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Ordine costituito e ordine nuovo negli scritti scapigliati
di Emanuela Bufacchi
ORDINE COSTITUITO E ORDINE NUOVO NEGLI SCRITTI SCAPIGLIATI
Nella Milano “crucciosa”1 dell’Italia post unitaria racchiusa tra l’Osteria del Polpetta
e i giardini di palazzo Cicogna, chi volesse dire ed essere qualche cosa di più doveva
passare – secondo quanto scrive Gian Piero Lucini in un saggio intramontabile
di critica integrale – per matto. «I critici misero originale: ma il matto, Carlo Dossi dice,
è quel nome di cui si regala chiunque pensi diversamente di noi, quando ne sembra
un po’ più forte il chiamarlo o bestia, o birbante»2. Con questi panni maudits, irregolari,
disordinati venne rivestito quel microcosmo disorganico e multiforme di
scrittori scapigliati che vollero esprimere un pensiero diverso, dissonante rispetto al
conformismo della nuova compagine nazionale, così lontana dall’immagine ideale coltivata
durante gli anni eroici delle battaglie risorgimentali.
Nei fatti il fortunato binomio disordine-Scapigliatura non rende ragione al movimento
nemmeno limitandolo al significato del nome che lo designa; esso infatti sembra
essere motivato non tanto dall’accezione letteraria che rimanda all’immagine di
una capigliatura “sparpagliata” o a quella figurata di “persona dissoluta”, quanto piuttosto
dalla riconosciuta attinenza con la definizione popolare di “Scapigliata”. Una
sorta di rito nuziale, particolarmente diffuso a Venezia sin dal XV secolo, secondo il
quale i giovani innamorati, per vincere gli ostacoli che si contrapponevano a una relazione
non voluta, solevano strappare in pubblico il copricapo alla fanciulla amata,
in segno di un avvenuto possesso. Il gesto civilmente e socialmente destabilizzante costituiva
un delitto contro il buoncostume e l’ordine sociale3.
A una celata finalità eversiva mira la Presentazione del romanzo Scapigliatura milanese.
Frammenti, pubblicata nel 1857 da Cletto Arrighi sull’«Almanacco del Pungolo
» e poi rifusa nel 1862 come Introduzione alla prima pubblicazione in volume del
romanzo e nuovamente nel 1880 come Prologo alla seconda edizione4.
Quello che è tradizionalmente considerato il primo manifesto del movimento scapigliato
si configura dunque come un proclama sovversivo compilato secondo il registro
del doppio senso a sfondo politico, dove Arrighi torna a incoraggiare – dopo
gli appelli già diramati come giornalista e come romanziere – la cospirazione anti-austriaca,
sollecitando un gruppo di giovani letterati e giornalisti – da lui nominati Sca-
Appunti e note
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pigliatura milanese – a prendere coscienza della loro forza e della loro capacità d’azione5.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità d’individui
d’ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente – fra i venti e i trentacinque anni
non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila
delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e
per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire tra ciò che
hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata
di vivere, e per […] mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà
appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in una
nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano
una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo, personificazione
della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e
di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una
ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto:
la Scapigliatura Milanese6.
Dieci anni dopo Arrighi avrebbe ripetuto una quasi identica descrizione della classe
scapigliata riferendola, in una ormai mutata situazione politica, ai redattori del
«Gazzettino Rosa», il più violento e combattivo giornale della Scapigliatura. La contestazione,
nata con un’impronta risorgimentale, veniva ora ad assumere una connotazione
istituzionale e sociale facendosi carico delle disillusioni verso gli ideali risorgimentali
traditi, del desiderio di rivolta contro l’inerzia di una società sclerotizzata, e
della volontà di combattere una istituzione ormai legalizzata dei soprusi e delle ingiustizie7.
È in questo momento che si rafforza il senso di opposizione all’ordine costituito.
Arrighi oltre a chiarire i termini mutati della contestazione scapigliata post-unitaria,
proclamava con enfasi – accentuata dalla ripetizione anaforica delle interrogazioni retoriche
– la volontà di contestare l’ordinamento politico e amministrativo del neonato
Stato italiano.
Ma, diranno i tuoi avversari, quella era ribellione allo straniero, mentre questa d’oggi è ribellione
continua agli ordini stabiliti.
È vero, rispondete subito. Tutto sta a intendersi sulla parola ordini stabiliti. Se a voi codesti
sembrano ordini e per di più stabiliti, buon pro vi faccia! A noi no!
Vi par ordine l’averci dato il disonore sui campi di battaglia e il discredito nella finanza? vi
par ordine il venir a tassare il sale ed il pane da una parte e a crear nuovi titoli e gingilli dall’altra?
vi par ordine le ruberie, le immoralità, le mangerie, i furti, le fughe di condannati, i
suicidii che il vostro triste governo provoca con ispaventoso crescendo? vi par ordine il lasciar
che gli stabilimenti pubblici e le istituzioni di credito da voi sorvegliate rovinino migliaja
di famiglie senza che si veda un sol processo? vi par ordine questa immonda corruzione
d’ogni cosa che parte dalla cima e si diffonde per mezzo dei fondi segreti sparsi da cinque
diverse mani a travisar ogni cosa nella pubblica stampa? vi par ordine il non incoraggiare,
il non premiare che la bassezza, il servilismo e l’inganno?
5 A.I. Villa, La Scapigliatura milanese. Frammenti (1857) di Cletto Arrighi, manifesto della
Scapigliatura pre-unitaria, in «Otto/Novecento», 17 (1993), p. 26.
6 C. Arrighi, Presentazione a La Scapigliatura milanese, in «Almanacco del Pungolo», 1
(1857), in G. Farinelli, op. cit., p. 211.
7 Cfr. G. Farinelli, op. cit., p. 47.
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Perché eravamo irrequieti sotto gli stranieri? Perché anelavamo a tutto ciò che ci negate.
