliferazione, col quale 183 paesi rinunciarono agli arsenali atomici, e le lancette vennero via via spostate più indietro; finché, il 16 gennaio scorso, con le crisi iraniana e nord-coreana, sono state di nuovo spostate in avanti e ridotte da sette a sei minuti: si tratta naturalmente di segnali di allarme simbolici, ma pur sempre significativi.
Il fatto è che ogni nuovo Stato nucleare minaccia di farne nascere degli altri. E tutto questo, in aggiunta alla minaccia di terrorismo nucleare, rischia di vanificare il principio base della “pace del terrore”, che è la condizione di pace in cui viviamo da qualche decina d’anni: la “Mutual Assured Destruction”, o MAD, ossia la distruzione reciproca assicurata, la reciproca deterrenza fra Stati nucleari; Al Qaeda, che teorizza il suicidio come strada verso il Paradiso, non ha neppure uno Stato. Ha scritto di recente Henry Kissinger: «l’intreccio di equazioni deterrenti, se dovesse essere esteso non più a otto o nove, ma a venti o più Stati nucleari, diventerebbe tremendamente complicato. Non sarebbe realistico, in un mondo siffatto, pensare di poter evitare una catastrofe nucleare».
Questa è la realtà del mondo in cui viviamo oggi. E anche se io ho vissuto negli anni di Hitler e di Stalin, e ricordo bene la cupa minaccia che pesava negli anni Trenta sulla nostra esistenza, e l’angoscia che provavamo, so che la minaccia nucleare, che pure sembra molto lontana dal pensiero della maggioranza, dal vostro pensiero, è infinitamente peggiore.
E torno a questo punto alla nostra Europa, all’Unione Europea, che conta già due potenze nucleari, Francia e Gran Bretagna, e che si sente per di più protetta dall’ombrello nucleare di quella che è una delle due superpotenze nucleari, gli Stati Uniti. L’altra è, ovviamente, la Russia. Paese a cui siamo legati, come Unione, e come NATO, da accordi istituzionali di consultazione e di cooperazione: l’Unione Europea da un accordo di partenariato e cooperazione (firmato a Corfù nel giugno ‘94, entrato in vigore, per la durata di dieci anni, quasi dieci anni fa, il 1 dicembre 1997, e rinnovabile automaticamente); mentre esiste un Consiglio NATO-Russia, che è anch’esso uno strumento di dialogo e di cooperazione.
Ma si tratta di organismi non cogenti e di dubbia efficacia. Vedi la minaccia di una “nuova guerra fredda” (Kissinger preferisce parlare di “pace fredda”), che è stata fatta balenare dopo l’annuncio che gli Stati Uniti stavano pensando di collocare stazioni di allarme radar e basi di lancio di missili antimissili in Polonia e nella Repubblica Ceca. Le reazioni russe sono state (non senza ragione) violente. Anche il Segretario della NATO si è detto preoccupato per il fatto che si pensasse di mettere in piedi, nel centro Europa, un “miniscudo spaziale”, che lascerebbe scoperti, di fronte a una possibile minaccia nucleare iraniana (che di questo si tratta) diversi paesi atlantici del Sud Europa, compresa l’Italia. Sono seguiti dibattiti tra esperti, affrettate spiegazioni, impegni americani di ridiscutere tutto, insieme con la Russia. Ma è evidente che gli organismi di collegamento fra la NATO, l’Unione Europea e la Russia non avevano funzionato. Hanno, chiaramente, bisogno di essere sviluppati e rafforzati. Che cosa può fare l’Europa per rafforzarli?
Le Comunità Europee nascono, come ho detto, agli albori della seconda era della storia umana, con la consapevolezza che l’Europa, con gli ultimi suoi conflitti intestini, aveva dato origine a due guerre mondiali, a due catastrofi, la seconda delle quali si era appunto conclusa con la bomba di Hiroshima. Sia detto fra parentesi, gli scienziati che inventarono la bomba sapevano benissimo che avevano creato un mostro. Ma dall’altra parte c’era Hitler. L’atomica – Einstein ne informò Roosevelt – poteva inventarla prima lui, e non si poteva esitare. In questo quadro, avendo per di più come “unificatore esterno” Stalin, che si era mangiato mezza Europa, ebbe inizio il processo di unificazione europea, che si poneva come primo obiettivo quello di evitare una terza guerra europea e mondiale. Il grande disegno europeo si è realizzato. E oggi, il problema non è l’Europa. Il problema è il mondo. E che posto spetta, a
questa Europa, nel mondo?
