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Musica e identità italiana*
di Giuseppe Galasso

A mia figlia
Giulia,
per il suo amore alle arti e alla musica




I. Musica e identità. L’identità italiana

A ben vedere, nella tradizione storiografica il ruolo della musica nella costruzione dell’identità nazionale italiana non ha ricevuto il luogo che merita. Che se ne debba vedere la ragione in uno scarso sviluppo degli studi storico-musicali è difficile pensare. Non meno difficile è pensare che la ragione ne sia da vedere in una deficiente percezione storica dell’ufficio della musica nel più generale contesto civile e culturale. Vero è che una convinzione molto diffusa – anzi, a ben vedere, la più diffusa in materia – lo farebbe pensare, e non solo per la musica, bensì anche per le arti figurative. «L’identità culturale italiana – è stato scritto, ad esempio – è fatta anche di opere d’arte figurative e musicali. Tuttavia, almeno in epoca moderna, la musica e le arti figurative italiane eccedono i limiti di un canone nazionale. Ben si giustifica per esse l’espressione “patrimonio dell’umanità”». Con questo criterio gli italiani Leonardo Michelangelo Palladio Vivaldi Rossini etc. etc. «sono italiani», e «la loro arte è “italiana”, ma non ha un carattere nazionale, bensì europeo»; e, mentre «i linguaggi delle arti figurative sono “translinguistici” [e così crediamo si voglia presumere, con lo stesso criterio, per i linguaggi della musica], invece le lingua imprime alla letteratura un carattere “nazionale”». E, perciò, si suppone che solo se supera «le barriere linguistiche» con le traduzioni o con la conoscenza di altre lingue, «anche la letteratura sfugge a una calibratura soltanto nazionale»1. Un criterio invero peregrino che privilegia esclusivamente la lingua parlata e scritta come elemento di identità nazionale (e sociale!), e che sul piano di tale identità condanna a una connaturata inferiorità rappresentativa e, insieme, esalta per superiorità comunicativa i linguaggi delle arti figurative e della musica.
Omettiamo qui i più che rilevanti argomenti di natura teorica e concettuale che a un tale criterio non permettono di consentire, e ci limitiamo semplicemente a richiamare il rilievo dell’ufficio della musica quale elemento di identità etnica, nazionale, sociale che risalta in generale, e nel modo più vivo e spontaneo, in ogni ambito storico, antico e moderno, europeo ed extra-europeo. Può darsi allora – appare da chiedersi – che la ragione dell’assai scarsa attenzione alla parte della musica nel processo di identificazione dell’italianità di cui si tratta vada vista nel particolare svolgimento che il contributo musicale all’identità nazionale presenta nel suo corso rispetto all’insieme del processo di formazione di tale identità?
Si tenga presente, intanto: 1) che una identità italiana inizia a delinearsi dopo il Mille, più o meno parallelamente e contemporaneamente a quanto accade per altre nazioni europee; 2) che, quando si parla di tali nazioni, non bisogna pensare subito e soltanto a quelle che hanno poi trovato espressione e sistemazione negli Stati nazionali europei del XIX e XX secolo; 3) che alcune nazioni si cominciarono a delineare allo stesso momento di altre, ma il corso della loro storia le portò poi a dissolversi o a confluire nell’alveo di altre storie nazionali o a configurarsi come elementi o componenti di altre nazioni o ad ancora altri destini; 4) che i secoli fra il X e il XIV sono indubbiamente quelli in cui appare più intensa e vivace la dialettica in cui si configurano in Europa nuove realtà o potenzialità nazionali, ma questa dialettica non fu solo di quei secoli, né si esaurì in essi; 5) che chiaramente è riconoscibile nell’Europa avanti il Mille un lungo processo di avvio dei posteriori svolgimenti nazionali, che inizia sulle ceneri dell’Occidente romano-imperiale e prosegue nel quadro imperiale carolingio e intorno ad esso; 6) che gli svolgimenti nazionali sono fenomeni complessi che si delineano su molti piani, da quello etnico e culturale a quello politico e istituzionale, e che non sempre presentano una effettiva sussistenza e una sostanziale simultaneità di tutti i molteplici e disparati elementi, di cui quegli svolgimenti si alimentano; 7) che di questi stessi svolgimenti non può essere indicato un modello esemplare, una tipologia normativa, rispetto a cui possano di conseguenza essere indicati come anormali, atipici, anomali, irregolari quei processi che sembrino non corrispondere alla presunta norma; 8) che la grande varietà e molteplicità degli svolgimenti, per cui ciascuno di essi fa storia a sé e presenta una sua specificità, individualità e irriducibilità, non significa, d’altra parte, che non vi sia quella sostanziale comunanza di caratteri essenziali, per cui quegli svolgimenti vengono definiti come nazionali; 9) che i caratteri comuni e, quindi, costitutivi degli svolgimenti nazionali non sono individuabili con un'operazione logica di semplice estrapolazione, induzione e deduzione comparativa o statistica o di simile ordine; 10) che tali problemi sono, invece, da riportare a un nucleo profondo di problemi storici, da cui è segnata in aspetti essenziali ed eminenti non solo la traccia, bensì anche il senso della storia europea2.



II. Parallelismo fra tradizione letteraria e musica

È a queste linee di fondo che il problema dell’identità italiana va ricondotto anche per quanto riguarda la musica.
Singolare è, intanto, un certo parallelismo che si può osservare tra lo sviluppo della tradizione letteraria e quello della musica dell’Italia dopo il Mille.
È nota la vecchia questione del “ritardo letterario”, ed è noto pure quanto nei suoi esordi la lirica italiana sia andata a rimorchio di quella provenzale e ne abbia seguito la falsariga, imitandone le forme e i motivi. Gli storici della musica fanno sostanzialmente altrettanto. Una notazione statistica colpisce. In Italia – nota il Testi – di circa 270 melodie di trovatori e circa 1.700 di trovieri nessuna è di trovatori italiani3. A sua volta, dimostrando la più apprezzabile prudenza critica, il Confalonieri parla di un’influenza trovadorica in Italia esercitatasi molto di più sulla poesia che sulla musica, sulla quale, tra l’altro, nulla in effetti è consentito di dire data l’insufficienza della documentazione a cui ci si può rifare4. Il “divorzio” (termine di Gianfranco Contini) tra musica e poesia nel Duecento italiano ha costituito addirittura il tema di tutta una corrente interpretativa del rapporto fra le due discipline nella tradizione italiana delle origini, delineatasi con Vincenzo De Bartholomaeis fin dagli inizi del secolo XX.
In seguito, la fondatezza di questa interpretazione è stata messa in discussione. Sono state addotte a questo scopo argomentazioni di vario peso, a cominciare dalla considerazione che nell’Europa romanza la poesia lirica è una poesia per musica. Parallela è la considerazione che nel corso del tempo il rapporto tra la produzione poetica e la sua versione musicale appare in mutamento col passaggio progressivo, da un lato, a una specializzazione distinta negli autori, rispettivamente, della poesia e della musica e, d’altro lato, proprio come elemento differenziante del caso italiano, a una pur essa progressiva e crescente autonomia e trascendenza del momento musicale rispetto alla base poetica sulla quale esso nasce. Poi il ritrovamento di altri testi e una molteplice revisione critica dei dati cronologici e testuali in questione hanno indotto ad addolcire in varia maniera e in varia misura la tesi del “divorzio”, senza, però, che appaia possibile – ci sembra – pensare a un ribaltamento totale di quella tesi e a un’altrettanto totale parificazione della condizione italiana a quella dei paesi transalpini, o, meglio, a quella dei paesi d’oc e d’oil5.
Facile, e fin troppo praticato e abusato, è il riferimento alla condizione politico-sociale del paese per spiegare la scarsa iniziativa trovatorica italiana alle origini e nei primi sviluppi della letteratura nazionale. In Italia – si dice – il mondo feudale fu ben presto sconvolto e soppiantato dal movimento e dagli ordinamenti comunali; e il mondo feudale franco-provenzale fu, per l’appunto, quello in cui allignò e maturò alle maggiori espressioni la poesia trovatorica. Terreno politico-sociale, dunque, non idoneo, quello italiano, al fiorire di trovatori e trovieri. Tesi discutibile in sé, ma resa ancor più discutibile dal fatto che proprio in un ambiente sicuramente non comunale – la corte di Federico II – si ritrovi la prima “scuola” poetica, la prima cospicua manifestazione della lirica italiana in volgare, mentre solo in un secondo momento sedi comunali (Bologna, Firenze…) diventano protagoniste di questo risvolto della nascente tradizione letteraria italiana. Ben più fondato, invece, è il riferimento a elementi di cultura e di storia della cultura.
Nel rilevare «il carattere fondamentalmente “colto” della poesia trovatorica», Salvatore Battaglia notava che «essa presuppone, dunque, un ambiente culturale, e non solo come qualsiasi fenomeno d’arte, che può germogliare soltanto in un terreno già diventato fertile e maturo, ma in maniera sua propria, con forme speciali e adulte e, quel che più importa, fortemente consapevoli, alla coscienza poetica». Di qui l’ulteriore e connesso rilievo che «la “nazione” in cui i trovatori si sono educati era particolarmente idonea a fornire gli strumenti di questa “cultura”, ché nel quadro generale della vita letteraria medievale le regioni dell’Aquitania, soprattutto del Poitou e del Limosino, si distinguono per un intenso sviluppo intellettuale e per l’incremento assunto dalle loro scuole conventuali».
Il prius della lirica trovatorica è, dunque, in una tale stratificazione culturale. E, infatti, «dietro l’evoluzione artistica del trovatore s’indovina l’azione di questi centri scolastici»; ed è, appunto, «tra i tanti aspetti, l’educazione musicale di questa poesia». Educazione che «rappresenta un’esigenza della tecnica artistica indispensabile al pari della struttura metrica: il trovatore è di norma artefice del “verso” e del “suono”, e l’immagine lirica gli si presenta di solito nella sua duplice veste di parola e di nota».
Si tocca qui, evidentemente, un punto centrale della questione. La «inscindibilità dei due elementi artistici», ossia il musicale e il poetico, «nella composizione lirica» esprime «il prevalente carattere melodico avvertito dalla coscienza del poeta», che è documentato, altresì, dagli «stessi termini di “canzone”, “sonetto”, “motto”, che dal loro originario significato musicale sono decaduti a quello puramente metrico»6.
Il privilegiamento della genesi e della considerazione dell’esperienza trovatorica sul piano culturale supera e vanifica, così, il riferimento al piano sociale. Lo stesso Battaglia, in cui è così chiaro questo privilegiamento, non esita a premettere, peraltro, che «la poesia trovatorica sorge e si evolve come letteratura di “classe”, legata ad un ambiente speciale e circoscritto, di cui condivide le idealità e le esigenze». Battaglia specifica, però, tale apparente antitesi, precisando che «nella società aristocratica della Francia meridionale […] i trovatori incontrarono le ragioni e le condizioni del loro poetare: l’ambiente delle “corti” diede i poeti, l’uditorio, il costume, offrì i mezzi economici e le vie di diffusione, formò il senso della tradizione e del gusto, creò i vincoli e i motivi di una particolare cultura». Queste condizioni restano, tuttavia, tali, e impediscono di ritenere che «i trovatori e la loro letteratura siano un semplice prodotto della società cortese». Al contrario, sono, in ultima analisi, i trovatori che, facendosi «interpreti e rivelatori» di quella società, «non che esserne dominati e limitati, vi hanno comunicato e imposto l’impronta della loro creazione artistica», trascendendo così «i limiti sociali e topografici» delle corti feudali7.



III. Identità musicale, stereotipi e indebite filiazioni

Anche per questa duplicità, benché, forse, non del tutto risolta del piano d’indagine fatto valere dal Battaglia, ne abbiamo seguito le linee di ricostruzione e di interpretazione del fenomeno trovatorica, ma soprattutto perché ne emerge molto chiaramente il criterio che abbiamo definito culturale di valutazione di quel fenomeno. Alla luce di tale criterio è, dunque, sul piano culturale che bisogna porsi il problema della debolezza della musica trovatorica in Italia, non sul piano della diversa struttura politico-sociale dell’Italia comunale rispetto alla Francia feudale.
Del resto, anche a prescindere dai problemi della musica trovatorica, la questione del lento affermarsi di una identità musicale individuata e riconosciuta come italiana rimane egualmente una questione consistente, e non si risolve con il ricorso a stereotipi, come quello – il più famoso, forse, di tutti – della “melodia pura” quale cifra distintiva di una tale identità musicale italiana8.
È vero che “melodia pura” può essere, a buona ragione, ritenuto il canto gregoriano, e che dei «quattro dialetti» del gregoriano (ambrosiano, gregoriano, gallico, e mozarabico), di cui si può sentire parlare, i primi due sono italiani9. Nessun dubbio è, però, possibile sul fatto che di questa grande manifestazione artistica del Cristianesimo medievale sarebbe indebita una visione storica articolata su scala nazionale. Anche nel cosiddetto “secondo periodo del gregoriano”, quando inni e sequenze irrompono nella tradizione di quel canto «così strettamente legata alla parola», e vi riflettono anche, in qualche modo, «la corruzione del latino e il germogliare delle lingue volgari», così come «la formazione della poesia ritmica», e in questi sviluppi linguistici «si manifesta l’individualità crescente dei popoli», i focolai maggiori di questo secondo periodo sono in «centri monastici di cultura tedesca», d’onde poi si spostano, nei secoli XII e XIII, verso la Francia 10.
A giudizio di alcuni storici, una «schiettezza tutta italiana di canto, assolutamente distinta dai caratteri trovadorici» si può ravvisare nei laudari11. Sarebbe, però, rischioso trarne deduzioni che vadano molto al di là del dato di fatto segnato da una tale constatazione; e più che mai sospetta e impertinente appare «la filiazione “italiana”» di «canto gregoriano-lauda spirituale-Ars nova-dramma in musica del ’600-opera settecentesca composta d’arie e cavatine-melodramma ottocentesco a base di tenori e prime donne»12.