Diteci ora il modo di non essere irrequieti di nuovo8?
La ripetuta occorrenza del termine ordine, accompagnato da un attributo come
stabilito, quindi deliberato o autorevolmente deciso, sembra ammiccare alla fortuna
che l’uso del sostantivo aveva trovato nella riorganizzazione legislativa approntata dallo
Stato italiano tra il 1861 e il 1870. Il sintagma ordine pubblico viene infatti introdotto
in modo consistente in due importanti corpi normativi della legislazione post-unitaria:
il Codice Civile del 1865 e le indicazioni legislative sulla Pubblica Sicurezza dello
stesso anno9 che ricalcavano la legge del 13 novembre 1859, n. 3720 recependo le
novità dei provvedimenti contro il brigantaggio adottati dalla cosiddetta Legge Pica
(15 agosto 1863 n. 1409), con la quale si era aggiunto il domicilio coatto alle misure
restrittive della libertà individuale fondate sul solo sospetto.
In particolar modo la legge sulla Pubblica Sicurezza10 – che aveva l’intento di vigilare
sull’osservanza delle leggi, di comporre dissidi pubblici e privati, di prevenire i reati
attraverso le così dette misure di prevenzione e di garantire, in sostanza, il mantenimento
di un non meglio definito ordine pubblico11 – finiva per favorire meccanismi disciplinari
e discriminatori a discapito della salvaguardia della libertà personale. Si prevedeva
il controllo sui mendicanti; si istituiva l’ammonizione non solo contro gli oziosi
e i vagabondi, ma anche contro i sospetti o i diffamati; si contemplava che «per gravi
motivi di ordine pubblico» si potesse obbligare chi non desse «contezza di sé» al domicilio
coatto12; si assoggettava al controllo statale anche il diritto di formare adunanze
e assembramenti il cui scioglimento poteva essere dichiarato lecito sempre «nell’interesse
dell’ordine pubblico»13. In nome di questo supremo valore si finiva così impunemente
per soffocare anche la libertà di pensiero e di opinione generando un clima
repressivo di cui avrebbe lasciato sprezzante memoria Carlo Dossi nel suo zibaldone14.
Nel 1870 in Italia si manifestò una recrudescenza di tirannia. – Non c’era regolamento che
non offendesse la legge. Le garanzie pontificie avevano rinfrescato il medioev[a]le diritto
d’asilo. La guardia nazionale – ombra se si vuole per la difesa dei cittadini diritti ma almeno
ombra ossia protesta – s’era disciolta, dinanzi il ridicolo [...] – Volevansi abolire i giura-
8 C. Arrighi, Il diavolo a quattro della stampa milanese, II, Al “Gazzettino Rosa”, in «La Cronaca
Grigia», 21 giugno 1868, in G. Farinelli, op. cit., p. 227.
9 Legge del 20 marzo 1865 n. 2248, allegato B.
10 Giustizia penale e ordine in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Martone, Napoli, Istituto
Orientale di Napoli, 1996, pp. 168-170. In definitiva, la legge di Pubblica Sicurezza del 1865
e i provvedimenti speciali successivi (come la legge del 16 luglio 1871 n. 264, che assoggettò gli
ammoniti alla pena del domicilio coatto in caso di contravvenzione agli obblighi imposti) avevano
costruito un apparato di istituti differenti che, introdotti nel nostro sistema giuridico in forme
provvisorie e in tempi diversi, si erano poi saldati tra loro per offrire all’esecutivo strumenti
in grado di comprimere efficacemente la libertà personale delle classi ritenute pericolose.
11 Il concetto di ordine pubblico restava nei fatti alquanto indefinito, poiché non era chiaro
se con esso ci si dovesse riferire alla mera tranquillità, all’ordine materiale; oppure a un complesso
di principi politici di cui giuridicamente si voleva l’intoccabilità, un ordine ideale.
12 Cfr. G.P. Meucci, La libertà domiciliare in La pubblica sicurezza, a cura di P. Barile, Vicenza,
Neri Pozza, 1967, p. 220.
13 Legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. B, art 26: «Ove occorra di sciogliere una riunione o un
assembramento nell’interesse dell’ordine pubblico, le persone assembrate saranno prima invitate
a sciogliersi dalli ufficiali di p. s.».
14 A. Pace, La libertà di riunione, in La pubblica sicurezza cit., pp. 246-7; cfr. nella stessa poligrafia
E. Cheli, La libertà di associazione e poteri di polizia: profili storici, pp. 275-80.
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ti – fu impedita la stampa dei processi criminali offendendo così alla pubblicità dei giudizi
proclamata dallo Statuto – si punì la bestemmia – sbalzaronsi da un capo all’altro della lunga
penisola i poveri pretori rei di onestà, ledendo così il principio dell’inamovibilità che per
essere pieno deve riflettere non il solo grado, ma la dimora – si accordarono poteri discrezionali
ai prefetti e ai questori etc. etc. E pretesto era sempre l’ordine pubblico! Povero ordine,
come ti si disordinava15!
La paradossale constatazione del disordinato ordine pubblico non è l’isolato prodotto
di un ironico e compiaciuto gioco linguistico, ma un diffuso leitmotiv della pubblicistica
scapigliata degli anni Settanta, preoccupata di denunciare le misure restrittive
e repressive imposte dal nuovo ordinamento statale e al tempo stesso intenzionata
a prendere le distanze da quei comportamenti considerati dalle autorità pubbliche
fonte di pericolo e principio di disordine per la società.