La nostra civiltà, quella europea, a un certo punto della sua storia ha conquistato il mondo intero. Anzi, l’Europa ha inventato il mondo: ha unificato
tutti i teatri, fino allora separati, della storia, e il mondo è diventato “un sistema”. Ma il mondo d’oggi è un sistema quanto mai imperfetto, discontinuo,
dove ogni crisi, ovunque si verifichi, coinvolge l’intero “sistema mondo”. Ma non tutti ne sono coscienti; e non c’è una mente, un disegno, una istituzione, che governi il mondo e che reagisca attivamente alle singole crisi.
Si illudeva chi pensava che, con la fine della guerra fredda, si fosse arrivati alla “fine della Storia”. Era ed è una pericolosa illusione. La storia va avanti: complessa, imprevedibile, sorprendente e pericolosa, come è sempre stata. Anzi, più pericolosa di quanto sia mai stata. Perché questa è e sarà per sempre l’era nucleare della storia umana.
L’Europa è in pace. Ma oltre i nostri confini, non c’è un mondo di pace.
Pur sapendo bene quali siano i limiti di potenza dell’Europa d’oggi, guardando avanti, alla seconda era della storia umana, io penso che l’Europa ne sarà ancora, volente o nolente, una protagonista. Sono d’accordo con «Newsweek » quando afferma che il mondo d’oggi, a dispetto delle apparenze, non è “unipolare”, ma bipolare, con l’Europa come seconda grande potenza accanto all’America. E credo che noi europei abbiamo ancora qualcosa da dire e da fare, nella storia dell’umanità.
Alcuni europei hanno un sogno: che l’Europa possa contagiare il mondo della sua pace. Così come l’abbiamo contagiato, in bene, con la nostra scienza e con i nostri ideali di libertà e di democrazia; e in male, con le nostre guerre. L’Occidente, diceva Arnold Toynbee negli anni Cinquanta, è stato “l’aggressore del mondo”. Oggi abbiamo l’impressione che l’aggressore sia il mondo, l’aggredito l’Occidente. Comunque, guardando al passato, ci sentiamo un po’ in debito, e un po’ in credito col mondo. E pensiamo che ci siano ancora
dei conti in sospeso, che dobbiamo saldare. Come?
Io credo, che noi europei possiamo ancora avere, nel mondo “occidentale”, che a mio avviso va dalle Americhe alla Russia, con più lontane propaggini in Asia – anche il Giappone è oggi, forse suo malgrado, Occidente – e in Africa, una posizione, e una funzione, centrale.
America e Russia sono in realtà pezzi d’Europa. Sono parte della nostra storia, della storia dell’Occidente, nel bene e nel male. E anche se le nuove grandi potenze emergenti, l’India e la Cina, peraltro profondamente influenzate dalla nostra civiltà, sono destinate ad avere un ruolo primario nel mondo del futuro, pensiamo che l’Occidente, inteso come sistema di civiltà che ha le sue radici e il suo cuore nella vecchia Europa, possa e debba avere una funzione globale decisiva, di importanza vitale. È in gioco, insieme con la nostra, la sopravvivenza di tutti.
Quando grandi minacce pesano sul futuro, bisogna pensare grandi utopie. È stato così, cinquant’anni fa, coi Trattati di Roma, che diedero la prima forma concreta a una utopia. È forse troppo, per l’Europa, proporsi di diventare primo motore di un vasto disegno di cooperazione e di pace, che abbracci tutte le nazioni della civiltà occidentale, e che faccia di un sistema di pace occidentale il protagonista di un grande progetto di pace mondiale? Non è questo che avevamo in mente quando abbiamo inventato, noi occidentali, prima la Società delle Nazioni, poi l’Organizzazione delle Nazioni Unite?
Forse, proprio in un momento di incertezza sul futuro dell’Unione, come è quello attuale, dobbiamo proporci grandi obiettivi: una ragione d’essere che vada molto al di là della soluzione dei nostri modesti dissensi su questo o quel passaggio della Carta Costituzionale. Dobbiamo pensare in grande. E ci sembra di vedere, all’orizzonte, un obiettivo degno della nostra storia: darci una unità politica; e farci promotori della creazione, tutto attorno all’emisfero
Nord, di un anello di pace e di cooperazione, che vada dall’Unione Europea alla Russia, dalla Russia al Giappone e agli Stati Uniti, e si ricongiunga attorno al globo all’Europa e alla Russia.
Ci sono già alcune premesse per realizzare questo sogno. Ma c’è molto da fare per farlo diventare realtà. Anche perché, non soltanto l’Europa, ma sia gli Stati Uniti che la Russia stanno attraversando una fase piuttosto confusa e incerta della loro storia.
