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Euro, cinque anni dopo
di Italico Santoro
1. L’euro tra successi e diffidenza

Strano destino quello dell’euro! A cinque anni dalla sua introduzione, si è affermato sui mercati internazionali; eppure, proprio nei paesi che lo hanno adottato, continua a suscitare perplessità presso gran parte dell’opinione pubblica.
All’inizio del 2007, secondo i calcoli della commissione UE, il circolante in euro (compreso quello in possesso delle banche commerciali ed escluse le banconote detenute come riserva dagli istituti centrali) avrebbe oltrepassato i 600 miliardi, un valore quasi triplo rispetto al gennaio del 2002 (221 miliardi),
quando la moneta unica sostituì quelle nazionali. In base a queste stime il valore dei biglietti emessi in euro sarebbe addirittura superiore a quello dei biglietti emessi in dollari.
Questi ultimi, invece, continuano ad avere una posizione dominante tra le valute estere detenute come riserva dalle banche centrali (circa il sessantasei per cento, secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali). Ma anche su questo versante si registra una crescente espansione dell’euro, tanto più significativa perché raggiunta in soli cinque anni.
Certo, questi risultati vanno interpretati correttamente. La popolazione dell’Eurozona è maggiore di quella degli Stati Uniti, e per di più alcuni paesi che non ne fanno parte – come il Montenegro e il Kosovo – hanno comunque adottato l’euro come valuta nazionale. Gli americani fanno largo ricorso ai pagamenti elettronici, mentre gli europei regolano prevalentemente le loro transazioni ancora in contanti. E, quanto alla utilizzazione della valuta europea come moneta di riserva, essa è dovuta soprattutto a fattori politici1. Pur con tutte queste cautele i successi dell’euro sono peraltro innegabili, e ne è una conferma proprio il cambio con il dollaro (che oscilla da tempo intorno al dieci per cento al di sopra della parità fissata inizialmente, malgrado i tassi di interesse praticati dalla FED siano sensibilmente più alti rispetto a quelli applicati dalla BCE). Successi che hanno consentito a Joaquin Almunia, commissario UE per gli Affari monetari, di poter brindare ai cinque anni dell’euro sottolineandone i vantaggi, che vanno «da un livello di inflazione e tassi di interesse che per molti paesi non sono mai stati così bassi per così tanto tempo», fino ad una maggiore convenienza delle importazioni, a partire da quelle del petrolio; da una minore dipendenza dall’estero ad una più accentuata trasparenza dei prezzi e conseguente concorrenza tra le imprese2.
Come mai, allora, l’euro viene ancora percepito con diffidenza da una vasta opinione pubblica europea3? Come mai è stato uno degli argomenti utilizzati, in Francia ed Olanda, per sostenere il rigetto della Costituzione in occasione dei rispettivi referendum? Come mai ci sono ancora economisti e politici che continuano a mettere sotto accusa la moneta comune ed in qualche caso ad auspicare il ritorno alle vecchie valute nazionali? Si tratta solo e sempre di una «percezione distorta», che tende a fare dell’euro il «capro espiatorio per altri problemi»4, come ha sostenuto il commissario Almunia, implicitamente riconoscendo però, in questo modo, che qualcosa non ha funzionato e non funziona in Europa nel rapporto tra moneta unica e cittadini?