Nella risposta all’articolo dell’Arrighi Il diavolo a quattro della stampa milanese,
pubblicata sul «Gazzettino Rosa» il 21 giugno 1868 a firma di Achille Bizzoni, i redattori
della rivista, pur mostrando di accogliere l’eredità lasciatagli dal padre della Scapigliatura,
avvertivano la necessità di negare l’appartenenza ad una casta che potesse
in qualche modo ricordare il legame con un’associazione segreta («Noi non siamo né
casta, né classe; noi siamo dei giovani che non aspirano a costituire una legione né a
formare un partito»), e soprattutto cercavano di togliersi da dosso ogni minimo riferimento
a una condotta dissoluta, ogni allusione ai modi eccentrici e disordinati del
vivere («Non è né nelle orgie, né nell’ebbrezza che noi attingiamo le idee, che cerchiamo
l’ispirazione»)16.
D’altra parte erano pronti a denunciare, sulla scorta della polemica arrighiana, la
[…] sanguinosa gangrenata piaga di codesta società, la quale vorrebbe convincerci come
un momento di transizione con tutti i suoi non sensi e anomalie sia, possa essere l’apice della
perfezione, l’ideale a cui deve aspirare, la quinta essenza del bello, del grande, dell’onesto17.
Se nel primo manifesto della Scapigliatura Arrighi, pur dichiarando l’opposizione
del movimento agli ordini stabiliti, mostrava di non rifiutare l’accezione letteraria del
termine, definendo gli scapigliati «serbatoio del disordine» e ricordandone la maniera
eccentrica e disordinata del vivere, in accordo con i modelli francesi a cui si era ispirato
e principalmente alle Scènes de la vie de Bohème di Henry Murger18, negli anni
’70, i redattori del «Gazzettino Rosa» – assillati dal poliziesco regime costrittivo del-
15 C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1964, vol. I, p. 407, nota 3784.
16 A. Bizzoni, Due parole alla “Frusta”. Un articolone per la “Cronaca Grigia”, in «Gazzettino
Rosa», 21 giugno 1868, in G. Farinelli, op.cit., pp. 228 e 229.
17 Ivi, p. 229; cfr. A. Bizzoni, Cosa vogliamo, in «Gazzettino Rosa», 2 agosto 1868, in G. Farinelli,
op.cit., p. 233: «Vogliamo che l’amministrazione pubblica si riabbia dal caos in cui giace.
[…] Vogliamo insomma che il bordello cessi; e ritorni l’Italia; e se non vi fu mai si crei».
18 Murger aveva individuato proprio in una sorta di “disordine” costituzionale l’elemento
distintivo dei personaggi del suo romanzo (H. Murger, Scènes de la vie de bohème, Paris, M.
Lévy, 1869, p. 46: «Tels sont les principaux personnages qu’ on verra reparaître dans les petites
histoires dont se compose ce volume, qui n’ est pas un roman, et n’ a d’ autre prétention que
celle indiquée par son titre; car les scènes de la vie de bohème ne sont en effet que des études
de moeurs dont les héros appartiennent à une classe mal jugée jusqu’ ici, et dont le plus grand
défaut est le désordre; et encore peuvent-ils donner pour excuse que ce désordre même est une
nécessité que leur fait la vie».
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la legislazione post-unitaria, che con i numerosi arresti li sottopose a costanti pressioni
limitandone la libertà di parola e di stampa «come nemici dell’ordine di cose costituite
»19 – vollero eliminare quel retaggio letterario che collegava la Scapigliatura alla
vita disordinata, spingendosi a considerare il disordine una condizione esistenziale impropriamente
rimproveratagli dalla gretta mentalità borghese degli uomini seri.
Ricorrono frequenti sul «Gazzettino Rosa» le rinominazioni del binomio oppositivo
ordine/disordine:
Non è vero che il Gazzettino abbia la mania delle demolizioni e che la rossa sua bandiera
sia il vessillo del disordine20.
Si rimprovera alla Scapigliatura il disordine. L’accusa è logica, dal momento che si chiama
ordine il silenzio imposto coll’asfissia”21.
L’umorismo della Bohème è l’operoso disdegno della minoranza contro gli uomini seri, che
appellano disordine il non farsi scimmia22.
La contestazione dello stato costituito e delle sue leggi comporta anche una presa
di coscienza di due linguaggi diversi e tra loro incomunicabili: quello delle frasi fatte
proprio degli uomini seri e quello dei paradossi appartenente agli scapigliati, i veri uomini
onesti.
Ai personaggi usciti dalla penna di Murger, disadattati e contestatori, ma tutto
sommato innocui al mantenimento dell’ordine borghese, la Scapigliatura democratica
sovrapponeva ora i protagonisti di Jules Valles che con i suoi Réfractaires23 aveva
avuto il merito di spingere la ribellione nei confronti del sistema dal piano della teoria
a quello della pratica, creando la figura del refrattario, dello scapigliato cioè che,
dopo aver sognato, cerca ora di realizzare la sua utopia24. I refrattari per i redattori del
«Gazzettino» diventano un modello depurato da qualsiasi elemento che possa ricordare
la vita disordinata del bohème, un modello di contestazione contro l’ordine costituito
che mira però alla fondazione di un nuovo ordine basato sull’onestà, valore
19 Il Perduto N. 833, Consiglio agli amici, in «Gazzettino Rosa», 16 ottobre 1868, in G. Farinelli,
op.cit., p. 234: «Ma perché, Dio buono, dobbiamo continuare ad essere ogni secondo sequestrati?
Perché ogni mese abbiamo ad avere un processo; ad ogni trimestre una condanna?
Perché dobbiamo correre costantemente pericolo di venir mandati a domicilio coatto, come nemici
dell’ordine di cose costituite, di venir arrestati da un carabiniere qualunque».
20 Orso, in «Gazzettino Rosa», 23 novembre 1870, in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura.
Regesto per soggetti dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio
dello stato unitario: 1860-1880, a cura di G. Farinelli, Milano, Istituto Propaganda Libraria,
1984, p. 517.