IV. Identità, iniziativa degli stranieri, società musicale italiana e Rinascimento

In sostanza, se fino al secolo XIV gli Italiani si fanno notare, è sul piano tecnico, come per l’innovazione tecnica della notazione, o practica cantus mensurabilis, di cui, si dice, «soli Ytalici ad presens utuntur»13. Nel secolo XIV la notevole fioritura dell’Ars nova sembra dare alla musica italiana una consistenza particolare, congiuntamente ad altre espressioni musicali coeve, che contribuiscono all’impressione di una fioritura evidente. E, tuttavia, nel seguente secolo XV è generale, invece, l’impressione di una «rarefazione di quantità e di qualità», come è stato sostenuto14, della musica in Italia.
In effetti, l’affermazione generale e riconosciuta della musica italiana quale grande e inconfondibile creazione dello spirito del paese si avrà solo nel secolo XVI e, ancor più, nel secolo XVII. Non è, tuttavia, un paradosso che questo riconoscimento sia stato una iniziativa piuttosto transalpina che degli Italiani stessi. Questi ultimi sembrano, infatti, vivere l’esperienza di quella loro straordinaria stagione musicale nella scia degli sviluppi, a loro volta straordinari, del Rinascimento nella sua fase culminante, quasi come un naturale portato e complemento della splendida fioritura artistica e letteraria dell’Italia di quel periodo. Ed è per questo che si sviluppò fra il XV e il XVI secolo una società musicale italiana – analoga a quella letteraria e a quella artistica, anteriori di un paio di secoli – che determina una funzionale e diffusa circolazione di suonatori, cantanti, musici dall’uno all’altro capo della penisola: una circolazione molto più generale e costante di quella più episodica e discontinua che si può notare sin verso la fine del secolo XIV.
Ne può essere un documento la vita dei più noti teorici italiani della musica fra il secolo XV e il secolo seguente. Il lodigiano Franchino Gaffurio, vissuto dal 1451 al 1522, nella sua attività fu a Mantova, Verona e Genova tra il 1474 e il 1478; quindi a Napoli nel 1480, poi a Monticelli d’Ongina (nel Cremonese) e a Bergamo, infine a Milano dal 1488 alla morte. Nicola Vicentino, nato nel 1511 a Vicenza e vissuto almeno fino al 1576, fu, a sua volta, a Venezia, a Ferrara, di nuovo a Vicenza, a Milano. Giuseppe Zarlino, nato a Chioggia nel 1517, restò sempre a Venezia, fino alla morte nel 1590, ma Vincenzo Galilei – padre del sommo scienziato – nacque a Santa Maria a Monte, presso Firenze, intorno al 1520, fu poi a Pisa, a Roma, a Venezia, di nuovo a Firenze, forse in Baviera, infine due volte a Roma, e ancora a Firenze, Pisa, Siena, Marsiglia, Messina, fino alla morte a Firenze nel 1591.
Peregrinazioni di teorici, ma anche di musici, che documentano, come si è detto, circa l’effettiva sussistenza e consistenza di una circolazione delle idee e di una vita e prassi musicale in Italia, e che configurano la penisola come uno spazio, da questo punto di vista, culturalmente simbiotico. Documentano, però, anche – ed è la ragione per cui ci siamo riferiti a teorici, oltre che musici – l’infondatezza del dubbio, che non si è mancato di affacciare, circa la compatibilità, per così dire, tra la grande rivoluzione culturale del Rinascimento italiano e lo sviluppo di una conforme e congeniale componente musicale di tale rivoluzione. «Fra le correnti estetiche e spirituali – è stato detto – dell’Umanesimo, l’Ars nova fiorentina non riesce a maturare le sue semenze, e la musica italiana o si piega facilmente al prepotere dei fiamminghi o cerca le sue ispirazioni in un mondo d’immagini del tutto diverso». Ci si è chiesti, quindi, se non se ne debba «dedurre che nel nuovo pensiero e nelle nuove idee non esistessero “condizioni musicali”»15; e ci si è detti tentati a crederlo sulla base del criterio per cui il «sensualismo umanistico» è teso, si, ad affermare l’eccellenza dell’umano e dell’uomo, ma «attraverso le sue attività più “umane”, quali l’arti e le scienze». Perciò «dovette rappresentare, almeno agli inizi, un elemento più avverso che favorevole alla giovanissima musica», vulgo la musica moderna: la musica “moderna” in quanto a quell’antica non era possibile alcun riferimento concreto, non ipotetico, onde «quel ripiegamento sull’infallibile, che i letterati potevano sempre operare addossandosi ai classici latini e greci, era negato ai musici». Questi ultimi si sarebbero, quindi, mantenuti «anacronistici, estranei a quanto costituiva il fulcro del pensiero italiano», salvo a trovare in qualche genere popolareggiante (villotte, frottole, strambotti e simili) uno spazio creativo, per cui «il programma rinascimentale di assimilarsi in poesia gli spiriti popolari non è rimasto allo stato di semplice accademia o, addirittura, non ha raggiunto lo scopo contrario». Invece, «la musica “grande” del Quattrocento», l’equivalente «dei “grandi” lavori della poesia e dell’architettura, della scultura e della pittura, rimane per tutto il secolo la musica de maestri fiamminghi», soprattutto, nonché la musica di «francesi, tedeschi, spagnoli e di quegli italiani che si accodano al carro della magna polifonia»16.



V. “Un compito d’importanza eccezionale”?

Dalla constatazione di quella freschezza, per così dire, popolare che si avverte nella musica italiana del ’400 si è voluto anche dedurre qualche singolare conseguenza. Uno studioso della competenza di Massimo Mila ha potuto parlare di «un compito d’importanza eccezionale» svolto dall’Italia in quel secolo di «innaturale vuoto» della sua musica sacra: il compito di conservare «della musica la sua genuina natura artistica, guidandola verso la meta dell’espressione e promuovendo i mezzi dell’armonia consonante e tonale, adeguati alla nuova sensibilità». Una dichiarazione impegnativa che, tuttavia, è spinta da Mila fino ad aggiungere che «si sarebbe tentati di affermare che il vero rinascimento musicale non si ha nel Seicento con le origini del melodramma, ma proprio nel nostro Quattro e Cinquecento, con l’affermarsi della personalità individuale nella nostra musica d’intrattenimento, coi primi passi mossi dall’espressione musicale verso la conquista dell’anima e della natura»; e tutto ciò «contro la retorica, contro il pericolo della tecnica fine a se stessa»17.
Lo stesso Mila sfuma poi con varie osservazioni di carattere non solo tecnico questa sua affermazione. Interessante è, fra l’altro, il «sospetto», da lui insinuato, che «nella polifonia profana del Cinquecento il prestigio sociale del petrarchismo aulico e cortigiano abbia soffocato le fonti più schiette della musica viva»18. In ogni caso è, poi, da tener presente che, come è stato acutamente rilevato, «il popolarismo delle vilote e delle frottole del XV secolo non ha nulla a che fare, da un lato, col deprecato popolarismo di certe musiche [di metà del secolo XX], dall’altro, col così detto folklore delle ottocentesche Scuole russe, spagnole, scandinave ecc.»19. Le prime (XX secolo) non hanno la «sostenutezza aristocratica [che è un] elemento costante, inevitabile di qualsiasi manifestazione musicale anteriore al secolo XIX». Le seconde (XIX secolo) hanno un «intento di volontà nazionalistica e quasi polemica» estraneo alla realtà musicale del secolo XV20.
Si tratta pur sempre di una musica che sapientemente, con «lo svolgimento naturale e geniale di un cammino già intrapreso da secoli, assimila dalla polifonia quel tanto che gli poteva servire e rigetta quel di più che lo avrebbe impacciato nella marcia ai suoi scopi». Così, da un lato, per questa via si apporta «alla musica uno spirito fino allora estraneo o appena sfiorato», ossia «lo spirito di vaghezza, di lievità, di giovanile abbondanza, un’armonia anche le immagini più rapide e in apparenza più lontane dall’investitura dell’arte»21. Ha portato, cioè, nel campo della musica quella «nuova sensibilità», quella spinta alla «conquista dell’anima e della natura», di cui parla Mila, e che sono l’evidente pendant dei valori correntemente attribuiti alla letteratura e all’arte dell’Umanesimo e del primo Rinascimento. Dall’altro lato, si può affermare, per questa stessa via, che «la produzione popolaresca del XV secolo», più che influire «sull’affermarsi di generi prossimi e ad essa esteriormente affini», come il madrigale del seguente secolo XVI, «ha largamente seminato il parlar musicale di situazioni melodiche e ritmiche, di prospettive, di accenti, che ritorneranno e frutteranno anche a più grandi distanze, quando bisogni espressivi fino allora ignoti si faranno urgenti e cercheranno intorno i mezzi per risolversi»22.



VI. Perché gli stranieri? Il “Dialogo” di Vincenzo Galilei

Prima del secolo XVI una coscienza robusta di individualità musicale italiana è, dunque, per la maggior parte degli studiosi, difficile da porre in evidenza, al di fuori di alcuni sentieri più o meno chiaramente ravvisabili, rispetto alla grande musica francese o fiamminga. Al secolo XVI è, invece, generale il richiamo per le forme d’arte riconosciute come ormai prepotentemente italiane che via via vi si riaffermano: il madrigale, la polifonia, gli intermedi col loro sbocco nel teatro musicale moderno. Anche di allora sono pure le prime grandissime personalità, ai cui nomi restano associate svolte fondamentali nella storia della musica. Gigantesca, oltre che altissima, appare la produzione del Palestrina; il ruolo del Monteverdi appare subito, e a tutti, un ruolo decisivo. Né mancano riferimenti analoghi negli altri generi musicali che allora fioriscono, a cominciare dal madrigale.
Come si spiega allora che – secondo quanto abbiamo già accennato – la presa d’atto e la definizione di un’Italia musicale è operata tempestivamente piuttosto da stranieri che da italiani?
La domanda può essere giustificata anche dal fatto che la coscienza della novità della musica moderna non era affatto mancata nell’Italia del tempo. Per fare qui un solo esempio, citeremo un testo famoso, il Dialogo della musica antica e moderna del già ricordato padre del Galilei, Vincenzo, dove si dice chiaramente che, perdutasi la memoria della musica antica, «avendo poi la Italia per lungo spazio di tempo, patite grandi inondazioni de’ barbari, s’era spento ogni lume di scienza, e come se tutti gli uomini fussero stati soprapresi da grave letargo d’ignoranza, vivevano senz’alcun desiderio di sapere; e della musica si avevano quella istessa conoscenza che dell’Indie occidentali», fino a quando i trattatisti italiani, fra ’400 e ’500, come il Gaffurio e lo Zarlino, avevano cominciato «ad investigare quello che essa [la musica] fosse, et a cercare di trarla dalle tenebre ove era stata sepolta»23.
Sono termini – come si vede – che, riferiti alla musica e alla tecnica musicale, equivalgono perfettamente a quelli in cui nel secolo XV era stato proclamato il risorgimento delle lettere e delle arti dopo la buia notte del “barbaro” e “gotico” Medioevo. E, del resto, Piero dei Bardi, figlio di quel Giovanni al quale il Dialogo galileiano era stato dedicato, avrebbe ugualmente espresso il desiderio di «levare in qualche parte [la musica] dal misero stato nel quale l’avevano messa principalmente i Goti dopo la perdita di essa, e dell’altre scienze e studi»24.
In Vincenzo Galilei la questione presentava, tuttavia, altre, interessanti implicazioni. Per il suo Dialogo – egli nota – si era avvalso della liberalità di Giovanni de’ Bardi nel «far venire, ad instanza [sua], dalle più lontane parti d’Europa varii libri et strumenti, senza i quali impossibile era potere della musica quelle notizie avere che mediante quelli abbiamo», e che consentissero di tornare a «quei felici secoli ne’ quali della musica facultà pienissima contezza si aveva»25.
Sono passi notevoli soprattutto per quel riferimento alla necessità di importare libri e strumenti dalla restante Europa – che, quindi, mancavano in Italia – per svolgere il tema che il Galilei si era prefisso: una condizione che nelle lettere e nelle altre arti non si sarebbe potuta mai proporre, allora, negli stessi termini. D’altra parte, l’originalità del tema – della quale il Galilei appare pervaso al punto di presumere di dare al Bardi, mecenate, «alcun segno di gratitudine, et al mondo porgere non piccolo aiuto di uscire dalle tenebre» – non toglie che egli si proponga parlare «senza arroganza e con ogni rispetto di quelli che, da Guido Aretino fin’a’ nostri tempi, sopra tal merito hanno scritto»26, pur nella ripetuta e assoluta convinzione di aver fatto opera del tutto nuova. Il rispetto professato verso Guido d’Arezzo si accompagna, inoltre, alla chiara consapevolezza di una tradizione di teorizzazione musicale che comprende, con Guido, altri autori contemporanei come il Gaffurio e il Valgulio, lo svizzero Heinrich Glareanus e il francese Jacques Lefèbvre d’Etaples27: una tradizione, dunque, europea, e tutt’altro che esclusivamente italiana, che dà ancora maggior conto della richiesta di libri e strumenti d’Oltralpe, di cui Vincenzo Galilei diceva di essersi avvalso. È tale, anzi, questa dimensione europea nel suo pensiero da spingerlo ad affermare senza esitazione che della notazione dell’Aretino le figure erano state «ritrovate già in Parigi dal gran dottore Giovanni de Muris»28.
Piena consapevolezza, dunque, del rinascimento della musica dopo i tempi barbari e gotici, e, anzi, distinzione anche degli intenti e dei fini della musica moderna rispetto a quella antica. Su quest’ultimo punto il Galilei e preciso. Non bisogna meravigliarsi – scrive – che la musica attuale «non faccia alcuno di quelli notabili effetti che l’antica faceva»29; e il lavoro dei teorici moderni non era certamente valso a rendere la musica «all’antico suo stato, secondo che si può comprendere da infiniti luoghi dell’antiche istorie, dei poeti e dei filosofi, né che abbiano conseguito di essa la vera e perfetta notizia». E di qui anche la perentoria alternativa «o che la musica o che la umana natura si sia mutata da quel primo suo essere»30. Che non è la semplice constatazione di una discontinuità storica, per cui la musica moderna non si trova condizionata nelle sue spinte creative dal presupposto delle forme perfette dell’antichità, che si possono solo imitare, non superare, e la cui imitazione è un criterio irrecusabile, a pena di mancare a ogni criterio d’arte. È, per Galilei, qualcosa di più. La mancanza del modello perfetto non è un vantaggio (quale apparirà a molti degli storici posteriori). È la perdita di un livello musicale superiore, che limita non solo la prospettiva operativa, ma la stessa natura musicale dell’uomo moderno. E, di conseguenza, il fine della musica moderna non poteva essere altro che di prendere atto della sua diversità da quella antica e operare di conseguenza: «per essere non altro il fine di questa che il diletto dell’udito, e di quella il condurre altrui, per quel mezzo, nella medesima affezione di se stesso»31.
Una caratterizzazione in senso nazionale, italiano, invece, come si è detto, non appare. Può aver influito, a questo riguardo, quella tradizione del non scrivere la musica, «che, pur non essendo una esclusiva caratteristica dell’Italia, avrebbe avuto nel nostro paese una estensione di assoluto predominio a paragone della musica scritta»32. Può anche aver influito la condizione, che abbiamo ricordato, del netto predominio transalpino nella «grande musica» del secolo che vide fiorire l’Umanesimo e sbocciare il Rinascimento in tutta la sua sontuosa fisionomia di grande civiltà, prima che di grande cultura, sensibile e attenta ai pregi della musica “popolare”, in cui si è visto emergere il più autentico genio musicale italiano di quel periodo, ma non incline ad assumerla nel quadro del proprio rango sociale e culturale. Può essere ancora che l’alto concetto del proprio primato artistico e culturale nell’Europa del tempo abbia fatto considerare la musica coinvolta – ipso facto di quel primato – nella generale corrente di quel moto di civiltà. Certo è, comunque, che – come si è accennato – una caratterizzazione della musica italiana cominciò ad aversi a opera di stranieri; e fu proprio mentre si andava affermando il rigoglio creativo dell’Italia tardo-rinascimentale e barocca: una sincronia che merita di essere sottolineata dopo che lo è stata la preminenza della musica transalpina del XV secolo, che basta qualche esempio fra i molti possibili per apprezzare nel suo giusto valore.