2. Le critiche all’euro

Il percorso decennale verso la moneta unica è stato tutt’altro che agevole. Prevista dal Trattato di Maastricht, ha perso lungo la strada alcuni pezzi pregiati: la Gran Bretagna, in primo luogo, ma poi anche Svezia e Danimarca. Tutti paesi “virtuosi”, con i conti pubblici in ordine ed economie in crescita.
Ma anche negli Stati e negli ambienti favorevoli all’introduzione dell’euro sono emerse molte perplessità, che hanno riguardato soprattutto la rigidità delle norme poste a presidio della moneta unica. Si è fatto osservare5 in particolare che il disegno istituzionale affida alla BCE «il compito esclusivo del perseguimento della stabilità dei prezzi» e vincola i bilanci degli Stati nazionali attraverso il patto di stabilità, tutte regole sacrosante in periodi di “normale amministrazione”. Ma non si tiene in alcun conto l’eventualità che possano sopraggiungere, in un paese o nell’intera Comunità, circostanze eccezionali «che impongano investimenti incompatibili con le norme di Maastricht» e che richiederebbero quindi una flessibilità non prevista dal Trattato. Paradossalmente, la riunificazione della Germania non sarebbe stata possibile se fossero stati in vigore gli accordi che disciplinano il funzionamento dell’Eurozona.
Sono peraltro osservazioni sollevate in questi anni dagli stessi governi dei principali Stati europei: dalla Francia, che avrebbe voluto escludere la spesa per la Difesa dal calcolo dei deficit, alla più generale richiesta – in pratica comune ai tre maggiori paesi dell’Eurozona – di non ricomprendervi gli investimenti pubblici. E la migliore riprova di quanto fondate fossero quelle osservazioni sono proprio le ripetute e prolungate violazioni inferte al cosiddetto patto di stabilità da Germania, Francia e Italia (oltre ai giudizi non certo lusinghieri che su di esso sono stati espressi da autorevoli membri della Commissione).
Queste critiche si muovevano pur sempre, come si è già ricordato, all’interno del disegno istituzionale dell’euro e non ne mettevano in discussione gli obiettivi di fondo. Ben più radicali sono invece altre obiezioni, sollevate soprattutto in Germania, dove i dubbi circa la opportunità di abbandonare il
marco avevano lambito gli stessi vertici della Bundesbank e parti significative del mondo politico. Alcuni economisti tedeschi hanno addirittura presentato nel 1997 un ricorso alla Corte Costituzionale contro l’introduzione della moneta unica. E uno di loro, il professor Wilhelm Hankel – che nel 1971 era stato anche sottosegretario alle Finanze con Karl Schiller – ha ribadito ancora di recente, in alcune interviste rilasciate all’ «Executive Intelligence Review», i
motivi della sua opposizione6.
A parte le osservazioni di carattere teorico e i riferimenti a precedenti storici, questi motivi riguardano per un verso la Germania e per altro verso l’intera Eurozona. I primi si fondano sulla convinzione che «il surplus commerciale e dei conti correnti della Germania» non porta ad una espansione della sua ricchezza, ma «viene bruciato dai deficit delle altre economie nazionali dell’Unione Monetaria Europea. Paesi come Francia, Spagna, Italia e Grecia hanno deficit correnti notevoli che non colmano stringendo la cinghia», ma grazie ai trasferimenti finanziari della Germania. In altri termini, «il potenziale economico tedesco viene sacrificato sull’altare dell’Europa»: come dimostrerebbe la caduta degli investimenti netti, che nel 2004 si erano ridotti ad un terzo rispetto al 1999.
Il secondo ordine di motivazioni è comune invece a tutti gli Stati membri dell’Eurozona. I quali hanno perso «ogni possibilità di seguire una propria politica economica e congiunturale: non si riesce ad intervenire né sui tassi di interesse né sui tassi di cambio, queste leve sono bloccate. Per cui anche i paesi deficitari come l’Italia verrebbero danneggiati dall’euro.
La conclusione di Hankel è drastica. «La crisi in Europa, specialmente nei grandi Stati, è venuta con l’euro ed è destinata a permanere fino a quando resterà l’euro». La sua funzione dovrebbe essere, semmai, quella di «collegamento monetario per un effettivo coordinamento delle monete nazionali»: in qualche modo analoga – al più rafforzata – rispetto a quella svolta dall’ECU nel Sistema Monetario Europeo preesistente all’introduzione dell’euro.
Queste più radicali obiezioni sono state rafforzate – ed hanno fatto breccia nell’opinione pubblica – per la contemporanea sovrapposizione di due fenomeni. Per un verso una netta divaricazione – soprattutto in alcuni paesi, tra i quali l’Italia – tra “inflazione reale” e “inflazione percepita”, a cui evidentemente si riferisce lo stesso Almunia quando parla di «percezione distorta». Sta di fatto però che mai, in questo dopoguerra, tale divaricazione era stata avvertita – per parafrasare il Commissario per gli Affari monetari – in modo così marcato e per così tanto tempo. E la diffusione, l’intensità, la durata di tale percezione non hanno di certo contribuito ad avvicinare l’opinione pubblica alla nuova valuta.
Più radicato e più complesso è il secondo fenomeno. L’avvento dell’euro – e il processo gestionale che lo ha preceduto – hanno coinciso con una fase economica tra le più difficili attraversate dal Vecchio Continente in questo dopoguerra. Si è così diffusa la convinzione che fosse proprio l’introduzione della moneta unica all’origine di questa lunga crisi; e che per riprendere la via dello sviluppo non rimanesse agli Stati europei che il ritorno alle valute nazionali7.