21 [Pessimista], Divagazioni del Pessimista, in «Gazzettino Rosa», 11 febbraio 1870, in La
pubblicistica nel periodo della Scapigliatura cit., p. 513.
22 Stoico [F. Cameroni], SÌ! Siamo la Bohème della stampa, in «Gazzettino Rosa», 14 novembre
1873, in G. Farinelli, op.cit., pp. 250-1. Stoico [Felice Camerini]
23 Pubblicato nel 1865 e poi diffuso a puntate in Italia proprio dal «Gazzettino Rosa» all’indomani
della Comune di Parigi.
24 «L’accento della passione, le grida di dolore e d’imprecazione, l’evidenza stereoscopica
dei tipi tratteggiati ne I refrattari, le osservazioni, ora profonde ora minute, su quell’immensa
anarchia, che i gaudenti ed i privilegiati appellano ordine sociale, quale prezioso patrimonio di
rivendicazione crearono, chi sa quante braccia armarono nella lotta della democrazia contro la
reazione, del progresso contro l’immobilità e del diritto contro il privilegio dal marzo al maggio
71!» L’appendicista [F. Cameroni], Le biografie dei vinti: Jules Vallès. I refrattari, in «Gazzettino
Rosa», 8 e 9 gennaio 1872, in G. Farinelli, op.cit., pp. 246-7.
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che sempre su esempio dell’opera di Valles25 diventa il vessillo degli scapigliati democratici.
Come un attentato all’ordine si presenta anche il corso del fiume Strona agli occhi
desiderosi di raccoglimento di Emilio, nel romanzo incompiuto di Praga Memorie del
Presbiterio:
Scendevo così lentamente lungo le rive dello Strona, che mi affretto a presentarvi (cosa che
avrei dovuto far prima), come il torrente più realista ed indocile alla moralità idrografica
ch’io mi conosca. Figuratevi che egli non vuol saperne neppure per un minuto di quella linea
retta, di quella misura costante che la convenienza dovrebbe insegnare anche ai torrenti
per trasformarli, se Dio vuole, inquieti rigagnoli, in pingui ed onesti canali. Dimentico dei
suoi doveri, del grande scopo della creazione che è quello di impinguare le tasche del negoziante
di grano e di bestiame, sta asciutto la maggior parte dell’anno; poi, ad un tratto,
quando il ghiribizzo gli salta, devasta pascoli e distrugge vigneti, cosa contraria all’economia
politica; abbatte baite e casolari, attentato iniquo, come ognun vede, all’ordine a alla sacra
prosperità della famiglia.
E il monello fa l’arte per l’arte scende a balzelloni, rotolando massi dalla vetta di Cornalina,
gitta sprazzi al sole per trame delle iridi cangianti. Si butta nei precipizi, si nasconde fra
i cespugli, scompare nelle buche del monte, poi salta fuori a sproposito per tagliare il sentiero
montanino, – e s’adagia fra l’erbe, e folleggia e spumeggia e si inebria di libertà e di licenza
– con una sicurezza come facesse la cosa più seria del mondo. Così non è buono a
nulla, né a far girare una ruota di mulino né ad irrigare un pascolo, nulla!... malgrado tutti
i tentativi fatti dai buoni padri coscritti di Zugliano e di Sulzena e persino dall’illustrissimo
Consiglio provinciale di Novara per correggerlo e trarne qualche costrutto. Tanta è la sua
impertinenza, che se poteste intenderlo, vi direbbe che Dio l’ha fatto a quel modo e che vuol
tirar innanzi in quella bizzarra sua maniera, – tutte cose che dicono gli scapestrati26.
La non celata metafora – che sembra tra l’altro ammiccare al cadenzato ritmo di
golfi e seni in cui si distende il ben più proficuo percorso dell’Adda di manzoniana
memoria – esibisce non solo la scelta di una esistenza irregolare, difficilmente riconducibile
nei pacificanti confini della consuetudine borghese, quanto soprattutto una
precisa vocazione estetica27 alla casuale raccolta «di impressioni di scene e di fatti, sensazioni
di luoghi e di persone» volutamente indifferente all’ «utile per iscopo»28.
25 A proposito degli irregolari di Parigi si dice che sono tutti «honnêts hommes»; sulla lapide
di Gustave Planché, considerato un refrattario illustre, si legge «Ci-gît un grand honnêt homme
»; G. Vallès, Les réfractaires, Paris, G. Charpentier, 1881, p. 141.
26 E. Praga, R. Sacchetti, op. cit., pp. 110-1.
27 In uno dei primi capitoli del romanzo, dopo aver annunciato un aneddoto «affatto estraneo
al soggetto», Praga stesso dichiarava: «io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col
suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose
che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni
di luoghi e di persone in cui mi sono scontrato e che, per un mero effetto del caso, convergeranno,
se mi si presta attenzione, a far cornice utile se non anche necessaria al soggetto doloroso
che è la ragione di essere di questo studio». (E. Praga, R. Sacchetti, op. cit., p. 25). Praga
si proponeva così la corrosione delle coordinate romanzesche a vantaggio di una giustapposizione
di scene e di racconti da contrapporre alla linearità della storia principale, cfr. L. Bolzoni,
Innovazioni e limiti di Emilio Praga, in L. Bolzoni, M. Tedeschi, Dalla scapigliatura al verismo,
Roma-Bari, Laterza, 2ªed., 1990, pp. 36-9.
28 Come voleva la nota dichiarazione manzoniana: «la letteratura in genere debba proporsi
l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo», A. Manzoni, lettera a Cesare
Taparelli D’Azeglio, in Lettere sui Promessi sposi, a cura di G.G. Amoretti, Milano, Garzanti,
1985, p. 65; per l’influenza manzoniana si rimanda al fondamentale volume Il «Vegliardo» e gli
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Attraverso un’immagine figurata Praga riproponeva quel principio di autonomia
dell’arte annunciato qualche anno prima da Arrigo Boito nella Polemica letteraria,
pubblicata su le «Figaro» il 4 febbraio 186429, e ribadiva con esso la predilezione per
il realismo, sottratto a vincoli di pregiudiziali moralistiche.