VII. La “difference” italiana secondo Maugars

Obbligato è qui il riferimento ad Andrea Maugars per la sua Response faite à un curieux sur le sentiment de la musique d’Italie ecrite à Rome le premier Octobre 163933. Maugars scriveva e intendeva parlare sulla scorta dell’esperienza di dodici o quindici mesi trascorsi in Italia frequentando «les plus excellens hommes de l’Art» e ascoltando attentamente «les plus celebres concerts qui se sont faits dans Rome». È da questo che aveva ricavato il suo «petit raisonnement harmonique», in cui esprimeva «ingenuement le sentiment» che egli aveva della musica italiana e la «difference» che egli vi ritrovava «d’avec la notre», ossia quella francese34.
Gli elementi della difference erano molteplici.
Le «compositions de cappelle» italiane avevano «beaucoup plus d’art, de science et de varieté», ma anche «plus de licence». E questa “licenza” non era da biasimare, se era fatta «avec discretion et avec un artifice qui trompe insensiblement les sens». Perciò andava respinta l’«opiniastreté» dei compositori francesi, «trop religiensement renfermez dans des cathegories pedantesques», che temevano di commettere «des solacismes contre les regles de l’art» a ogni minima sortita dai loro criteri. Era, invece, in «ces sorties agreables» che consisteva «tout le secret de l’art». Gli Italiani praticavano «parfaitement bien» il ricorso «à quelque belle recherche» secondo il loro «caprice» o secondo quanto ispiravano «la vertu des paroles on la beauté des parties»; ed essendo «beaucoup plus raffinez» dei Francesi nella musica, si beffavano della «regularité» dei Francesi e componevano «leur motets avec plus d’art, de science, de varieté et d’agrément»35.
A rendere «plus agreables» le musiche degli Italiani era anche «un bien meilleur ordre dans leurs concerts», con i cori disposti meglio che in Francia e dotati ciascuno di «un petit orgue», che indubbiamente li faceva cantare «avec bien plus de iustesse». In Francia non si avevano «beaucoup de voix» per far eseguire dai varii strumenti le composizioni «à l’heure mesme» e occorreva «un long temps les concerter ensemble». In Italia i musici «ne concertent iamais, mais chantent tous leurs parties à l’improviste»; e quel che più appariva da ammirare era sia che, così facendo, essi non sbagliavano mai, per difficile che fosse la musica, e la voce di un coro cantava spesso con quella di un altro coro, anche se poteva darsi che non l’avesse mai vista o udita, e non cantavano mai due volte «les mesmes motets», pur non passando giorno della settimana senza che in qualche chiesa si facesse della buona musica, e con la sicurezza di ascoltare tutti i giorni «de la composition nouvelle»36.
In Italia c’era, inoltre, «une autre sorte de musique», non praticata in Francia e denominata «style recitatif». La migliore esecuzione di questa «admirable et ravissante musique» ascoltata da Maugars era quella che nei soli venerdì di Quaresima si faceva presso l’Oratorio di San Marcello per iniziativa di una Congregazione dei Fratelli del Santo Crocifisso, formato dai maggiori signori di Roma e perciò in grado di poter «assembler tout ce que l’Italie produit de plus rare»37.
I più «suffisans compositeurs» brigavano per avere l’onore di farvi ascoltare le loro composizioni e si sforzavano di portarvi «ce qu’ils ont de meilleur dans leur estrude». Bisognava aver sentito sul posto «cette musique recitative […] pour bien iuger de son merite». Nella parte strumentale spiccava «ce grand Friscobaldi» per «mille sortes d’inventios sur son clavessin, l’orgue tenant tousiours ferme»; e non era «sans cause», commentava Maugars, che questo «fameux organiste» di San Pietro aveva acquistato «tant de reputation dans l’Europe», e ben lo si poteva proporre «comme un original» a tutti gli organisti francesi, invogliandoli a venire a Roma. Di grande valore era, a sua volta, l’arpista Horatio [Orazio Michi o Orazio dell’Arpa, napoletano]. A questi due nessuno era pari in Italia. Vi erano dieci o dodici musici che facevano «merveille du violon» e cinque o sei per l’arciliuto, di poco differente «d’avec la thuorbe». La lira era pure pregiata, ma nessuno appariva confrontabile con «Farabosco d’Angleterre» [Alfonso Ferrabosco, di Bologna]. Infine, arpista di grido era «la signora Constancia» [Costanza de Ponte]38.
Negli organi non si produceva «tant d’agreement» come in Francia, forse perché gli organi italiani non avevano «tant de registres et de ieux differents» come quelli che allora si facevano a Parigi; e per di più sembrava che la maggior parte degli organi italiani fosse fatta solo «pour servir les voix et pour faire paroistre les autres instruments». Anche per la spinetta la differenza con i Francesi era evidente, e consisteva nel fatto che gli Italiani riuscivano con due tastiere a suonare sui due modi, il Dorico e il Frigio, ottenendo «un bel effet».
Ma piuttosto che spiegare questi «deux genres», ancora non trattati «assez intellegiblement» in francese, Maugars si riprometteva di inviare al suo corrispondente «un discours sur ce sujet, tiré tant des meilleurs autheurs anciens que des modernes, Italiens et Anglois, qui se sont efforcez dans leurs escrits de nous restablir ces deux genres, perdus par l’inondation des Barbares, qui ont causé une si longue discontinuation de la musique par tant de siecles». Per la viola, non v’era, invece, in Italia nessuno che, al momento, eccellesse; e di ciò Maugars si stupiva sapendo che era stato eccellente in essa Orazio da Parma, mentre era stato un italiano, il padre del Ferrabosco, a introdurre l’uso della viola presso gli Inglesi, che poi avevano «surpassé toutes les autres nations»39.
Era incredibile la stima degli Italiani per «coloro che eccellono nel suonare gli strumenti, e quanto essi apprezzino più la musica strumentale che la vocale»40.
Vi era poi in Italia un gran numero di “castrati” per le voci di soprano e contralto, «de fort belles tailles naturelles», ma pochissimi di bassi profondi. Erano molto bravi nelle loro parti e cantavano «à livre ouvert» la musica più difficile. Inoltre, erano quasi tutti «comediens naturellement», per cui riuscivano benissimo nelle commedie musicali, Maugars ne aveva viste tre o quattro nell’ultima stagione e li trovava «incomparable et inimitables en cette musique scenique», mentre anche il loro modo di cantare era «ben plus animé» che in Francia41.
«Alla fine – conclude Maugars – per trarre qualche utilità da questo discorso, io ho osservato in generale che noi pecchiamo per difetto e gli Italiani per eccesso». Ma, invero, «ogni paese ha qualcosa di singolare. Noi componiamo ammirevolmente bene le arie di movimento, gli Italiani meravigliosamente bene la musica di cappella. Noi suoniamo molto bene il liuto, e gli Italiani benissimo l’arciliuto. Noi suoniamo l’organo molto piacevolmente, gli Italiani molto sapientemente. Noi trattiamo la spinetta eccellentemente, gli Inglesi trattano perfettamente la viola». Il che non toglie che venga poi affermata una superiorità dei Francesi, per «naissance» e «nourriture», ossia per natura e per educazione, su tutte le altre nazioni «nei bei movimenti, nelle piacevoli diminuzioni e, in specie, nei canti naturali». Non si poteva finire, però, senza evitare di commettere «un crime», dimenticando il «grande Monteverde, maestro compositore della Chiesa di San Marco, che ha trovato una ammirevolissima nuova maniera di comporre tanto per gli strumenti che per le voci»; e Maugars si sentiva obbligato a «proporlo come uno dei primi compositori del mondo»42.



VIII. Prima e dopo Maugars

Geniale creatività italiana, dunque, nell’uscire fuori dalle regole e nel procedere à l’improviste, sortendo effetti mirabili nel coordinarsi spontaneo di parti diverse, nel variare a ogni nuova esecuzione la precedente, nell’accordo fra voci e strumenti. E, in ultima analisi, si potrebbe forse dire, naturalezza italiana contro regolarità francese; e, questo, a prescindere dal particolare primato italiano in alcuni generi o strumenti, e – anche – senza caratterizzazioni come quella che poi soprattutto connoterà il confronto fra la musica italiana e altre musiche, tutta melodia l’Italia, tutta armonia gli altri. D’onde anche un altro elemento da rilevare, e cioè che quella contrapposizione non è affatto istituita fra una “sapienza” tecnico-musicale altrui (armonia) e una “facilità” italiana (melodia): la musica italiana è sapiente quanto quella altrui, ma è praticata con una geniale libertà di iniziativa, che sposa sapienza e fantasia, regolarità formale e sensibilità alle ragioni di svolgimenti particolari, conoscenza del genere e capacità e abilità nell’adattarlo alle esigenze o alle spinte del particolare.
Per questi motivi il Discours del Maugars merita un’attenzione particolare con la sua perizia nel cogliere e rappresentare felicemente un momento fondamentale – perché, in certo qual modo, iniziale – dell’immagine che della musica italiana nella sua prima grande fioritura si faceva l’opinione europea più colta e competente. Fino a qual punto – vale allora la pena di chiedersi – questa immagine ab externo rispondeva a quella che, dal di dentro, ne potevano avere gli Italiani? Tenendo presente la notevole esperienza di contatti e scambi di idee, informazioni e giudizi del Maugars durante la sua permanenza in Italia, sembra lecito pensare che egli riflettesse largamente opinioni e orientamenti diffusi fra gli Italiani. Proprio il riferimento alla Francia è, del resto, non a caso uno di quelli che, prima della grande irruzione della Germania nella musica europea tra XVII e XVIII secolo, è il riferimento preferito dagli Italiani: Amor mi fa cantar alla francescha, dice una ballata trecentesca43, e Canzoni d’intavolatura d’organo a quattro voci fatte alla francese e Canzoni alla francese, intitolano le loro fra ’500 e ’600 Giovanni e Andrea Gabrieli44.



IX. Le varietà regionali italiane

Notevole è, però, intanto, davvero la consapevolezza che gli stessi Italiani esprimono delle varietà regionali, in cui la loro attività musicale si presenta. Ancora una volta sovviene, al riguardo, Vincenzo Galilei. «Con più grave tuono – egli nota, ad esempio – parlano e cantano generalmente i Lombardi di quello che fanno i Toscani, e con più acuta voce di questi cantano i popoli della Liguria, senza andare a trovare i Siciliani», che egli vede chiaramente al limite, se non al margine, della «nostra provincia», ossia dell’Italia45. Le varietà regionali sono, inoltre, esplicitamente richiamate come distintivi del genere praticato: canzoni villanesche alla napolitana o arie napolitane, ad esempio; oppure connotano tradizioni ben distinte nell’opinione generale, come “scuola romana” o “scuola veneziana”. Se ne era, del resto, consapevoli anche fuori d’Italia, dove, ad esempio, «col dir “opera napoletana” si intese spesso, durante il Settecento, di dire opera buffa»46.
Da questo punto di vista, la storia della musica italiana è più vicina a quella delle arti figurative – nelle quali le varietà regionali furono sentite da subito come una loro connotazione essenziale47 – che alla storia della letteratura e alla storia della cultura politica e della cultura in generale. In progresso di tempo, inoltre, le diversità regionali si faranno più sensibili, e ancora di più ne crescerà la percezione e, con essa, la loro utilizzazione nella autorappresentazione nazionale.
Questo accadrà vistosamente nel secolo XVIII, mentre andranno mutando gli assi della musica europea. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, ancora una volta, che, «a considerarlo nel suo insieme, il Seicento segna per la musica un netto predominio italiano. È in Italia che s’inventano l’opera lirica, l’oratorio e la cantata; che si conducono a indipendenza di forme la musica d’organo e la musica per violino; che si fondano la sonata antica e il concerto; che si istituiscono nuove relazioni fra il canto e gli strumenti. Nei cinque grandi paesi d’Europa già pervenuti ad una alto livello nazionale, in Germania e in Inghilterra, in Francia, in Spagna e in Portogallo, la musica è “italianizzante” assai più che la letteratura e l’arti belle»48. E, peraltro, proprio durante questo periodo si viene via via alterando l’immagine della musica italiana data dal Maugars.