3. La crisi economica e le sue origini

Ma è fondata questa convinzione? È proprio vero che a determinare le difficoltà dell’economia europea è stata l’introduzione della moneta unica? Esiste insomma, tra l’euro e la crisi, un rapporto di causa ed effetto?
Che l’Europa abbia perduto colpi nel corso dei cinque anni di vita della moneta unica è un dato innegabile. Il tasso medio annuo di crescita del prodotto interno lordo, calcolato ai prezzi di mercato, si è aggirato intorno all’1,5 per cento; negli Stati Uniti – l’area economica con cui questi confronti hanno maggior senso – è stato quasi il doppio (2,7%). E per di più, anche nell’ambito della stessa Unione Europea sono stati proprio i paesi che hanno adottato la moneta unica ad avere il passo più lento: 1,5 a fronte dell’1,9 registrato nell’insieme della UE. Con una punta del 2,5 per la Gran Bretagna, il cui tasso di sviluppo è stato più vicino a quello degli USA che non ai ritmi di crescita dell’Eurozona.
È anche vero, però, che queste tendenze precedono l’introduzione della moneta unica. Risalgono all’inizio degli anni Novanta e sono rimaste costanti per un lungo arco di tempo: con la sola eccezione del biennio 2000-2001 (per il quale d’altra parte va messo in conto anche l’attacco alle Torri Gemelle), il tasso di sviluppo degli Stati Uniti si è mantenuto nettamente al di sopra di quello dell’Eurozona. E lo stesso può dirsi per la Gran Bretagna, che anzi ha superato i paesi dell’area-euro anche nel biennio 2000-2001.
C’è d’altra parte un dato che è particolarmente significativo, anche perché esprime una tendenza di lungo periodo. Nel 1991 il prodotto interno lordo degli Stati Uniti, sempre calcolato ai prezzi di mercato, superava solo del quattro per cento quello dei paesi che avrebbero poi dato vita all’Eurozona. Nel 2006 il divario ha rasentato il ventisette per cento. La forbice tra le due aree si è insomma dilatata, e non certo negli ultimi cinque anni ma come effetto di un processo che investe un arco temporale molto più lungo. A completamento di questa analisi si può ancora osservare che il PIL della Gran Bretagna nel 1991 era pari al diciotto per cento dell’Eurozona, nel 2006 ha superato il ventidue per cento.
È appena il caso di aggiungere che queste tendenze, riguardanti l’andamento del prodotto interno lordo, si sono riverberate sull’intero sistema economico-sociale, a cominciare dal tasso di disoccupazione, che negli Stati Uniti (e in Gran Bretagna) è oscillato tra il 4,5 e il 6 per cento mentre nell’Eurozona è schizzato ben oltre il dieci per cento.
Ma ai critici della moneta unica queste osservazioni non bastano. È vero – si obietta – che il rallentamento dell’economia nei paesi dell’euro è iniziato ben prima che la nuova moneta venisse adottata; ma coincide temporalmente con gli anni in cui sono state avviate le politiche monetarie e di bilancio che avrebbero poi reso possibile l’unificazione monetaria. Non a caso gli accordi di Maastricht sono stati sottoscritti nel 1990 e, dopo le turbolenze valutarie dei primi anni Novanta, c’è stata una progressiva convergenza verso l’obiettivo dell’euro. Secondo i critici più radicali della moneta unica risalirebbero perciò a quegli anni, e a quelle politiche, le difficoltà che hanno caratterizzato le principali economie dell’Eurozona.
Ma è proprio così? È proprio vero insomma che sono stati gli accordi di Maastricht, le politiche di convergenza verso la moneta unica e infine l’introduzione dell’euro ad innescare la perdita di competitività dell’economia europea? Gli anni Novanta – è bene non dimenticarlo – sono stati anche gli anni della rivoluzione informatica, che è partita dagli Stati Uniti ed ha impresso in quel paese una forte accelerazione ai ritmi di crescita della produttività. Sono stati gli anni durante i quali gli investimenti americani in ricerca e sviluppo sono proseguiti ad un ritmo sensibilmente più elevato di quello europeo. E soprattutto, e più in generale, c’è da chiedersi se l’unione monetaria non sia stata messa a punto «senza la minima nozione di aggiustamenti strutturali e finanziari»8. Ed è su questo punto che i critici dell’euro potrebbero avere, almeno in parte, qualche ragione.