Un realismo che non puntava alla rappresentazione fedele della realtà, ma in quanto
«arte di barocchismo» era orientato semmai alla finzione, come del resto ribadiva
lo stesso Boito nel noto prologo a Ballatela:
Noi scapigliati romantici in ira, alle regolari leggi del Bello, prediligiamo i Quasimodi nelle
nostre fantasticherie; ecco la causa del mio ritornello. Se vuoi sapere anche lo scopo, ti
dirò che non è filosofico, né politico, né religioso; ho voluto semplicemente esercitarmi nella
scabrosa rima in iccio30.
Liquidato l’ordine della normativa classicheggiante – «le regolari leggi del Bello»,
– la Presentazione della Ballatella esibiva il nome di Quasimodo, l’anti-eroe victorughiano
di Notre-Dame de Paris, per alludere subito a un clima e a un gusto dominati
dal deforme, dal macabro, dal terrificante, e rivolto allo stupefacente e alla meraviglia
barocca recuperandone in funzione antiromantica i principi già a suo tempo avanzati
dal barocco contro il Rinascimento31.
Contro il romanticismo «ragionevole, ordinato e generale» proclamato da Manzoni
nella Lettera al D’Azeglio – quel Manzoni definito da Felice Cameroni in questi stessi
anni e proprio in antitesi a Victor Hugo, seppur in una prospettiva essenzialmente
politica, «poeta dell’autorità e dell’ordine»32 – gli scapigliati scelgono così di recuperare
il romanticismo d’oltralpe liquidato dall’autore dei Promessi Sposi come «un non
so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca dello
stravagante, una abiura in termini del senso comune, un romanticismo insomma che
si è avuto molta ragione di rifiutare e di dimenticare»33. Un recupero tanto più significativo
perché vale a contrapporsi alla cultura egemone del periodo: il positivismo
con la sua fiducia in una ordinata e scientifica lettura del mondo.
Risulta allora essere particolarmente significativa la presenza del termine ordine
proprio in quelle prose letterarie che, non disdegnando il “guazzabuglio di streghe e
di spettri”, prediligono i motivi trasgressivi e illustrano una realtà dai lati indecifrabi-
«Antecristi». Studi su Manzoni e la Scapigliatura, a cura di R. Negri, Milano, Vita e Pensiero, 1978
(in particolare il saggio di L. Granatella, Emilio Praga da «Preludio» a «Manzoni», pp. 79-103).
29 In A. Boito, Opere letterarie, a cura di A. I. Villa, Milano, Edizioni Otto/Novecento, 2001,
pp. 327-30.
30 A. Boito, Buon anno. Ballatella, in «Cronaca Grigia», 1° gennaio 1865.
31 Cfr. A.I. Villa, Lo scapigliato Arrigo Boito in A. Boito, op. cit., p. 11.
32 Atta-Troll [F. Cameroni], rec. a V. Hugo, L’année terribile. Poema 1871, in «Gazzettino
Rosa» 29 giugno 1972, in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura cit., p. 530-1: «Per Victor
Hugo l’arte ha una missione ben più alta, quella di diffondere il vero, di propugnare la giustizia,
di preparare l’avvenire. E qui sta la grave differenza tra la letteratura monarchica e la repubblicana,
tra l’arte per l’arte e l’arte civilizzatrice, tra Manzoni e Hugo. Il poeta del cattolicesimo,
dell’ordine, dell’autorità, mimò colla precisione di una lente fotografica gli orrori d’un
popolo soggetto alla schiavitù politica e religiosa, ma, non osando innalzare un grido di rivolta,
fece dell’arte un semplice diletto […] o quel ch’è peggio […] una propaganda di rassegnazione.
Hugo invece, il poeta del progresso sociale, strappa ai francesi una lagrima sulle miserie
della patria invasa, ma li eccita alla resistenza, ed al vincitore, in nome della forza, getta in volto
la minaccia della riscossa in nome del diritto».
33 A. Manzoni, lettera a Cesare Taparelli D’Azeglio, cit., p. 68.
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li ed enigmatici. Ci riferiamo principalmente ad alcuni dei racconti elaborati da Igino
Ugo Tarchetti tra il 1866 e il 1867 e pubblicati in appendice al «Pungolo» tra il 19 e
20 settembre 1867, quindi in volume, postumi, nel 1869 con titolo Racconti fantastici.
In ognuno di essi la presenza del vocabolo ordine o di un suo derivato verbale s’insinua
nella trama narrativa a indicare un momento di rottura, di svolta nella lettura
usuale e ordinaria del reale, di passaggio tra la dimensione del quotidiano a quella dell’inesplicabile
e del perturbante. In questa particolare condizione, nota col nome di
“effetto soglia”, si insinua l’incredulità che altro non è che la resistenza dell’ordine costituito
al possibile disordine indotto o da un nuovo ordine che si fa strada o dall’inatteso
riaffacciarsi di un ordine antico che si credeva superato per sempre34.
Il giovane barone di B., protagonista ingenuamente felice di uno Spirito in un lampone,
durante una battuta di caccia infruttuosa, stanco e assetato, assapora le coccole
di una rigogliosa pianta di lamponi inghiottendo con esse, ignaro, lo spirito di una fanciulla
assassinata:
Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso è... E che cosa sono questi
strani desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione
e di duplicità che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo?... Vediamo, riordiniamo
le nostre idee... Le nostre idee! Sì, perfettamente... perché sento che queste idee non sono
tutte mie. Però... è presto detto riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa
che si è disorganizzato, cioè... dirò meglio... che si è organizzato diversamente da prima...
qualche cosa di superfluo, di esuberante; una cosa che vuol farsi posto nella testa, che non
fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai penoso le pareti del cranio … Parmi di essere
un uomo doppio. Un uomo doppio! Che stranezza! E pure... sì, senza dubbio... capisco
in questo momento come si possa essere un uomo doppio35.