X. “Parallele des Italiens et de François” ai tempi del Re Sole

Agli inizi del secolo XVIII il prestigio italiano appare intatto, malgrado si faccia sentire anche nella musica la forte spinta a primeggiare che la Francia del Re Sole manifesta nella seconda metà del secolo XVII, per cui la contrapposizione fra Italia e Francia continua a costituire un punto canonico di confronto e di giudizio.
Sull’argomento François Raguenet avrebbe pubblicato nel 1702 il suo Parallele des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéra49. Un punto eminente di essa è l’opera, definita (al plurale, in francese) «les plus grands ouvrages de musique qu’on ait coutume de faire entendre», comuni all’Italia e alla Francia, che in questo campo «se sont le plus efforcez de faire leur génie»; ed è, quindi, soprattutto su questo punto che Raguenet fa «principalement rouler le paralele»50 da lui sviluppato.
Sui libretti delle opere egli è impietoso: «les opéra des Italiens […] sont de pitoyables rapsodie sans liaison, sans suite, sans intrigue»; sono, in effetti, canovacci molto inconsistenti e molto magri; dialoghi e monologhi banali, alla fine dei quali è appiccicata qualche bella aria, che li conclude, ma che non è in rapporto col «corps de la piéce» ed è fatta da altri poeti o a parte o per qualche altra opera: «queste belle arie sono selle per qualsiasi cavallo»; non c’è scena al cui termine gli Italiani non sappiano trovare posto per una di queste arie; ma un’opera fatta così, «di brani rabberciati e di pezzi ricuciti», non può stare a confronto con le «piéces de théatre», di cui si servono i musicisti francesi «piéces régulieres et suivies […] d’une suite, d’une justesse et d’une conduite merveilleuses»51.
I Francesi hanno anche un altro vantaggio per le voci, per i bassi, molto comuni fra loro e rari in Italia, dove i fossets e falsi bassi non hanno «né profondità, né forza», mentre in Francia «la mescolanza di questi bassi coi soprani forma un gradevole contrasto»: «piacere che gli Italiani non gustano mai, date le voci dei loro musici, quasi tutti dei castrati, completamente simili a quelle delle donne»52.
Un terzo punto di vantaggio erano per i francesi i cori, le danze e gli altri divertissemens, per i quali essi superavano infiniment quelli degli Italiani53.
Quanto agli strumenti, i Francesi erano al di sopra degli Italiani per i violini. Avevano, oltre tutti gli strumenti in uso in Italia, anche l’oboe. Infine, l’abbigliamento degli attori e delle attrici erano in Francia di una ricchezza, eleganza, gusto senza pari altrove, e anche gli Italiani riconoscevano che non c’erano in Europa danzatori paragonabili a quelli francesi54.
In sintesi, l’opera aveva in Francia «la forma di uno spettacolo ben più perfetto» che in Italia. Anche gli Italiani avevano, però, i loro vantaggi55.
Innanzitutto, la musicalità della lingua, fondata sulla pienezza della pronuncia delle vocali, che i musicisti italiani esaltavano con l’uso preferenziale della vocale a56.
In secondo luogo, le arie, «plus detournez et plus hardis» di quelle francesi, poiché univano talora caratteristiche che i Francesi ritengono incompatibili, non si limitavano al soggetto nelle «piéces à plusieurs parties», facendole anzi tutte «ugualmente belle e ricercate», e rivelavano un genio dell’invenzione inesauribile rispetto a quello, «assez étroitement borné», dei Francesi57.
Non ci si poteva stupire, quindi, se gli Italiani trovavano che la musica francese «culla, addormenta, ed è anche, per il loro gusto, molto piatta e molto insipida». Essi cambiavano bruscamente toni e modi e procedevano senza preoccuparsi delle regole, che paralizzavano, invece, i Francesi. Nell’irregolarità italiana sembrava dovesse rovinare tutta la musica, ma, in realtà, si vedeva «l’armonia come rinascere dalla stessa dissonanza, e trarre la sua maggiore bellezza da quelle irregolarità che sembravano doverla distruggere». E di qui un procedere come di chi abbia «il diritto dell’azzardo e la sicurezza del successo, nel sentimento che [gli Italiani] hanno di essere i primi del mondo per la musica, di esserne i sovrani e i signori dispotici», violando temerariamente ma felicemente le regole e mettendosi al di sopra dell’arte, ma come signori, che seguono le sue regole quando vogliono e che le infrangono quando ad essi così aggrada, violentando «la delicatesse de l’oreille», ma vincendo la partita «par des charmes qui tirent assurément leur plus grande force de la hardiesse avec laquelle il scavent s’en servir»58.



XI. Il “Parallele” e altri tasselli dell’identità musicale italiana

Raguenet non si poteva trattenere, a questo punto, dall’affermare che «la musique est une chose trop commune en Italie; les Italiens y chantent du berceau, il chantent tous les jours, il chantent par-tout: un chant naturel et uni est, pour eux, une chose trop vulgaire, ils en ont trop entendu de cette manière, le naturel est usé pour eux, pour picquer leur goût rassasié de chants simples et suivis, il faut sans cesse passer d’un ton à l’autre, et hazarder les passages les plus bizarres et les plus forcez; sans cela, on ne peut les réveiller, ni exciter leur attention»59.
Molto più vivi dei Francesi, gli Italiani erano anche più sensibili alle passioni e le esprimevano altrettanto più vivamente, superando spesso la realtà, che «non agisce sull’animo più fortemente» sia nel drammatico che nell’idilliaco60.
Infine, perfetta era «la conformità dell’aria col senso delle parole» (e Raguenet citava come memorabile, «en matiére de symphonies», quella Mille saette eseguita a Roma, nell’Oratorio di San Girolamo della Carità, il giorno di San Martino del 1697)61.
A parte tutto ciò, gli Italiani fanno «una cosa che né i musicisti francesi, né quelli di tutte le altre nazioni saprebbero e hanno mai saputo fare», unendo talora tenerezza e vivacità (e anche qui un esempio: l’aria Mai non si vide ancor/più bella fedeltà, della quale veniva fatta un’altissima lode)62.
Passando dalle airs simples alle piéces composées de plusiers parties, i vantaggi degli Italiani erano altrettanto grandi, specialmente per le composizioni con un maggior numero di parti, che essi lavoravano tutte ugualmente. L’effetto di questo modo di comporre le arie era di trascinare e di estasiare il pubblico, che spesso non poteva «se contenir jusqu’au bout», e interrompeva il musicista «con gridi e applausi infiniti». Chiunque avesse viaggiato in Italia lo aveva constatato mille volte: «non si è mai sperimentato alcunché di simile in alcun altro paese; sono bellezze di un tale grado di eccellenza che l’immaginazione non saprebbe attingerlo, e, dopo averle ascoltate, non si saprebbe immaginare niente di superiore»63.
Gli Italiani erano, insomma, insuperabili «dans la production de ces piéces composées de tant de belles parties». Lulli era una dimostrazione di «quanto il genio degli Italiani è superiore a quello dei Francesi per l’invenzione e la composizione in fatto di musica». Gli eccellenti maestri che i Francesi opponevano a quelli italiani erano anch’essi italiani, mentre nessun francese si era imposto in Italia al di sopra dei musicisti italiani64.
Raguenet esprimeva, poi, giudizi che vanno sottolineati sia per la loro forma che per il merito. L’Italia era «piena di maestri più o meno della forza» del Lulli: a Roma, Napoli, Firenze, Bologna, Milano, Torino; e questo in ogni tempo: da Carissimi agli Scarlatti, a Corelli, dei quali «i primi sembravano aver esaurito tutte le bellezze dell’arte, e tuttavia i secondi le avevano almeno uguagliate, in una infinità di opere di nuovo genere». In Francia era già un prodigio che vi fosse un solo maestro come Lulli. Insomma, non vi era «nessun paragone da fare tra Italiani e Francesi per il genio della musica»65.
Parole che ci sembrano da sottolineare, poiché ne emerge in modo particolarmente pregnante, fino a qual punto lo stampo musicale fosse impresso sull’immagine dell’Italia agli occhi dell’Europa.
Dopo di ciò, Raguenet tornava al confronto per quanto riguardava l’opera. Confermava il vantaggio italiano, grandissimo, per le voci dei “castrati”, che, oltre tutto, cantavano per 30 o 40 anni, laddove le voci femminili nell’opera francese non conservavano forza e bellezza per più di 10 o 12 anni66. Notava che i Francesi studiavano a lungo e intensamente la musica, ma dovevano studiare altrettanto a ogni nuova piéce da eseguire, laddove gli Italiani studiavano la musica solo una volta, ma cantavano di primo acchito qualsiasi cosa senza imbarazzo, «come si legge senza esitare un libro mai letto, se si sa leggere bene»67. E qui – altra caratterizzazione da sottolineare – Raguenet aggiungeva che in Italia non c’era mai scarsezza di attori o attrici, laddove in Francia era difficile trovarli o sostituirli, «perché gli Italiani nascono tutti commedianti e sono altrettanto eccellenti attori che musicisti»68.
Dunque, ancora qui un tassello dello stereotipo italo-musicale, del quale abbiamo accennato; e un tassello – va aggiunto – di quelli che più contavano già allora e avrebbero contato in seguito nel definire l’identità italiana in uno stereotipo europeo molto diffuso, ben al di là dei confini di ciò che riguardava la musica.
Per gli strumenti e le orchestre il discorso non era diverso69, così come non lo era «pour les décorations et pour les machines» teatrali, per le quali non era da credere che «lo spirito umano ne possa portare l’invenzione più lontano di quanto la si è spinta in Italia»70.



XII. La “querelle” italo-francese fino a Gluck

Raguenet andava, come si vede, ben oltre Maugars nel valutare il primato musicale italiano; ed era anche naturale che fosse così, poiché i sessant’anni che dividevano i loro lavori avevano visto la piena maturazione (lo abbiamo accennato) di quel primato. Non sorprende che in Francia vi fossero opposizioni e critiche alle tesi di Raguenet; e quest’ultimo – a un gentiluomo normanno, che aveva scritto contro di lui una Comparaison de la musique italienne et de la musique françoise, contestandone tutte le tesi – sentì il bisogno di rispondere con una Défense du parallèle des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéra, pubblicato a Parigi nel 170571.
La Défense è addirittura, e di non poco, più estesa del Parallèle; è minuziosa e puntigliosa; si perde spesso in osservazioni marginali o in semplici battute polemiche, ma non manca di efficacia. Gli argomenti che Raguenet riporta, per contestarli, del suo contraddittore sono, a loro volta, un condensato dei pregiudizi, delle riserve, delle critiche che alla musica italiana non mancavano oltralpe. Essi appaiono, però, in generale, deboli rispetto ai punti sostenuti da Raguenet col conforto delle sue esperienze in Italia. Ed è davvero interessante e significativo che la Défense si concluda con un’appendice composta da estratti della Response del Maugars, che vengono addotti a dimostrazione del fatto che la novità imputata alle opinioni svolte nel Parallèle era così poco una novità che «il y avoit plus de soixante et cinq ans qu’un musicien françois les avoit soutenuës à la face de toute la France»72.
Il confronto tra la musica francese e quella italiana sarebbe durata ben oltre i tempi del Raguenet e del Vieville, toccando poi l’acme nella fin troppo famosa querelle tra “gluckisti” e “piccinnisti”73. Non interessa qui fermarsi su aspetti personalistici, come su quelli di una questione occasionale diventata di moda sociale, per cui Benjamin Franklin ironizzava sul «felice popolo» di Francia, che non aveva preoccupazioni maggiori del discutere appassionatamente le perfezioni a le imperfezioni di due musicisti stranieri, un cousin e un moschetto74. In effetti, anche se «i parigini furono quasi soli ad agitarsi per le opere di Gluck, l’esistenza di questa piccola guerra fu, però nota anche fuori della Francia», come si vede per il padre Martini e per Leopoldo Mozart75.
Alcuni degli opuscoli o pamphlets pubblicati per l’occasione appaiono, inoltre, con la data topica di Napoli e con l’indicazione di qualche libreria parigina per l’acquisto nella capitale francese. Nelle polemiche di allora non si attribuiva, però, grande credibilità all’origine napoletana di quegli opuscoli. Poteva essere una Plaisanterie, di cui qualche erudito dei secoli avvenire si sarebbe potuto servire «per provare che nel secolo XVIII a Napoli non si ammirava che la musica di Gluck, mentre Parigi sola ne contestava ancora la bellezza. Che bella cosa la preveggenza!»76. E non furono neppure solo i cinque anni dal 1774 al 1779 a essere occupati dalla «guerra», sulla quale ironizzava Franklin. Proprio il contestatore di quella presunta plaisanterie napoletana, datata 1781, vedendo in quest’anno la guerra ancora in corso, dice che essa dura «da cinque o sei anni», lasciando, quindi, pensare a strascichi che proseguono oltre il biennio canonico del soggiorno di Gluck a Parigi (e, dunque, dal 1774 al 1779, appunto)77.



XIII. Continua l’iniziativa straniera per l’identità musicale italiana

A noi qui la querelle interessa, comunque, soprattutto per una ragione: e, cioè, per il fatto che in essa, ancora una volta a opera di stranieri, troviamo fissata una serie di notazioni sulla musica italiana, che appariranno poi fortemente impresse nella caratterizzazione dell’identità musicale italiana e formeranno la base di alcune delle principali espressioni di quest’ultima nel secolo XIX. Si tratta di elementi già, invero, presenti nella discussione che abbiamo visto svolgersi nel secolo XVII, attraverso il confronto fra Italia e Francia, ma che ora vengono ampliati e approfonditi e si presentano in più serrata dialettica sia pro che contro le espressioni musicali ritenute canoniche di ciascuno dei due paesi. Noi ne daremo qui, appunto per tale ragione un rapido florilegio.
In Italia – è detto in un opuscolo del 1781 – «si va all’opera come a un concerto, cioè per ascoltare due o tre arie senza occuparsi affatto di ciò che viene prima o dopo», mentre in Francia «lo spettatore richiede un interesse continuo»78. Inoltre, «quando declama i suoi versi, l’italiano lascia intervalli notevoli fra le parole, e questi intervalli sono diventati per il musicista altrettante finestre, di cui egli ha approfittato talora per annunciare, talora per commentare e sviluppare la situazione dell’attore: sole funzioni del recitativo obbligato»79.
Il gorgheggio diventava qui uno dei principali imputati.
Lasciate alla musica oltremontana – è detto in un altro testo – i pompons, i colichets e le stravaganze che da gran tempo la disonorano; guardatevi dall’invidiare false e miserabili ricchezze, e non invocate punto una manière proscritta da tutti i philosophes, gens d’esprit e amateurs eclairés che vi sono in Italia. Come ritenere buono che, proprio nel momento in cui si dovrebbe portare al più alto grado l’emozione a cui la nostra anima era stata preparata, l’attore si diverte a ricamare delle vocali e resta, per incanto, con la bocca aperta a metà di una parola, per emettere dei suoni inarticolati?80.