4. La teoria dell’“area monetaria ottimale” e gli aggiustamenti strutturali

La moneta unica ha avuto, come è ovvio, soprattutto origini politiche. Pensata da Jacques Delors, quando era presidente della Commissione, come un possibile volano per ridare slancio alla costruzione comunitaria, fu decisa tra Mitterand e Kohl al momento della riunificazione tedesca con l’obiettivo di mantenere legata la Germania alla prospettiva europea. Ma trova anche un solido fondamento economico nella teoria dell’“area monetaria ottimale”9 di Robert Mundell, considerato non a caso il padre intellettuale dell’euro.
L’economista americano vedeva proprio nell’Europa un tipico esempio di “area monetaria ottimale” e fu quindi un deciso sostenitore della valuta unica. Secondo Mundell, peraltro, era necessario il rispetto di alcuni criteri, primo tra i quali un aggiustamento strutturale e finanziario tra le diverse economie interessate. In pratica, uno sforzo diretto ad “avvicinare” le condizioni esistenti nei diversi paesi.
È stato compiuto questo sforzo? Su pressione dell’allora ministro delle Finanze tedesco Theo Weigel e della Bundesbank venne introdotto il patto di
stabilità, che avrebbe dovuto costringere gli Stati membri dell’Eurozona a politiche rigorose di bilancio. Uno strumento, come poi si è visto nei fatti, che ha contribuito più a ingessare tali politiche che a favorire le riforme strutturali imposte – prima che dall’adozione dell’euro – dall’avvento di quei processi che sono stati riassunti nel termine di “globalizzazione”.
Mentre l’economia americana, anche per l’introduzione delle nuove tecnologie, diventava più flessibile e dinamica10, mentre l’economia britannica si era andata ristrutturando in quella stessa direzione, i maggiori paesi dell’Europa continentale rimanevano inerti. Lungi dall’adottare riforme che si rendevano comunque necessarie nelle nuove condizioni “globali” dell’economia, neppure introducevano quegli aggiustamenti che l’introduzione dell’euro rendeva particolarmente urgenti.
E qui è la contraddizione più evidente in cui incorrono i critici della moneta unica. Per un verso fanno osservare, e con ragione, che sono mancati gli adattamenti strutturali ai quali faceva riferimento Mundell; ma per altro verso si oppongono sia all’euro sia a tali adattamenti ritenendoli «incompatibili con una economia sociale di mercato» (vale a dire il “modello renano”). Incorrendo così in un duplice errore: quello di difendere un assetto economico-sociale in crisi e quello di attribuire alla moneta unica la responsabilità di questa crisi. C’è semmai da osservare che l’introduzione dell’euro non è stata colta come un’occasione per ristrutturare e riformare sistemi ormai in difficoltà.
La conferma viene proprio dalla Germania. Dopo un lungo periodo di stagnazione, nel 2006 l’economia tedesca ha ripreso vigore: il prodotto interno lordo è aumentato del 2,7 per cento e quasi tutti gli esperti ritengono che la crescita durerà ancora a lungo. Come ha scritto Melvyn Krauss, docente alla Stanford University11, negli ultimi anni – e sia pure con ritardo – «la Germania ha portato avanti una rivoluzione silenziosa», introducendo «importanti cambiamenti» che ne hanno migliorato la «posizione competitiva sui mercati mondiali». Cambiamenti che sono tuttora in corso, come dimostra la recente decisione di elevare a 67 anni l’età pensionabile. Insomma le riforme hanno pagato. Magari sono state lente, hanno richiesto tempo, ma alla fine il risultato c’è stato. E i disoccupati, che ancora nel febbraio del 2005 superavano la fatidica quota dei cinque milioni, si sono ridotti di oltre ottocentomila unità.