In un osso di morto, l’io narrante di un apprendista disegnatore confida nell’alcool
per rifuggire il timore della visita del defunto Pietro Mariani, risoluto a recuperare la
rotula del ginocchio sottratta al suo scheletro dall’artista:
E cacciatomi in un angolo d’una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino
che bevetti con avidità, benché repugnante per abitudine all’abuso di quel liquore. Ottenni
l’effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva sensibilmente,
i miei pensieri si dilucidavano, le mie idee parevano riordinarsi, quantunque con un
disordine nuovo36.
Infine nella riflessione introduttiva con cui il narratore anticipa le vicende de Le
leggende del castello nero – che è poi, a mio avviso, una risoluta dissacrazione delle opinioni
sulla natura dell’esistenza espresse dal celebre fisiologo Claude Bernard e con
esse di una delle certezze più salde della cultura dominante37 – si osserva a proposito
del labile confine che separa la vita dalla morte:
34 Cfr. L. Luciani, Verità e disordine, in La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp.
195-96.
35 I.U. Tarchetti, Uno spirito in un lampone, in Idem, Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti,
Rocca San Casciano, Capelli, vol. II, p. 76.
36 I.U. Tarchetti, Un osso di morto, in Idem, Tutte le opere cit., p. 69.
37 Ci si riferisce principalmente alle osservazioni sulla commistione tra vita e morte: «Io sento,
e non saprei esprimere in qual guisa, che la mia vita – o ciò che noi chiamiamo propriamente
con questo nome – non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello
della mia morte: Io sento colla stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento
la vita dell’istante, benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile. E
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Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una
vita a parte, un’esistenza distaccata dall’esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello
stato? chi lo sa dire? Gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno non sarebbero
essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria
confusa di quegli avvenimenti? [...] Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine
diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la
coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo,
che rivediamo ogni giorno. Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce d’un’altra38.
La scelta del racconto fantastico risponde pertanto alla volontà di una diversa lettura
dell’esistenza, inconciliabile col grande codice del sapere dominante. Esso rompe
l’illusione positivistica che l’uomo possa detenere la verità e insinua nella conoscenza
il dubbio e l’incertezza.
Questo valore eversivo dell’elemento fantastico e il suo rapporto con l’ordine –
ben chiarito in tempi recenti da Roger Caillois che nel suo Au coeur du fantastique definisce
il fantastico una «rottura dell’ordine riconosciuto, [una] irruzione dell’inammissibile
all’interno dell’inalterabile legalità quotidiana»39 – era gia noto agli scrittori
francesi di primo Ottocento a cui si era ispirata la Scapigliatura milanese.
Ne La morte amourese, uno dei racconti fantastici più noti di Théophile Gautier –
autore più volte ricordato tra le fonti di Tarchetti che a Le pied de momie si era ispirato
per Un osso di morto e a La jettatura per I Fatali – la diabolica bellezza della cortigiana
Clarimonda introduce a una nuova dimensione, a un nuovo ordine, il giovane
Romualdo colto nell’atto di consacrarsi ai voti religiosi.
A mesure que je la regardais, je sentais s’ouvrir dans moi des portes qui jusqu’alors avaient
été fermées; des soupiraux obstrués se débouchaient dans tous les sens et laissaient entrevoir
des perspectives inconnues; la vie m’apparaissait sous un aspect tout autre; je venais de
naître à un nouvel ordre d’idées40.
Ma è poi Charles Nodier – uno dei maestri riconosciuti della Boheme e autore nel
1830 di una prima riflessione critica sulla letteratura fantastica – che definisce l’“irreale”
uno strumento in grado di rivelare all’uomo materialista un nuovo ordine.
d’altra parte come sentiamo noi di vivere nell’istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non
si ha coscienza dell’esistere – e nondimeno si vive. Questa coscienza dell’esistere può non essere
circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere
in noi due vite – è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche – l’una
essenziale, continuata, imperitura forse; l’altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno
ripetuti: l’una è l’essenza l’altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel mondo? La vita
muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non muore: tutto vive nel mondo». I.U. Targhetti,
Le leggende del castello nero, in Idem, Tutte le opere cit., pp. 43-4. Tale pensiero non può
non presentarsi come una decisa opposizione alla netta contrapposizione tra vita e morte
espressa da Pasquale Villari attraverso le parole del professor Bernard: «Noi lasceremo parlare
l’illustre professore Bernard, uno di coloro appunto, che più hanno contribuito e contribuiscono
a questo progresso della Fisiologia. Ecco in qual modo egli, presso a poco, discorre: Non si
tratta oggi di sapere cosa sia la vita; noi non lo sappiamo e forse non potremo mai saperlo. Di
tutte le definizioni della vita, la sola che possa accettarsi senza proteste, è questa: la vita è il contrario
della morte», P. Villari, La filosofia positiva e il metodo storico, in «Il Politecnico», serie
IV, 1 (1866), pp. 12-3.
38 I.U. Tarchetti, Le leggende del castello nero, in Idem, Tutte le opere cit., p. 44.
39 R. Caillois, Au coeur du fantastique, Paris, Gallimard, 1965; trad. it. Nel cuore del fantastico,
con una postfazione di G. Almansi, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 90-2.