E sul punto si citava Metastasio che criticava i «presenti cantori», che, «contenti di aver grattato le orecchie con una sonatina di gola nelle loro arie, il più delle volte noiose», riducevano «il nostro teatro drammatico ad un vergognoso e intollerabile miscuglio d’inverissimili»81. Si citava Beccaria, che al sentire alcune arie, era portato a dire, con Fontenelle: «Musica, che vuoi tu?»; e, di alcune «voci, alle quali non si poteva rimproverare verun difetto», riferiva che non producevano in lui alcuna emozione82. Si citava Padre Martini, per il quale «le nostre [dell’Italia] arie consistono in una unione eterogenea di idee e di vari pezzi uniti insieme più dall’accidente che dalla ragione», sortendo così «negli animi degli uditori un miscuglio di aspetti fra di loro opposti, che in niun modo possono né dilettare, né muovere»83.
Un Monsieur Framery notava che «i compositori italiani non sono soliti conservare le loro musiche, e ancora meno quelle degli altri»84. Gluck osservava che «il compositore italiano è assai spesso forzato ad adattarsi al capriccio e alla voce del cantante»85. Chi sosteneva Gluck e lo difendeva dall’imputazione di «manquer de chant», affermava che c’era più canto, «più di quel che tutti chiamano canto nell’Ifigenia che in qualsiasi opera italiana»86. Gli avversari replicavano dubitando che le arie di Gluck fossero più melodiose di quelle di Iommelli, Piccinini, Sacchini87, e a chi lodava Carissimi per «la facilité de ses chants», ricordavano che il maestro aveva risposto: «o, questo facile quanto è difficile!»88. Si allegava ancora l’autorità di Metastasio per affermare che «la musica italiana deve limitarsi a presiedere ai concerti e a regolare i passi di un balletto, senza mai immischiarsi delle cose del coturno», ossia del teatro tragico89. E si ricordava Metastasio anche per aver dichiarato il guadagno delle sue opere a essere semplicemente declamate e il danno a essere rappresentate in musica90. Si insisteva sul carattere antidrammatico della musica italiana. Si sottolineava che le opere italiane composte da Gluck gli erano costate un mese di lavoro, così come ad altri compositori, ma queste opere non avevano che un mese di vita, mentre le sue gli erano costate tutto un anno di applicazione e «une suer de sang»91. Si ripeteva che le due o tre belle arie di un’opera italiana non bastavano a fare né una tragedia, né una commedia92.
Continuava, a sua volta, l’insistenza sulle conseguenze musicali della diversità delle lingue. «La musica francese – si scriveva, ad esempio – è sovraccarica di desinenze femminili, ma il suo suono è dolce; e non ci si può abituare alla maniera italiana di sentir ripetere venti volte la stessa frase, cento volte la stessa parola, trecento volte la stessa sillaba. Si vedono sempre passare in rivista le a, e, i, o, u; e questa uniformità grava sull’animo e non ci si può acconciare che facendo venire dall’Italia un paio di orecchie nuove»93: che è quasi un compedio di ciò che si diceva e si pensava al riguardo.



XIV. Dal confronto francese al confronto germanico

Il fatto che la grande querelle si concentrasse ancora una volta, come si è visto, sulla proclamata antinomia tra musica italiana e musica francese non toglie, peraltro, che proprio in questa occasione cominciasse a far capolino un altro e nuovo protagonista: quello germanico. In Francia – si nota – ci si è dapprima accontentati della musica francese, «che le nazioni rivali non volevano considerare come musica». Si è, quindi, adottata quella italiana, «che incanta tutta l’Europa». Infine, si è trovato che essa non è soddisfacente per il teatro e che bisogna creare una musica drammatica; e «si è anche già trovato il creatore, i suoi partigiani più caldi lo fanno pressoché discendere dal cielo, ma la verità è che egli viene dalla Germania»94. Di Gluck stesso si dice che ha «saputo unire tutte le più belle parti della musica italiana con alcune della francese, così pure il bello della musica strumentale dei Tedeschi»95.
Un fautore del tolerantisme musical, contrapponendo le due «sette», osservava che «secondo i gluckisti gli Italiani non sanno far altro che titillare le orecchie; essi conoscono solo alcune forme, invero piacevoli, ma uniformi e quindi noiose. I Tedeschi sono i veri musicisti; essi posseggono l’arte, conoscono l’impero dei suoni; essi dominano e comandano alle passioni»96. E nel corso del suo discorso questo fautore della tolleranza tornava più volte sulla musica tedesca, inserendola sempre in un confronto a pari livello con quelle d’Italia e di Germania, e sostenendo che «le tre musiche sono ugualmente buone: la francese e la tedesca camminano verso la perfezione, l’italiana l’ha sorpassata, tutte le tre sono a un degré du but e, quindi, ugualmente suscettibili di elogi e di critiche»97. All’italiana si attribuiva finezza, alla francese delicatezza, alla tedesca forza, ma la finezza sconfinava nel manierismo e nelle sottigliezze, la delicatezza in povertà, la forza in rumore98. Né mancava chi prendeva posizione contro le divisioni nazionali e di scuola in questo campo, e faceva notare che «Napoli non si è mai divisa in “piccinnisti”, “paisiellisti” e “sacchinisti”», mentre «Hasse, Haendel, Bach sono naturalizzati in Italia, a Londra, a Berlino come a Vienna e a Praga»99.



XV. Le opinioni straniere riflettono anche quelle italiane

Su questo sfondo è notevole come si tenda in qualche caso a mettere in evidenza che il successo di Gluck era stato grande anche in Italia, e che a Bologna e a Napoli lo si era salutato come uno dei massimi musicisti del tempo100. Ma in questo periodo più che mai si avverte che le opinioni degli stranieri riflettono in misura non trascurabile il pensiero degli Italiani. Un pensiero che si identifica, certamente, con quello che il fautore del tolerantisme musical attribuiva ai “piccinnisti”: «sostengono che la buona musica è soltanto una, ed è quella italiana; tutti i popoli d’Europa, secondo loro, ne convengono»; e, «se riconoscono forza ed effetto alla musica strumentale dei Tedeschi, è solo per poter aggiungere che spirito, genio e gusto esistono solo nelle composizioni italiane»101.
Questa immedesimazione con la propria musica era un altro tratto distintivo degli Italiani che gli stranieri coglievano con sicurezza. Gli Italiani travedono per il teatro, per la musica, per i compositori e, in particolare, per i loro cantanti; li applaudono a lungo e frequentemente; li tengono in grandissima considerazione. E le cronache teatrali riferiscono ampiamente di questa passione e autorappresentazione degli Italiani in quanto popolo musicale, non meno che di pittori, scultori, architetti.
Certo, noi non possiamo più riprodurre l’opera – che della rappresentazione altrui e nazionale dell’identità musicale italiana fu, tra la metà del XVII e la fine del XVIII secolo, il marchio dominante – nelle stesse condizioni e con gli stessi effetti di allora, innanzitutto e soprattutto per la nostra indisponibilità di “evirati cantori”, ma anche per altre particolarità costitutive dello spettacolo di allora, a cominciare dal “maestro al cembalo” (spesso, l’autore stesso dell’opera) e delle variazioni o aggiunte che da una esecuzione all’altra operavano cantanti e musicisti. Insomma, «un fenomeno artistico continuamente ricreato e ricreabile, tale da non potersi più resuscitare nella sua vera essenza e nella sua reale vivezza»102. Possiamo, tuttavia, ugualmente affermare che l’opera – sia quella “buffa”, sia quella “seria” – fu quel che fu nell’esperienza e nella coscienza degli Italiani non solo per alcune sue straordinarie e irripetibili condizioni di struttura e di esecuzione, bensì per una singolare consonanza con le condizioni della società e della vita italiana, che ponevano il teatro in una posizione privilegiata nella vita sociale.



XVI. Il duro giudizio di Madame de Staël

Di questa singolarità esprimeva un duro giudizio Madame de Staël nel 1816, ossia quando già cominciava ad albeggiare un tempo diverso. «Mi si dirà– scriveva – che in Italia vanno le genti al teatro non per ascoltare, ma per unirsi ne’ palchetti gli amici più familiari a cianciare. E io ne conchiuderò che lo stare ogni dì cinque ore ascoltando quelle che si chiamano parole dell’opera italiana dèe necessariamente fare ottuso, per mancanza di esercizio, l’intelletto di una nazione»103.
La Staël raccoglieva ed echeggiava qui giudizi e pregiudizi correnti da tempo (si è avuta l’occasione di vederne qualche accenno) sul teatro italiano e sul suo uso sociale. Il teatro d’opera italiano non era, però, vanificato nel suo significato artistico e sociale né dall’usura del suo uso, né dall’abuso che se ne faceva. Il senso di una congenialità elettiva tra italianità e teatro musicale si afferma già forte nel corso del secolo XVII e tocca il culmine nel secolo XVIII, per sopravvivere poi a lungo. Non è lo «specchio immediato e “popolare” di una coscienza nazionale ancora incerta e in formazione»104. È, al contrario, la manifestazione di una coscienza nazionale già certa e matura da tempo, e sul piano della connotazione e consapevolezza culturale più che su altri piani. Ancora una volta, bisogna distinguere tra storia della nazione e storia dello Stato nazionale. E – è stato ben detto – «che la società italiana continui a ritenere l’opera seria, strumento privilegiato della propria identificazione anche in una fase di turbinoso mutamento e di novità» è dimostrato alla fine del secolo XVIII dalla «strepitosa, più che decennale fortuna e diffusione capillare» di qualche opera105. Ma lo stesso vale anche per l’opera buffa; e, buffe o serie, vale per le numerosissime fortune di questo tipo, e anche maggiori, che a ogni opera nuova possono toccare, e che vanno, non di rado, ben oltre il decennio.



XVII. Autoidentificazione italiana e denigrazioni francesi

Non che questo fissi in un modulo unico la connotazione della musica italiana. Quella che abbiamo direttamente e, ancor più, indirettamente indicata è la linea prevalente dell’autoidentificazione musicale italiana. Intorno ad essa fioriscono numerose le variazioni e le contrapposizioni, le esaltazioni e le denigrazioni, che configurano varii schieramenti storiografici e critici attraverso le Alpi, senza, però, che questi schieramenti trasversali fra la penisola e l’Oltralpe guastino minimamente la schiettezza e l’evidenza della coscienza italiana in materia.
Alla fine del secolo XVIII quell’autoidentificazione si era tradotta non solo in un vigoroso e diffuso sentimento identitario, bensì anche in un ugualmente diffuso (e, anzi, troppo diffuso) complesso, per così dire, di superiorità: un complesso di superiorità che doveva suscitare e suscitò reazioni risentite da parte transalpina, e, tuttavia, reazioni che non mancano di fornire o suggerire particolari istruttivi sia sulle condizioni effettive della musica e delle attività musicale in Italia, sia, di riflesso, sulla consapevolezza italiana al riguardo.
Un caso particolarmente significativo di tali reazioni è, certo, il vivace, e un po’ perfido, pamphlet di Ange Goudar, Le brigandage de la musique italienne, pubblicato a Parigi nel 1777106, il cui titolo già esprime eloquentemente l’animus dell’autore.
Le recriminazioni a carico della musica italiana si andavano facendo allora più comuni, essendosi negli anni della grande querelle Gluck-Piccinni, ma, oltre a non essere nuove, avevano anche già costituito una consistente piattaforma critica. Abbiamo avuto occasione di vederne qualche esempio. Se ne può aggiungere qualche altro, come l’opuscolo De la corruption du goust dans la musique française, di Louis Bollioud de Mermet, pubblicato a Parigi nel 1746107, e, quindi, una trentina di anni prima di quello del Goudar: un opuscolo notevole per la critica che vi si svolge degli sviluppi della musica francese dopo Lulli.
Il riferimento all’Italia fa parte di questa critica. Si corrompe (vi si dice) il gusto musicale francese anche per l’imitazione eccessiva degli stranieri, e gli stranieri sono – quasi, si direbbe, ovviamente – gli Italiani. «È qui lo scoglio dei nostri musicisti», in quanto si afferma che «il gusto italiano li seduce talmente che essi lo riversano senza discernimento nelle loro esecuzioni e nelle loro composizioni»; anzi, «addirittura, volendo imitarli, prestano spesso agli Italiani difetti che questi non hanno». Corelli era la prova che «la musica italiana non è affatto così bizzarra come la si suppone». Gli harmonistes francesi facevano «un mélange bizarre du goût françois et de l’italien». Non dobbiamo presumere che «noi [Francesi] imitiamo bene la maniera italiana. Non possiamo avanzare giudizi, ma gli Italiani sanno bene la distanza che ci separa dal loro genio e dal loro gusto, che ci sarà sempre impossibile colmare». E del «ridicolo di questa falsa imitazione» ci si poteva ben fare un’idea pensando al ridicolo che i Francesi «troverebbero in un Italiano che volesse copiare la musica francese». Ma gli Italiani (e si avverte qui un filo di ironia) erano su questo punto più accorti dei Francesi: «non si sente, in generale, dire che essi tendano a imitarci in quest’arte»108.
La conclusione era saggia: «ogni popolo tratta le arti secondo il suo genio. Lasciamo gli Italiani alle loro maniere, senza troppo ammirarli o condannarli, e limitiamoci a perfezionare le nostre»109. Ma la saggezza della conclusione non occulta alcuni elementi: che la musica italiana era diffusamente considerata «bizzarra», e anche più bizzarra di quanto in realtà non fosse; che una caratterizzazione “nazionale” della musica fosse non solo possibile, ma evidente e notoria; che non importava tanto (né era, in effetti, possibile) raggiungere l’eccellenza quanto mantenersi fedeli al proprio “genio nazionale” (condizione stessa dell’eccellenza).