Non sappiamo che America ci sarà dopo il secondo Bush; e nemmeno che Russia verrà dopo Putin, se e quando Putin uscirà di scena. Ma forse, proprio da questa condizione generale di insicurezza (fu così anche dopo il ‘45), potremmo tutti trarre la motivazione per un grande scatto di fantasia, proporci tutti insieme un grande obiettivo. E una Europa consapevole della sua identità, dei suoi valori, del suo passato e del suo destino, potrebbe, col suo soft power, influenzare positivamente l’America e la Russia, che sono l’una e l’altra una Europa desterrada, una Europa in esilio, come diceva Borges parlando dell’Argentina.
Un “Grande Occidente”, ricomposto ad unità, può diventare il pilastro su cui andar costruendo, nell’ambito di quella invenzione imperfetta della civiltà occidentale, di quel primo abbozzo di governo mondiale che si chiama Organizzazione delle Nazioni Unite, un mondo di pace e di cooperazione, capace di incatenare e tenere sotto controllo per sempre il mostro nucleare, che minaccia la sopravvivenza dell’umanità.
Le altre grandi potenze, di oggi e di domani, la Cina, o l’India, o l’Africa, o il Brasile, o gli stati islamici in preda a una grave crisi di identità, acquisterebbero in un “Grande Occidente”, unito e forte, un sicuro punto di riferimento e di garanzia per la loro stessa sicurezza. Partendo da questa realtà, che ancora non c’è, potremmo avanzare verso la realizzazione del sogno kantiano di uno Stato di popoli che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra. Sono passati poco più di due secoli da quando Kant disegnava questa sua utopia, senza neppure sapere che l’alternativa ad essa sarebbe stato, un giorno, l’incubo di una ecatombe nucleare universale. Ma Kant era un profeta.
Ci si possono porre, anzi ci si debbono porre, come è ovvio, molti interrogativi. L’Europa ha il potere e gli strumenti per un compito storico di tanta portata? La risposta, sicuramente, è oggi ancora un no. E gli Stati Uniti e la Russia, del dopo Bush, e del dopo Putin, saranno, a loro volta, all’altezza di una tale impresa? E in attesa dell’utopia kantiana, qualche crisi locale, come quella in atto nel mondo arabo-islamico, non manderà tutto a monte, non farà saltare tutto in aria? E sapremo intrecciare intanto una rete di rapporti costruttivi con le superpotenze emergenti come Cina e India?
Ma di nuovo, prima di tutto e soprattutto, l’Unione Europa saprà dimostrarsi all’altezza di questa prova, guidare il mondo verso una pace universale? Oggi non ha i mezzi istituzionali per realizzare un tale vasto progetto, e forse nemmeno l’animo per sognarlo. Ma qui, in questa sede universitaria, so bene di parlare, e l’ho già detto all’inizio, a chi ha ancora tutta una vita da vivere, e l’età per sognare, e per pensare di poter realizzare i sogni.
La mia generazione può vantarsi di essere riuscita a consegnarvi un’Europa tutta d’un pezzo, tutta intera, e unita. Ma forse ha esaurito così la sua capacità di disegnare utopie.
Voi giovani dovete e potete guardare lontano. Avete tempo davanti a voi. Non un tempo illimitato. Ma nemmeno un tempo troppo breve, perché la catastrofe nucleare di cui vi ho parlato, e che ho fatto apparire come un incubo al vostro orizzonte, non è dietro l’angolo. Qualche amaro avvertimento, come un’impresa di terrorismo nucleare, (molti esperti la danno per probabile, al cinquanta per cento, entro una decina d’anni), potrebbe risvegliare l’Europa, l’Occidente, e tutta l’umanità, dal suo distratto cammino verso una possibile Apocalisse. Anche nell’orologio dell’Apocalisse, mancano ancora diversi minuti alla mezzanotte.
Mi sentirei di dire ancora una cosa. Il compito della nostra generazione è stato quello di impedire che l’Europa, e con essa il mondo, tornassero indietro, verso un nuovo conflitto europeo e mondiale. Bene o male, un po’ per saggezza un po’ per fortuna, questo compito l’abbiamo assolto: e il nostro tempo sta finendo. Il vostro compito, detto in due parole, è fare dell’Europa unita lo strumento per fermare l’orologio dell’Apocalisse: anzi, per farlo recedere gradualmente verso un orizzonte sempre più lontano, fino a non vederlo più. Quello che è certo, è che se il nostro compito è stato difficile, il vostro lo sarà altrettanto. Forse anche di più.


NOTE


* Elaborazione del testo di conferenza per l’Università Roma Tre, tenuta il giorno 24 marzo 2007.^
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