40 T. Gautier, La morte amoreuse, in Idem, Contes fantastiques, Paris, J. Corti, 1986, p. 83.
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Nel dialogo di quella Espèce d’Introduction che precede la Fèe aux miettes si parla
dei lunatiques come coloro che, pur essendo considerati dall’uomo comune incapaci
di comprendere la realtà, possiedono idee non prive di senso e di lucidità perché
esse appartengono ad un ordine di sensazioni e di ragionamenti diversi e inaccessibili
alla nostra educazione e alla nostra conoscenza41.
La scelta del racconto fantastico assume pertanto lo scopo di illustrare e proporre
una lettura alternativa della realtà non meno vera di quella imposta dal sapere scientifico.
È ancora Tarchetti che per voce di Eugenio – ossessionato dalla perdita di una
gamba «che gli leva il sonno e che gli fa perdere la fiducia nell’ottimistico determinismo
positivista»42 – comunica al lettore gli effetti al contempo sociali e letterari del
racconto fantastico:
Giacché vi siete dato al mestiere delle lettere – aggiunse contraendo le labbra ad un sorriso
violento, – vi fornirò il soggetto di un racconto abbastanza curioso, l’occasione di uno
studio analitico che darà una diversione piacevole all’ordine monotono delle vostre idee. I
rapporti della patologia animale colla clinica psicologica non furono ancora investigati, o lo
furono superficialmente. Voi afferrerete in me il segreto di un fenomeno strano, di un fenomeno
spaventoso. Lo studierete e lo scriverete43.
L’ordine imposto dall’analisi scientifica della realtà viene pertanto avvertito come
insufficiente a spiegare i fenomeni strani e con essi l’intera dimensione vissuta dall’uomo
che d’altra parte sembra poter essere diversamente indagata attraverso gli strumenti
offerti dalla stessa letteratura.
Sul rapporto tra ordine/disordine e racconto fantastico torna anche una delle novelle
più note e commentate44 della produzione scapigliata: l’Alfier nero di Arrigo Boito45.
Due giocatori uno bianco americano, uno nero giamaicano46 si affrontano davanti
a una scacchiera contrapponendo due tecniche diverse d’azione.
41 «-J’y arrivais, Daniel. Les lunatiques, dont tu parles, occuperaient selon moi le degré le
plus élevé de l’échelle qui sépare notre planète de son satellite, et comme ils communiquent nécessairement
de ce degré avec les intelligences d’un monde qui ne nous est pas connu, il est assez
naturel que nous ne les entendions point, et il est absurde d’en conclure que leurs idées manquent
de sens et de lucidité, parce qu’elles appartiennent à un ordre de sensations et de raisonnements
qui est tout à fait inaccessible à notre éducation et à nos habitudes. As-tu jamais vu,
Daniel, des sauvages Esquimaux?», C. Nodier, La fée au miettes, in Idem, Contes fantastiques,
Paris, Charpentier, 1882, pp.82-3.
42 G. Farinelli, op. cit., p. 135.
43 I.U. Tarchetti, Storia di una gamba, in Idem, Tutte le opere cit., p. 189.
44 Cfr. P. Nardi, Introduzione a A. Boito, Tutti gli scritti, Milano, Mondatori, 1942, p. XVII;
G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1971?, pp. 338-9.
45 Nato anch’esso in un clima di esplicita distanza rispetto ai canoni positivistici L’Alfier nero
viene pubblicato nel marzo del 1867 sul «Politecnico» dove nel gennaio dell’anno precedente
era stato edito il citato saggio di Pasquale Villari La filosofia positiva e il metodo storico.
46 Il bianco Giorgio Anderssen che riproduce i tratti di due dei più celebri scacchisti del
tempo: il tedesco Adolph Anderssen e l’americano Paul Morphy, e il nero Tom che, al di là dell’ominimia
con il protagonista del romanzo di H.E. Beecher-Stowe, richiama Gorge William
Gordon, ricco mulatto giamaicano impiccato con l’accusa di aver ispirato la sommossa degli
schiavi neri scoppiata il 23 ottobre 1865 nella colonia inglese di Morant Bay; evento, che come
è noto, concorre allo svolgimento della partita di scacchi. Una documentata ricostruzione del
fondamento storico del racconto si deve alla lettura critica di G. Gronda, Testo dietetico o testo
simbolico? L’Alfier nero: un “pezzo segnato” in piu sensi, in Teoria e analisi del testo. Atti del
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La marcia dell’Americano era trionfale e simmetrica, rassomigliava alle prime evoluzioni
d’una grande armata che entra in una grande battaglia; l’ordine, quel primo elemento della
forza, reggeva tutto il giuoco dei bianchi. I cavalli, che dagli antichi erano chiamati i “piedi
degli scacchi”, occupavano uno l’estrema destra, l’altro l’estrema sinistra; due pedoni erano
andati a ingrossare da una e dall’altra parte l’avamposto segnato dalla pedina del re; la
regina minacciava da un lato, l’alfiere di re dall’altro lato, e il secondo alfiere teneva il centro
davanti due passi del re e dietro le pedine. La posizione dei bianchi era più che simmetrica:
era geometrica; l’individuo che disponeva così quei pezzi d’avorio, non giocava a un
giuoco, meditava una scienza; la sua mano piombava sicura, infallibile sullo scacco, percorreva
il diagramma, poi s’arrestava al posto voluto colla calma del matematico che stende un
problema sulla lavagna. La posizione dei bianchi offendeva tutto e difendeva tutto; era formidabile
in ciò che circoscriveva l’inimico a un ristrettissimo campo d’azione e, per così dire,
lo soffocava. Immaginatevi una parete animata che s’avanzi e pensate che i neri erano
schiacciati fra la sponda della scacchiera e questa parete, poderosa, incrollabile.