XVIII. Il “brigantaggio” della musica italiana secondo Goudar

Su tutt’altro piano si pone e si muove il Goudar. Quasi in inconsapevole rapporto col Bollioud de Mermet, egli diceva che avrebbe dovuto scrivere quarant’anni prima, «quando i Francesi pensavano che la loro musica fosse adatta al genio e al carattere nazionale, e quella degli Italiani ai loro costumi e alle loro maniere». Dopo, le cose erano cambiate; «il generale Gluck e il suo luogotenente Piccinni avevano stabilito il loro quartier generale nel teatro del Palais Royal, dal quale battevano in breccia la musica francese, sicché, dopo che questi due compositori erano stati fatti marescialli di Francia», non era forse il momento di un attacco alla musica in voga. E, tuttavia, Goudar non rinunciava a una, sia pur donchisciottesca, battaglia contro le «ariette italiane»110.
Alla grande contesa fra i fautori di Lulli e quelli di Rameaux era succeduta una più aspra contesa sul come cantare: all’italiana o alla francese111? Anche Goudar era dell’opinione che «ogni nazione deve amare il suo ramage»112. La musica italiana andava, però, ormai scalzando quella francese a Parigi. Era soltanto un centinaio di anni che l’Italia era entrata in questa carriera di primato musicale 113. Dapprima imperava il “recitativo”. Solo in seguito vi fu l’arietta, la «grande arietta», quale la si cantava al tempo di Goudar; ma, raggiunta appena l’eccellenza, essa era andata degenerando «per aver spinto quest’arte al di là dei limiti prescritti ad essa dalla natura»114. E una svolta decisiva in questa degenerazione era stata segnata dall’avvento dei “castrati” come cantanti di eccellenza115.
Il brigantaggio della musica italiana era cominciato con l’adulterazione portata nel recitativo, che «divenne monotono, senza gusto, senza genio; l’attore non cantava più, parlava, e parlava male», mentre «la musica delle ariette divenne ancora più viziosa». Inoltre, «lo stesso brigantaggio venne introdotto nella musica di chiesa». Tuttavia, «malgrado questo primo brigantaggio», varii musicisti (Hasse, Jommelli, Polli, Galuppi e molti altri) mantennero un po’ l’antico gusto; e, però, vennero poi «trascinati anch’essi» nella moda delle roulades (gorgheggi), volades e passages varii, e «l’opera si trovò seppellita sotto milioni di note», poiché, infatti, «non si trattava ormai più di melodia, ma di fare rumore»116.
Peggio ancora che per la musica era per i cantanti. «Non v’è paese al mondo – scriveva Goudar – in cui più che in Italia le donne si danno alla musica teatrale, né ve n’è alcuno in cui esse la conoscono di meno». Su 300 o 400 cantanti in attività, non ce n’erano, a suo avviso («cosa incredibile!»), più di 5 o 6 che conoscessero la musica e in grado di leggerla all’impronta (anzi, di leggere puramente e semplicemente). Le cantanti imparavano (parole e musica) una dozzina di ariette che servivano per tutte le opere e per tutta la vita (e questo «magasin postiche» di musiche veniva detto “quaresimale”: ogni cantante aveva il suo, anche le più grandi). Non si studiava neppure più il solfeggio. Tutte si proclamavano “virtuose”. In realtà, erano donne senza istruzione e senza effettivo talento117.
Quanto agli eunuchi, li si riteneva i maggiori musici, ma, benché la république des eunuches fosse diventata molto considerevole, anche fra loro non si ravvisava che «un très pètit nombre de bons chanteurs». Meno ancora vi erano «de bonnes basses-tailles», ossia buoni baritoni, e, comunque, ve ne erano in minor numero di quello degli eunuchi 118.
Nonostante tutti questi svantaggi, l’Italia, dalle maggiori città fino ai suoi villaggi, era piena di teatri. L’Inghilterra, grande quanto l’Italia, e la Francia, molto più grande avevano ciascuna solo «un opéra». Le città italiane erano ormai «à l’unisson» e «si sentivano delle ariette dove un tempo si sentiva solo il canto degli uccelli»119.
L’elenco dei teatri italiani citati da Goudar è effettivamente impressionante: Alessandria, Bergamo, Bologna, Brescia, Como, Crema, Ferrara, Firenze, Genova, Livorno, Lodi, Mantova, Milano, Modena, Napoli, Novara, Parma, Pavia, Piacenza, Pisa, Roma, Siena, Torino, Trieste, Venezia, Verona, Forlì, Rimini, Ancona, Pesaro, San Giovanni, Reggio etc. etc120. Nei soli Stati del papa ve ne erano ventiquattro121. Montesquieu, che aveva parlato di ogni tipo di repubblica, non aveva parlato di queste républiques à ariettes. Dichiarata l’Italia nation chantante, vi fiorì «un commercio ignoto a Siri, Arabi e Caldei»: quello delle ariette. «L’armonia divenne un’industria pubblica» e apparvero dei mercanti di ariette detti impresari. Si formarono dei magasins d’entrepôt (Bologna lo fu dei cantanti e delle cantanti: una città dello Stato pontificio diventata, inspiegabilmente, «il rifugio dei più grandi peccatori»; forse perché il papa è pere de misericorde?)122. In seguito il commercio era, però, sfiorito. Se nelle città maggiori le cantanti erano ancora retribuite con gioielli e pietre preziose, in quelle più povere (in Romagna, per esempio) ricevevano ormai capponi, anatre, oche, fagiani e, nelle annate buone, una bestia a testa, ma, in quelle cattive, mezza bestia ciascuna (e Goudar descriveva con molto humour l’agitata vicenda della spartizione di un cappone fra due attrici, che aveva fatto «più rumore di quella della Polonia, avvenuta senza permettere alla gallina di gridare, ed era finita in tribunale»)123; ed esse pensavano a far sì che cantassero i loro finanziatori più che esse stesse (e avevano trovato negli Inglesi i loro migliori scolari)124. Senonché, la diffusione dei teatri aveva significato la diffusione dei vizi e delle passioni intrinseche alla vita della scena nelle città sedi dei teatri: «le passioni seguirono le génie de la musique; si può dire che furono tutte à l’unisson»125.
Infine, un altro inconvénient della musica italiana era il poco tempo che si dava ai compositori, ai quali l’impresario comunicava il soggetto dell’opera quindici giorni prima della rappresentazione: giusto il tempo perché essi la storpiassero alla meglio. I maestri avevano allora trovato «un moyen très-court pour composer l’opéra le plus long». Prendevano dei maestri-assistenti (maitres croupiers) ai quali facevano fare tutta la parte del recitativo. Ad essi restavano, perciò, da comporre quindici o sedici ariette. Di queste ne venivano effettivamente lavorate tre: l’aria cantabile, l’aria di bravura e il duetto, perché le altre non erano che «des petits menuets, des rondeaux et autres bagattelles en musique», che non significavano niente. I maestri francesi non lo capivano, ma, quando si diceva che Boranello aveva composto cinquanta opere, era come dire che aveva composto cento ariette e altrettanti duo126.
Si aggiungeva a ciò il fatto che ai maestri non era riconosciuto il diritto di far valere il loro talento. Solo il primo eunuco e la prima donna potevano cantare; gli altri dovevano limitarsi a salmodiare e alla loro riuscita andava sacrificata il resto della composizione. Guai a non rispettare questa regola, o se un secondo eunuco o un’altra attrice cantavano meglio dei protagonisti, per quanto potesse essere difficile il credere che si fosse arrivati a un tale punto di brigantaggio127.
Non era vero neppure che questa facilità di comporre opere producesse soltanto del nuovo. Al contrario. «uno straniero che viaggia in Italia rischia di fare duecento leghe e di ascoltare tutte le sere la stessa opera eseguita da compagnie diverse, soprattutto nel genere comico che è quello del gusto dominante». Anzi, malgrado la ripetizione di queste opere, non c’era paese al mondo che ne fosse più fecondo produttore128; ed è chiaro che per Goudar l’abbondanza era una cosa, la qualità un’altra.
Il guaio stava nel fatto che «le brigandage de la musique italienne» si diffondeva in tutta Europa. Ogni Corte aveva «son brigandage italien»; in tutte le nations chantantes si era diffuso il contagio delle roulades e delle volades: era la grande malattia di moda. Le ariette avevano vinto. Tutte le musiche avevano ceduto a questa. La Francia si era fino ad allora salvata da «questo gusto che non può essere che quello degli Italiani»129. Anch’essa era però, minacciata dall’invasione di un genere di musica ad essa sconosciuto, e Goudar ne dava una prova nell’ampio e umoristico memoriale Requête presentée à Mr. de La Ferté, Administrateur de l’Opéra de Paris, par les eunuques italiens, riprodotto in calce al suo Brigandage130.



XIX. Ancora del “brigantaggio” italiano

Di un interesse, se possibile, ancora maggiore era la domanda sulle ragioni della mancanza di poesia e di «questa degradazione dello spirito umano» nel paese in altri tempi di Orazio, Virgilio, Lucrezio131, che Goudar si poneva nella seconda parte del suo pamphlet.
La risposta era su questo piano non meno severa. Mancanza di libertà. Assenza di reale e concreta, viva e vissuta materia poetica, che veniva di lontano e si rilevava anche nei poeti più celebri (Ariosto, Tasso). Il “genio nazionale” in poesia era quello del sonetto, («versificazione che lascia lo spirito come lo trova») e degli “improvvisatori” (gli Italiani consideravano come un prodigio la famosa Corilla, che faceva dei versi senza «monter sur le Parnase», ma i prodigi in Italia erano rari). Neppure Metastasio scampava a questo giudizio («il est vrai que ce poëte lyrique a des touches divines; il est impossibile de mettre plus de douceur, de cadence et d’harmonie dans une versification chantante, mais ce n’est pas la grande poésie, celle qui transport l’âme, l’agite et la rend convulsive»)132. Da questi poeti i musicisti italiani non potevano trarre grandi ispirazioni.
Meno che mai gli Italiani avevano contribuito ai «grands établissemens en musique»: non nella notazione, che essi avevano lasciato come l’avevano trovata e che era ancora quella dei tempi barbari; le note erano state inventate da un canonico francese; la scrittura musicale rimaneva difficilissima, e si poteva passare una vita a capirla e morire senza riuscirvi. Quanto alle regole della musica, «tutto il contrappunto italiano è oggi racchiuso nella testa di un monaco francescano [il padre Martini]; bisogna baciargli il sandalo per averne della musica, come si bacia la pantofola al papa per avere le indulgenze»133. Le regole, comunque, non sono l’arte; sono il corpo che dev’essere fatto vivere dall’anima, che è il génie musical. La scuola di quel francescano era buona, ma la sua immaginazione non valeva nulla134. E la maggior parte dei maestri italiani erano tanto ignoranti da non conoscere i principii dell’arte. L’acustica, parte teorica della musica, era ad essi del tutto ignota. Meno che mai conoscevano la teoria generale, nella quale i Francesi (Rameau, J.-J. Rousseau) erano molto più bravi degli Italiani, che, anzi, neppure la comprendevano (non più di cinque o sei erano in grado di leggere Rameau o Rousseau). L’unico italiano che se ne era occupato, il padre Martini, aveva fatto, in realtà, storia, non teoria della musica135. Certo, neppure i teorici della musica erano sol per ciò bravi musicisti e la pratica è sempre la migliore scuola delle arti, e il genio musicale è indefinibile136. Goudar non capiva perché Rousseau si riferisse a Napoli (Leo, Durante, Jommelli, Pergolesi etc.) per una esemplificazione del genio musicale. Affermava, però, che negli Italiani «leur premier exercice contribue à affaiblir an eux le génie»137.
Lo stesso discorso valeva «dans la partie de l’accompagnement», per la quale le critiche di Goudar erano ancor più severe che per gli altri punti da lui trattati. Egli si muove invero sulla base di una teoria del suono molto sofisticata. «Nel suono più semplice – egli scrive – c’è una gradazione di suoni, insieme, più semplici e più acuti, che addolciscono, sfumandolo, il suono principale e gli fanno perdere, nella grande rapidità dei suoni, quelli più alti»138. L’armonia è il forte degli Italiani, ma essa «reste pour eux un mystere», e la maggior parte delle loro composizioni sono armoniose senza che essi ne sappiano il perché. Non ve ne sono forse nemmeno quattro che abbiano «letto il trattato sull’armonia del Rameau» o, meglio, che l’abbiano capito139. Manca nei musicisti italiani quella «union ou réunion des pensées qui se rapportent à un tout», in cui consiste essenzialmente la musica140.
Per dimostrarlo Goudar fa «l’anatomia di un’arietta del celebre Paisiello»: comincia col dire all’orecchio degli ascoltatori una cosa molto sensata, e quattro battute dopo ne comincia un’altra, che non ha alcun rapporto con la prima; poi riprende la prima idea che, tagliata dalla seconda, fa in armonia un paralogismo; quindi, svolge un quarto ragionamento, che viene tagliato dal quinto; e il tutto con l’accompagnamento insensato di un’orchestra e con la basse continue che non ha più niente di buon senso, «e tutto in un buonissimo italiano e in versi eccellenti del celebre Metastasio»141. Né gli Italiani si preoccupavano di battere la misura, e, per di più, lungi dall’osservare la stessa misura, cambiavano talora due o tre volte misura nella stessa composizione. Anzi, non consideravano più che apprendisti i Francesi che lo facevano, e definivano, perciò, l’Opéra di Parigi una compagnia di ciechi, che aveva bisogno di un bastone per camminare. E su questo almeno Goudar dava ragione agli Italiani: «il bastone che dà la misura nelle nostre opere è altrettanto inutile che il bastone di maresciallo di Francia nell’esercito»; e, semmai, «più dei Francesi erano gli Italiani, ad avere bisogno di un tale bastone, dato che la maggior parte degli attori e, soprattutto, delle attrici facevano la musica senza conoscerla»142.
Restava, tuttavia, il fatto che le opere italiane erano poco durature, fondate su un gusto discutibile, ispirate a un concetto della fantasia lontano dal vero, dedite a fatue licenze (come quella che a Napoli si chiamava “punto di organo” o “nota ferma”, per cui il cantante era lasciato a se stesso senza che l’orchestra suonasse e indugiava su una nota assunta come base del suo canto, prolungandone il suono fino all’inverosimile; oppure come la “cadenza” alla fine dell’arietta)143.