5. L’euro senza alternative

L’articolo di Krauss si conclude con una provocazione, rivolta ai paesi dell’Eurozona – in particolare Francia ed Italia – che non hanno seguito l’esempio della Germania e quindi sono in ritardo con le riforme. Questi paesi sono costretti ora a scegliere fra tre possibili opzioni: una “inaccettabile”, una seconda “impensabile” e infine una terza “difficile”.
La prima possibilità è quella di rassegnarsi, con la Germania di nuovo in pieno sviluppo, a tassi di interesse «che non creano problemi ai tedeschi, ma mettono sotto pressione i ritardatari di Eurolandia». Con la prospettiva di una divaricazione nei ritmi di crescita e quindi, per questi ultimi, di una stagnazione economica cronica nel medio periodo.
La seconda opzione sarebbe quella di sottrarsi ad una simile prospettiva abbandonando l’euro. Ipotesi definita, non a caso, “impensabile”. Non resta che la terza possibilità, quella di «dare un colpo di acceleratore alle riforme» che la Germania (ma anche altri paesi dell’Eurozona) ha già fatto: «un compito difficile che richiede tempo» ma che non ha alternative.
Si tratta, in altri termini, di intraprendere quella che Michele Salvati ha definito la «fase due» dell’euro. Una fase che in Italia andava avviata da tempo, da quando fu deciso – a metà degli anni Novanta e nella prospettiva della moneta unica – il rientro della lira nel Sistema Monetario Europeo. «L’abbandono del facile (e perverso) meccanismo di sopravvivenza di cui c’eravamo ampiamente avvalsi dal 1973 in poi – inflazione, svalutazione, indebitamento – imponeva l’adozione di un altro meccanismo». E cioè «mettere mano rapidamente a riforme che incidessero sulle debolezze strutturali che avevamo accumulato»12.
Questa strada, che non è stata imboccata a tempo debito, non può più essere elusa. Sarebbe opportuno anzi che l’euforia per una ripresa che potrebbe anche rivelarsi effimera (e che probabilmente è trainata almeno per ora dalla locomotiva tedesca)13 non spinga le forze politiche italiane ad accantonare l’agenda delle riforme.
E allora, possiamo concludere con Krauss: «difficile – scrive l’economista della Stanford University – è meglio che inaccettabile e impensabile». C’è allora da sperare che si facciano le cose difficili prima di essere costretti dai fatti a dover fronteggiare l’inaccettabile o l’impensabile.



NOTE


1 Non a caso viene utilizzata soprattutto da paesi aderenti all’OPEC come il Venezuela o l’Iran.^
2 V. resoconto della conferenza stampa tenuta a Bruxelles in data 28 dicembre 2006.^
3 Secondo un sondaggio dell’Eurobarometro effettuato a fine 2006, meno del 30 per cento degli europei è convinto che l’euro porterà benefici ai rispettivi paesi, mentre nel 2002 la percentuale era pressoché doppia. Quanto alla Francia, da un sondaggio della Tns-Sofres risulta addirittura che il 52 per cento dei francesi – i più delusi dall’euro – ritiene che l’adozione della moneta unica abbia contribuito solo a rallentare la crescita economica e a far salire i prezzi.^
4 V. conferenza stampa già citata.^
5 V. al riguardo Istituto Ugo La Malfa, L’Unione Monetaria e il futuro dell’Europa, novembre 1997.^
6 V. in particolare, Sono gli Stati nazionali che debbono sopravvivere e non le unioni monetarie, intervista a Wilhelm Hankel, in «Executive Intelligence Review», 28 aprile 2006.^
7 Così, appunto, Hankel, cit.^
8 W. Hankel, cit.^
9 Teoria che valse a Mundell il Nobel per l’Economia nel 1999.^
10 Intervenendo ad Essen, durante l’ultima riunione del G7, il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha sottolineato come l’economia americana sia cresciuta perché è salito il suo livello potenziale reale grazie a «tecnologia, informazione, flessibilità e concorrenza» - E Giulio Sapelli (Bye bye produttività, in «Corriereconomia», febbraio 2007) annota: con «la rivoluzione delle applicazioni informatiche e delle telecomunicazioni su scala di massa» il sistema USA si è rivelato «il più idoneo per trasmettere in forma diffusa questa new economy».^
11 M. Krauss, Berlino e la rivoluzione silenziosa, in «Il Sole 24 Ore», 28 gennaio 2007.^
12 M. Salvati, Euro, è mancata la Fase Due, in «Corriereconomia», 18 dicembre 2006.^
13 Sarà bene ricordare l’ammonimento del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa in occasione dell’ultimo G7: «L’Italia continua a perdere quote di mercato nonostante la ripresa delle esportazioni».^
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