A volte pare che anche le cose inanimate prendano gli atteggiamenti dell’uomo, il più frivolo
oggetto può diventare espressivo a seconda di ciò che lo attornia. Ecco perché i pezzi
d’ebano de’ quali componevasi l’armata dei neri parevano, davanti allo spaventoso assalto
dei bianchi, colti anch’essi da un tragico sgomento. I cavalli, come adombrati, voltavano la
schiena all’attacco, le pedine sgominate avevano perduto l’allineamento, il re che s’era affrettato
a roccarsi, pareva piangere nel suo cantuccio il disonore della sua fuga. La mano di
Tom, fosca come la notte, errava tremando sulla scacchiera.
Questo era l’aspetto della partita veduto dal lato dell’Americano. Mutiamo campo. Veduto
dal lato del negro l’aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell’ordine sviluppato
dall’apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine;
mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni
sua forza nell’equilibrio dell’offesa e della difesa, questi aumentava a ogni passo il proprio
squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa diventava esso pure, in faccia allo
schieramento de’ bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta
contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile
del bianco s’avanzava, il projettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi
uno a fronte dell’altro; non mancava né un solo pezzo, né una sola pedina, e codesta
riserva d’ambe le parti era feroce. L’Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione
del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto
per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo
assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua nativa tattica
di schiavo, tutta l’astuzia dell’etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine
era fatto ad arte per nascondere l’agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico,
i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno,
quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L’alfiere che Tom aveva
collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto
[…]. Al vasto e armonioso concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea
fissa: l’alfiere segnato; all’ubiquità ordinata delle forze dei bianchi, i neri opponevano la loro
farraginosa unità, al giuoco aperto e sano il giuoco nascosto e maniaco47.
Anderssen inizialmente cerca di razionalizzare i movimenti dell’avversario riconducendoli
all’ordine delle sue regole. Il nero sposta dalla sua destra alla sua sinistra una
candela rimasta accesa sul tavolo e il bianco interpreta quella dislocazione come la pedissequa
esecuzione dei principi enunciati dal giocatore spagnolo Luis Raminez de Lucena.
Il nero non prende la pedina dell’avversario e il bianco ritiene che egli segua il sistema
enunciato da Philidor nel suo Analyse du jeu des échecs. Ma di fronte all’imposv
convegno interuniversitario di studi (Bressanone, 1977), a cura di D. Golden, premessa di G.
Folena, Padova, Cleup, 1981, pp. 95-119.
47 A. Boito, L’Alfier nero, in Idem, Opere letterarie, cit., pp. 172-4.
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sibilità di ricondurre la tecnica avversaria a uno schema conosciuto il bianco legge i movimenti
del nero come una confusione inetta. In realtà il disordine dell’azione di Tom
è un disordine studiato fatto di regole e di codici diversi: «quello squilibrio aveva un
perno, quella ribellione aveva un capo quel vaneggiamento un concetto».
Ancora una volta ciò che appare disordine agli occhi del moderno uomo occidentale
è in realtà un ordine diverso, dominato non da un calcolo razionale, ma da un elemento
imponderabile, da un’ossessione, dall’idea fissa, l’alfiere nero che sembra ipnotizzare
Tom e anche Anderssen decretandone la sconfitta. Per quanto “nascosto”,
“maniaco” apparentemente disordinato, il gioco del negro risponde a una precisa strategia
che conduce alla vittoria; analogamente con simmetrico rovesciamento la scientifica
e calcolata azione di Anderssen, frutto di una esibita razionalità, sfocia nella più
istintuale violenza brutale dell’omicidio e della pazzia.
I sistemi dell’ordine e del disordine finiscono così per sovrapporsi e confondersi.
D’altra parte in questo racconto la presenza dell’ordine tocca anche l’aspetto diegetico
della narrazione che, come ha evidenziato Giovanna Gronda in una acuta analisi
del testo48, è regolata da un estremo rigore geometrico, basato su un sistema di parallelismi,
simmetrie e antitesi dove la narrazione apparentemente spinta da un ignoto
meccanismo casuale è in realtà retta da un sovrano gusto della misura e dell’ordine.
Rispetto alla impenetrabile scorza del reale dove ordine e disordine si sovrappongono
privi di nitidi confini la scrittura, con il suo ordine rigoroso, sembra nuovamente
volersi proporre come un sistema di lettura ordinata e alternativa del reale.
L’ordine della scrittura ritorna ad essere uno degli elementi dominanti della produzione
di una della personalità più indipendenti e affascinanti della Milano di secondo
Ottocento Carlo Alberto Pisani Dossi.
Proprio Carlo Dossi – il più lombrosiano del gruppo milanese, convinto assertore
della massima nullum ingenium sine mistura dementiae, con cui giustificava la serie di
tabelle cliniche in cui andava registrando i sintomi di una presunta malattia degenerativa
– smentiva radicalmente il legame tra disordine e genialità esposto da Lombroso
in appendice al volume Genio e follia49, dichiarando in una nota azzurra:
In certo qual modo il genio sarebbe il perfetto ordine. Le idee sono di tutti: chi le sa più logicamente
ordinare, quello ha maggiore ingegno degli altri. Chi le ordina in modo sia per
la parola, sia per la frase, da non potersi meglio – quello ha genio50.
Colui, che più di tutti gli altri scapigliati aveva scelto di concentrare la forza della
sua eversione nella scrittura esibendone i contorni sfumati e i preziosismi lambiccati
contro l’ordine costituito delle patrie lettere e principalmente contro la prosa postmanzoniana,
era pronto a riconoscere in quella «posciandra di parole e di frasi d’ogni
fatta» – con cui aveva inzeppato, nero su bianco, i fogli dei suoi libri – un ordine diverso
e perfetto.
Emanuela Bufacchi
48 G. Gronda, op. cit., pp. 97-100.
49 Cfr. C. Lombroso, Genio e follia, Milano, Hoepli, 1877, app. IV.
50 C. Dossi, op. cit., vol. 1, p. 345, nota n. 3527.
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