XX. Consolidamento di bilanci e preminenza del passaggio al confronto germanico

L’ultima parte del pamphlet di Goudar tornava variamente sui punti già da lui trattati o accennati (tra i quali in particolare la diversa musicalità della lingua, nell’italiano molto superiore che nel francese), e si concludeva con la proposta di “statuts du parlement chantant”, ispirato a imporre in tutte le composizioni musicali l’osservanza di determinate qualità (genio, talento, gusto, regole, misura, spirito nazionale), e volto a prevenire che in Francia trionfasse il modo di cantare italiano e si avesse una invasione di eunuchi, sulla base del criterio che «la musica deve seguir il genio della nazione» e non andare né al di sopra, né al di sotto del loro livello144.
Anche in questa ultima parte non mancano osservazioni interessanti, benché il pregiudizio non soltanto musicale e culturale di Goudar nei confronti degli Italiani ne emerga ancor più chiaramente. Esso conserva, tuttavia, sino alla fine il suo valore di documento rilevante della storia musicale italiana ed europea. Molti dei difetti e dei vizi per cui egli vedeva configurarsi come un “brigantaggio” – ossia come esercizio di un arbitrio prepotente e ingiustificabile – l’attività musicale in Italia, da cui innanzitutto la Francia doveva guardarsi, sono poi passati in varii bilanci storiografici anche italiani, oltre che transalpini. Nel periodo immediatamente successivo questi bilanci sarebbero diventati più frequenti, ma anche ripetitivi quanto schematici e stereotipici. Nello stesso tempo il confronto musicale determinante per gli Italiani non sarà più quello con la Francia, bensì quello con la Germania; e allora il negativo ravvisato nella tradizione musicale italiana diventerà più drastico nelle sue configurazioni, così come diventeranno più assertorie e crude e recise le rivendicazioni nazionali della musica come gloria particolare dell’Italia.



XXI. Il nazionalismo musicale di Mazzini

In Mazzini – la cui Filosofia della musica è del 1836 – questi motivi trovano una confluenza spontanea tanto più significativa in quanto esplicitamente e implicitamente si connette a una visione globale, come è noto, del problema nazionale italiano e della stessa storia d’Italia. E basta scorrere lo scritto mazziniana e coglierne riferimenti specifici al rapporto tra musica e italianità per avvedersi di come Mazzini rifletta con la massima immediatezza il processo di individuazione e di discussione dei “caratteri originali” della musica italiana che si era svolto nei due secoli o nel secolo e mezzo precedente.
«La musica è nata in Italia nel XVI secolo con Palestrina». E «oggi anco in fatto di musica corre moda fra alcuni giornalisti di levarsi a nome di non so che musica francese, arcana, contro al teatro italiano»; ma, se io scrivessi cogli occhi rivolti al teatro, e alla scuola – se scuola esiste – francese, mi tacerei». L’Italia aveva insegnato musica ai Francesi – «o quel tanto di musica che può insegnarsi» – fin dai tempi di Clodoveo fino a Lulli, «venuto da Firenze a ordinare le scene francesi». A Mazzini non era riuscito di «scoprire un’orma di questa musica francese ch’altri vorrebbe sostituire all’italiana su’ teatri di Francia». La musica francese – «tolti i motivi italiani che vi s’intarsiano e un tentativo ineseguibile, pur belo d’ardire e di potente concetto, che Berlioz maturava pellegrinando in Italia» – è «in germe e senza speranza di vicino progresso». La «nuova sintesi musicale richiesta dall’epoca sarebbe uscita dall’Italia», e «la sola Germania potrebbe contenderci questa palma».
Per Mazzini, nella musica – per la quale «l’azione della legge generale non fu mai avvertita, né indagata, né sospettata» – «la melodia e l’armonia sono i due elementi generatori», e di essi la prima rappresenta l’individualità, la seconda il pensiero sociale. «Il segreto dell’Arte, il concetto della musica europea» da auspicare sta «nell’accordo perfetto di questi due termini fondamentali d’ogni musica». La musica italiana e quella germanica rappresentavano le due scuole che impersonavano i due termini: l’italiana quello melodico; la germanica, quello armonico. E qui Mazzini specificava che si trattava di un «carattere predominante» in ciascuna delle due scuole, non già di caratteri esclusivi e unici. Specifica, anzi, anche che bisognava guardarsi dall’identificare la melodia con l’«intonazione umana» e l’armonia con l’«istrumentazione».
L’analisi che segue dà al significato dei due «termini fondamentali d’ogni musica» un approfondimento teorico nel più puro stile di pensiero del Mazzini, e non mette molto conto di ripercorrerne la traccia, delineata sul filo dei rapporti fra musica, uomo e storia, Io e Dio, etica e società. Alla fine, appare che la “scuola italiana” rappresenta «l’uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge superiore, non ordinate a un intento, non consacrate da una fede eterna». Quella tedesca è, invece, una «musica di preparazione, musica profondamente religiosa, bensì d’una religione che non ha simbolo, quindi non fede attiva e tradotta ne’ fatti, non martirio, non conquiste»; ti fa toccare «i primi misteri d’una grande iniziazione, non iniziato, non più forte di volontà, non più saldo contro gli assalti della fortuna». Insomma, «manca alla musica italiana il concetto santificatore di tutte le imprese, il pensiero morale che avvia le forze dell’intelletto, il battesimo d’una missione»; e «manca alla musica tedesca l’energia per compirla, l’istrumento musicale della conquista; manca non il sentimento, ma la formula della missione». Perciò, «la musica italiana isterilisce nel materialismo, la musica tedesca si consuma inutilmente nel misticismo». La «scuola musicale europea» dell’avvenire dovrà congiungere questi due termini in una sintesi più alta145.



XXII. Il confronto si accentra sul teatro musicale

Costruzione indubbiamente ed essenzialmente dottrinaria, questa di Mazzini, ma costruzione nella quale – tra idee più, o soltanto, personali di lui e idee correnti nella cultura musicale dell’epoca: la cultura di cultori non professionali di musica, amateurs, dotti, studiosi di filosofia e storia e altre discipline e simili altre componenti dell’opinione colta in Italia e fuori d’Italia – si esprimono convinzioni generali che lasciano individuare perfettamente un modo diffusissimo di sentire sul terreno musicale le identità europee, e non solo, quindi, quella italiana. I decennii seguenti – quelli che porteranno il melodramma italiano da Rossini e Donizetti, ben presenti a Mazzini e dei quali egli parla diffusamente, a Bellini, a Verdi e a Puccini, e il teatro musicale tedesco da Mozart, il cui Don Giovanni appariva a lui senza eguali, fino a Wagner – riecheggeranno, in gran parte, e rielaboreranno i motivi già emersi nella discussione europea dei secoli XVII e XVIII e dei primi decennii del XIX, sul binario del duplice confronto Italia-Francia, prima, e Italia-Germania, poi (e alla fine si dirà pure “musica latina” e “musica germanica”: si ricordi l’idoleggiamento wagneriano della Carmen di Bizet).
È da sottolineare, a questo punto, che il confronto si andrà sempre più accentrando sul teatro musicale, appunto, fino a farne l’elemento pressoché esclusivo dei confronti e delle misure che vi si applicano. L’amplissima area della musica europea non teatrale, non è affatto ignorata nella sua rilevanza materiale, nelle sue caratteristiche tecniche o nella sua amplissima diffusione nella vita sociale e culturale di tutta Europa. Meno ancora è ignorata nelle sue altezze e grandezze, talora vertiginose, da Bach a Beethoven e oltre. Essa non diventa, però, elemento centrale e attivo di quei discorsi di confronto (lo scritto di Mazzini lo dimostra) se non in una minoranza di casi, e, comunque, con un ruolo non primario rispetto allo spazio e allo spessore del confronto che si svolge sul terreno del teatro musicale. Il che potrà anche apparire come un effetto ovvio e naturale del fatto che nel campo della musica non teatrale si va stabilendo dalla fine del secolo XVIII un predominio germanico sempre più marcato, che sembra rendere audaci o ultronei i confronti possibili con altri paesi europei. D’altra parte, però, il ruolo del teatro nella vita sociale fa proprio dei confronti su questo terreno il tema in essi comprensibilmente dominante.



XXIII. Perché la musica dopo le lettere e le arti, la politica e la storia?

Così, melodia, canto puro, armonia naturale e non studiata, freschezza e immediatezza di accenti, profonda vitalità passionale nella tragedia, levità e letizia incalzanti nella commedia, delicatezza di sentimenti e finezza di impressioni, tormenti e travagli dell’animo e della coscienza, amore e libertà, amore e morte, fedeltà e tradimento, e simili altre note finiscono col comporre uno stereotipo dell’italianità musicale. Una italianità che si sente grande e si esalta nel suo melodramma, a dispetto di ogni rischio e realtà di caduta nel “melodrammatico” più convenzionale, ossia nella routine di una convenzione fatta di retorica e di conformismo talora addirittura paesano, ma anche, e ancor più, nella scia di una tradizione e grandezza di arte e di civiltà tanto profondamente sentita quanto effettiva e indisconoscibile anche dalle più severe misure di analisi e di giudizio della storia della musica.
Il graduale formarsi di questo stereotipo musicale italiano, come si è visto, tra la seconda metà del XVII e la prima metà del XIX secolo apporta elementi di evidente interesse, qualità, consistenza e pertinenza alla definizione dell’italianità. Il progressivo accentrarsi della formazione di questo stereotipo – che è anche una visione e una interpretazione storico-antropologico-culturale dell’Italia e degli Italiani – sul terreno del melodramma ha, a sua volta, un significato altrettanto evidente. È come un restringersi dell’Italia in un’attività musicale particolare, che risponde indubbiamente a una vocazione: ma, beninteso, una vocazione storicamente nata e storicamente configurata, non un dato di determinismo etnico. Nello stesso tempo quella vocazione si è tradotta in un costume sociale, per nulla definibile nei ristretti limiti di classe che sono rimasti tradizionali della vita culturale in Italia fin bene addentro al secolo XX. Anzi, la diffusione anche a livello popolare di una sia pure elementare o frammentaria conoscenza del melodramma (in particolare, sub specie del “bel canto” come cosa tutta italiana) ha costituito indubbiamente un dato della identità e consapevolezza social-nazionale che ha una importanza particolare nel quadro generale di tale identità e consapevolezza.
Il melodramma come musica e bel canto ha, dunque, segnato, alla fine, in maniera fondamentale, il processo della presa di coscienza nazionale nell’Italia moderna, segnando sul piano musicale il culmine di quella definizione dei “caratteri originali” dell’italianità sviluppatasi fra il XII e il XVI secolo sui varii piani (letteratura, lingua, arti figurative, politica e pensiero politico, storiografia…) del più ampio ambito proprio dell’idea di Italia. Parallelo alla vicenda della musica moderna, alla quale l’Italia dà l’alto e forte contributo ben noto, e anche da noi qui richiamato, il ruolo della musica in questo processo di presa di coscienza nazionale si delinea tardi, quando, cioè, l’identità italiana si è già largamente definita a tutto tondo e in maniera e misura che non lasciano adito a dubbi sulla personalità storica definita come Italia e Italiani. E parallelo anche alla vicenda della musica moderna è il dato di fatto per cui la definizione dell’italianità musicale viene operata prima in relazione alla Francia e poi in relazione alla Germania.
Può, questo, giustificare o spiegare lo scarso interesse che gli Italiani sembrano portare da principio alla definizione di un carattere musicale “nazionale”? Si è visto che la definizione di in tale carattere procede largamente e a lungo molto più a opera di stranieri che degli Italiani. Solo dal momento in cui l’opera in musica diventa il tema centrale, e, per qualche verso, esclusivo, dei confronti sempre più frequenti fra i “genii nazionali” in Europa, cioè dalla seconda metà del secolo XVIII, diventa davvero forte e generale la partecipazione degli Italiani al dibattito sui “caratteri originali” anche sul piano musicale di ciascuna nazione europea che caratterizza in modo particolare il secolo XIX. Nel momento culminante in cui la nazione si costituisce in Stato nazionale la musica diventa così una colonna portante del sentire italiano (da questo punto di vista la decrittazione del Viva Verdi come Viva Vittorio Emanuele re d’Italia ha un suo valore simbolico che trascende largamente la sua attendibilità cronistica). Le fortune del melodramma nella società e nella cultura del paese vanno viste e giudicate anche a questa luce.
Resta, dunque, soltanto da ripetere che, come si è detto, dal punto di vista generale dell’identità italiana nel corso del tempo, per la musica sembra pervenirsi a una identificazione nazionale quando su altri piani – da quello letterario a quello delle arti figurative, da quello politico a quello storiografico – le carte dell’identità italiana erano già state costruite e portate a una varia, ma sempre robusta maturità. La musica si aggiunge tardi a questo coro. Appena lo fa, vi si staglia, però, subito con una sua parte perfino invadente: la parte per cui, già fra XVII e XVIII secolo, ma soprattutto nel secolo XIX, la connotazione dell’italianità ne diviene più largamente tributaria che per altri aspetti (e tipica è, su questo piano, la vicenda delle arti figurative, all’avanguardia fino a quasi tutto il secolo XVIII, e poi rapidamente declinanti nel panorama della identificazione nazionale, riducendosi al passato più che al vivo e presente dell’identità italiana).

















NOTE
* Questa relazione fu preparata su invito del prof. Mario Ruffini, per un seminario tenutosi a Firenze nell’ambito delle attività del Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max Planck Institut, i cui atti sono di imminente pubblicazione nel volume Musica e Arti figurative. Rinascimento e Novecento, a cura di Mario Ruffini e Gerhard Wolf, Marsilio, Venezia. Dell’anticipata pubblicazione su «L’Acropoli» l’autore ringrazia sentitamente gli editori e il curatore, e in particolare il prof. Ruffini.^
1 Così, per fare solo un esempio fra i tanti, G. Gobber, Lingua e letteratura: esiste un canone italiano?, in «Vita e Pensiero», 89 (2006), fasc. 5, pp. 86-90. La nostra citazione è da p. 89.^
2 Per gli elementi qui riassunti rinvio ai miei lavori: G. Galasso, L’Italia come problema storiografico (Storia d’Italia, dir. G. Galasso, Introduzione), Torino, Utet, 1979; Idem, Nazioni e nazionalismi alla fine del secolo XX, e L’identità italiana: premesse per una storia, ora in Idem, L’Italia sì è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze, Le Monnier, 2002; Idem, Identità e appartenenza, in Simboli d’appartenenza (Catalogo della Mostra di Roma giugno-settembre 2005), a cura di G. Galasso, Roma, Gangemi, 2005, pp. 25-31.^
3 Cfr. F. Testi, La musica italiana nel Medioevo e nel Rinascimento (d’ora in poi: Testi, I), Busto Arsizio, Bramante, 1969, p. 136.^
4 Cfr. G. Confalonieri, Guida alla musica, vol. I (d’ora in poi Confalonieri, I), Milano, Academia, 1950, pp. 92-93.^
5 Gli elementi essenziali della discussione a cui si accenna si possono agevolmente ritrovare in: Tracce di una tradizione sommersa. I primi testi lirici italiani tra poesia e musica, a cura di M.S. Lannutti e M. Locanto (Atti del Seminario di studi, Cremona, 19 e 20 febbraio 2004), Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2005 (e qui, in particolare, la relazione di M.S. Lannutti, Poesia cantata, musica scritta. Genesi e registri di ascendenza francese alle origini della lirica italiana, pp. 157-197, anche per la sua essenziale, ma sufficiente bibliografia; e nella Tavola Rotonda, I primi testi lirici italiani tra poesia e musica. Prospettive di ricerca, gli interventi di P.G. Beltrami, pp. 223-226, e di M. Latella Meneghetti, pp. 239-242).^
6 Cfr. S. Battaglia, La scuola dei trovatori, in Idem, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori, 1965, pp. 186-187. Il saggio del Battaglia risale, invero, al 1941, ma, nonostante le molte novità e i moltissimi studi dedicati all’argomento nel frattempo, non sembra aver perduto nulla della sua efficacia nel delineare il quadro socio-culturale del mondo trovadorico.^
7 Ivi, p. 173.^
8 Confalonieri, I, p. 62.^
9Testi, I, p. 13.^
10 Cfr. M. Mila, Breve storia della musica (d’ora in poi: Mila), Torino, Einaudi, 200512, pp. 24-26.^
11 Testi, I, p. 115.^
12 Confalonieri, I, p. 121.^
13 L’affermazione è di Prosdocimo de Beldemandis, cit. in Testi, I, p. 160 n. 13.^
14 Mila, p. 58.^
15 Confalonieri, I, p. 143.^
16 Ivi, pp. 143-145.^
17 Mila, p. 59.^
18 Ivi, p. 62.^
19 Confalonieri, I, p. 145.^
20 Ivi, pp. 145-146.^
21 Ivi, pp. 148-149.^
22 Ivi, p. 146 .^
23 Cfr. V. Galilei, Dialogo della musica antica e della moderna, a cura di F. Fano, Milano, Minuziano, 1947, pp. 45-46.^
24 Pietro de’ Bardi a Giovan Battista Doni, 16 dicembre 1634, in F. Testi, La musica italiana nel Seicento, vol. I (d’ora in poi: Testi, I, 1), Milano, Bramante, 1970, p. 51 n. 9.^
25 V. Galilei, Dialogo …, cit., pp. 39-40 (dalla lettera dedicatoria «all’illustrissimo mio padrone osservandissimo il signor Giovan Bardi de’ Conti di Vernio, 1° giugno 1581»).^
26 Ivi, pp. 45-48.^
27 Ivi, p. 54.^
28 Ivi, p. 61 (per questa affermazione del Galilei si veda Ivi la n. 19 del Fano).^
29 Ivi, p. 159.^
30 Ivi, pp. 93-94.^
31 Ivi, p. 159.^
32 Cfr. G. Cattin, Il Quattrocento, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, vol. VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, p. 269.^
33 La Response fu pubblicata probabilmente a Parigi, intorno al 1640, senza indicazioni di luogo e di data. Noi citiamo dalla riproduzione anastatica datane da H. Wiley Hitchcock, con introduzione, traduzione in inglese e note, Genève, Minkoff, 1993.^
34 Ivi, p. 4.^
35 Ivi, pp. 4-6.^
36 Ivi, pp. 6-10. Maugars esprimeva questi giudizi facendo «una descrizione del più celebre e più eccellente concerto che [avesse] sentito in Roma», ossia quello tenuto «la vigilia e il giorno di san Domenico [3 e 4 agosto, chiaramente dello stesso 1639 in cui la Response di Maugars fu scritta] nella Chiesa della Minerva».^
37 Ivi, p. 10. Per l’Oratorio e la Congregazione ricordati qui, così come per i nomi dei musici che verranno ricordati dopo si vedano le note del Hitchcock alla sua sopra citata edizione del Maugars.^
38 Ivi, pp. 13-15.^
39 Ivi, pp. 15-17.^
40 Ivi, p. 17.^
41 Ivi, pp. 19-20. Alle pp. 19, 21 Maugars parla anche dei cantanti migliori: Loretto, Marco Antonio, Leonora, Adriana, sui quali si vedano le note del Hitchcock. Nella «vertueuse maison» della Leonora (Eleonora Baroni) lo stesso Maugars fu invitato a dar prova del suo talento alla viola, alla presenza «de dix ou douze des plus intelligens de toute l’Italie». Hitchcock, ivi, p. 55, chiarisce bene che Maugars traduce l’italiano “arie” con airs, ma che questo termine non aveva allora in italiano nulla a che fare con l’opera, essendo legato a «ces chants stophiques» derivati dalla tradizione fiorentina rappresentata da Giulio Caccini e Jacopo Peri. Profittiamo dell’occasione per segnalare che nei testi francesi citati in questo lavoro abbiamo lasciato grafia e accenti così come appaiono stampati.^
42 Ivi, pp. 27-30.^
43 Testi, I, p. 185. Il Testi sviluppa molto, e a ragione, il motivo della dipendenza dai modi francesi della musica italiana di questo genere. Anche per il rotundellus i rondellus un anonimo del tempo dice: «rotundelli sunt canciones francigene» (ivi, pp. 185-186).^
44 Ivi, p. 678.^
45 Galilei, Dialogo …, cit., p. 72.^
46 Confalonieri, I, p. 484.^
47 Il motivo delle varietà regionali come connotato anche identitario, oltre che come realtà storica, è stato particolarmente sviluppato da F. Bologna, La coscienza storica dell’arte d’Italia, Torino, Utet, 1982, a proposito del quale mi sia lecito rinviare a G. Galasso, Storia d’Italia e coscienza storica dell’arte in Italia, in «Rivista Storica Italiana», 118 (2006), pp. 178-187.^
48 Confalonieri, I, p. 368.^
49 Cito dalla riproduzione anastatica ed. Minkoff, Genève 1976. L’edizione originale è datata: A Paris, chez Jean Moreau, rue S. Jacques, à la Toison d’or, vis-à-vis S. Yves, MDCCII, Avec approbation et privilege du Roi.^
50 Ivi, p. 3.^
51 Ivi, pp. 7-11.^
52 Ivi, pp. 11-14.^
53 Ivi, pp. 15-17.^
54 Ivi, pp. 19-20.^
55 Ivi, pp. 20-23.^
56 Ivi, pp. 23-27.^
57 Ivi, pp. 28-29.^
58 Ivi, pp. 30-38.^
59 Ivi, pp. 40-42.^
60 Ivi, pp. 42-46.^
61 Ivi, pp. 46-47.^
62 Ivi, pp. 49-50.^
63 Ivi, pp. 50-60.^
64 Ivi, pp. 60-65.^
65 Ivi, pp. 65-68.^
66 Ivi, p. 81.^
67 Ivi, pp. 89-90.^
68 Ivi, pp. 97-98.^
69 Ivi, pp. 103-114.^
70 Ivi, pp. 114-123.^
71 Per la Comparaison citiamo dalla riproduzione anastatica con indici e note di C. Schmidt, Genève, Minkoff, 1993; per la Défense citiamo dalla riproduzione anastatica presso la stessa casa editrice, che accompagna l’edizione sopra citata del Parallèle.^
72 Défense, p. 166. I passi tratti dal Maugars sono alle pp. 167-171.^
73 Cfr. Querelle des gluckistes et piccinistes. Textes des pamphlets (Paris, Lausanne, Genève, Berlin, Amsterdam, Londres, 1781, 1774-1779, 1781, 1783), avec introduction, commentaires et index de F. Lesure, 2 vol., Genève, Minkoff, 1984.^
74 Cfr. F. Lesure, The Quarrel of the Gluckists and Piccinnists, in Querelle etc., cit., introduzione.^
75 Ibidem.^
76 Querelle …, cit. vol. II, p. 544 (dai Mémoires pour servir à l’histoire de la revolution opérée dans la musique par M. le Chevalier Gluck. A Naples, et se trouve à Paris, chez Billy, Libraire, rue Saint-Honoré, à coté de la Barrière des Sergens, 1781, in 8°. Prix 5 liv.).^
77 Ivi, p. 541.^
78 Ivi, p. 35.^
79 Ivi, pp. 38-39.^
80 Ivi, p. 51.^
81 Ivi, p. 57 (da una lettera imprecisata del Metastasio a M. Mattei).^
82 Ibidem (da una imprecisata Dissertation du celèbre Beccaria).^
83 Ivi, pp. 58-59 (Extrait de l’Histoire de la Musique, par le Père Martini, A Boulogne, 1769)^
84 Ivi, p. 97.^
85 Ivi, p. 101 (Réponse de M. le Chevalier Gluck a un écrit que le sieur Framery a fait paroître dans le Mecure de France du mois de Septembre 1776, Mercure de France, Novembre 1776).^
86 Ivi, p. 116 (Lettre aux Auteurs du Journal de Paris, Vaugirard, le 7 mars 1777, Journal de Paris, 8 Mars 1777).^
87 Ivi, p. 121 (Réponse de M. de la Harpe alla lettera pubblicata nel «Journal de Politique et de Littérature» del 25 marzo).^
88 Ivi, 156 n. 1 (Essai sur les Révolutions de la musique en France, ivi, pp. 190; per la datazione, si veda ivi, di seguito, il relativo Annonce, datato 3 giugno 1777).^
89 Ivi, p. 170 n. 2. (dallo stesso).^
90 Ivi, p. 183 n. 1 (dallo stesso).^
91 Ivi, p. 398 (dalla Profession de foi en musique d’un amateur des beaux-arts adressèe à M. de la Harpe).^
92 Ibidem.^
93 Querelle …, cit. vol. II, p. 66 (Un clou chasse l’autre. Lettre sur l’opéra d’Iphigénie, A Berlin, MDCCLXXIV).^
94 Ivi, p. 196.^
95 Ivi, pp. 249-250 (Réponse du P. Martini a una Lettre de M. L. A., datata 2 dicembre 1776, ivi, pp. 240-248).^
96 Ivi, pp. 339-340 (da Le tolerantisme musical, par M. Bemetzrieder, A Paris, chez l’Auteur, rue Neuve-Saint-Roch, près celle des Moineaux, et chez Onfroi, Libraire, Quai des Augustins, au Lys d’Or, 1779).^
97 Ivi, p. 355 (dallo stesso).^
98 Ivi, pp. 355-356.^
99 Ivi, p. 518 (da Lettre d’Éraste, ivi, pp. 147-174).^
100 Cfr., ad esempio, Querelle etc., vol. I, p. 172 n. 1, dove si ricorda il caso della nobiltà di Bologna che, per ascoltare l’Alceste, aveva sostenuto nel 1775 spese straordinarie, mentre a Milano gli impresari dello Spettacolo a Milano, avendo fatto costruire un nuovo teatro, avevano chiamato per esso Gluck a preferenza di tutti i compositori d’Italia.^
101 Querelle…, cit., vol. II, p. 339 (da Le tolerantisme musical).^
102 Confalonieri, I, pp. 431-432.^
103 M.me de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), a cura di E. Belloriin, Bari, Laterza, 1943, vol. I, p. 8.^
104 Cfr. R. Di Benedetto, Il Settecento e l’Ottocento, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, vol. VI, cit., p. 394.^
105 Ibidem.^
106 Cito dalla edizione anastatica Ams Press, New York 1978. L’Épitre dedicatorie, indirizzata aux Amateurs de la Musique italienne du parterre de l’opéra de Paris, è firmata con lo pseudonimo di Jean-Jacques Sonnette.^
107 Si veda l’edizione riprodotta presso Minkoff, Genève, 1991.^
108 Ivi, pp. 43-44.^
109 Ivi, p. 44.^
110 Le brigandage…, cit., pp. VII-VIII.^
111 Ivi, p. 4.^
112 Ivi, p. 12.^
113 Ivi, p. 34.^
114 Ivi, pp. 35-38.^
15 Ivi, pp. 47-51.^
116 Ivi, pp. 51-54.^
117 Ivi, pp. 54-58.^
118 Ivi, p. 58.^
119 Ivi, pp. 58-59.^
120 Ivi, p. 59.^
121 Ivi, p. 64.^
122 Ivi, pp. 59-60.^
123 Ivi, pp. 60-63.^
124 Ivi, p. 60.^
125 Ivi, pp. 63-64.^
126 Ivi, pp. 64-65.^
127 Ivi, pp. 65-66.^
128 Ivi, pp. 66-67.^
129 Ivi, p. 68.^
130 Per la Requête, ivi, pp. 69-78.^
131 Ivi, pp. 78-79.^
132 Ivi, pp. 79-82.^
133 Ivi, pp. 85-101.^
134 Ivi, pp. 101-102.^
135 Ivi, pp. 102-103.^
136 Ivi, pp. 106-107.^
137 Ivi, pp. 107-109.^
138 Ivi, p. 114.^
139 Ivi, p. 115.^
140 Ivi, p. 118.^
141 Ivi, p. 119.^
142 Ivi, pp. 119-121.^
143 Ivi, pp. 125-127.^
144 Questi Statuts (ivi, pp. 151-155) stabilivano, fra l’altro, che fossero messe al bando tutte le composizioni che mancassero di una delle seguenti qualità: Génie, Talent, Goût, Règles, Misure, Bon sens, Esprit national.^
145 Per la Filosofia della musica si veda G. Mazzini, Opere, a cura di L. Salvatorelli, vol. II, Scritti, Milano, Rizzoli, 1939, pp. 277-318. Il punto di vista dal quale teniamo presente questo testo non sembra frequente negli studi sul Mazzini.^
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