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Mezzogiorno e federalismo: la questione nazionale
di Antonio Maccanico
A partire dal luglio di quest’anno si può dire che la questione meridionale ha riacquistato in certo modo spazio nel dibattito politico: esattamente dal 16 luglio, data di presentazione del rapporto Svimez, che, a differenza degli altri anni, ha avuto un’eco straordinaria nella stampa e nei mezzi di comunicazione di massa; e la validità del rapporto è stata confermata da una contemporanea ricerca della Confindustria sulla economia del Mezzogiorno.
Ciò che ha particolarmente impressionato è la non certo nuova scoperta che a quasi 150 anni dalla fondazione dello Stato unitario il divario tra le due Italie non solo non è stato eliminato ma in certo modo si è addirittura aggravato.
Le reazioni delle forze politiche a questi dati sono state in molti casi improvvisate, nervose, del tutto inadeguate.
Si è parlato di ritorno “alle gabbie salariali”, di partito del Sud, di piano Marshall per il Sud. Non si è mancato di sottolineare le gravi responsabilità delle classi dirigenti meridionali.
Forse l’unico aspetto positivo di queste reazioni è finora il fatto che sembra tramontata la convinzione, almeno nella prevalente parte dei commenti, secondo cui le sorti del Mezzogiorno sarebbero tutto sommato irrilevanti per il futuro dello sviluppo e della crescita del Paese, ed è riemersa l’esigenza inderogabile di una riflessione molto seria sulla necessità nazionale di una politica che abbia l’obiettivo della unione economica del Paese, senza la quale una ripresa stabile della sviluppo dell’intera economia è del tutto irrealizzabile.
Si è riscoperto il ruolo assai positivo svolto dalla Cassa per il Mezzogiorno dal ’51 alla metà degli anni ’70, unico periodo nel quale il Sud è cresciuto più del Centro Nord: dal ’51 al ’73 il rapporto tra investimenti e PIL al Sud è circa raddoppiato dal 17 per cento al 33 per cento, ad un livello cioè di più di 10 punti superiore a quello del Nord. Ma ciò che non è stato ricordato è che “il modello Cassa” fu il frutto di una profonda considerazione del rilievo istituzionale della questione del Sud maturata dagli uomini del “nuovo meridionalismo” del secondo dopoguerra: Vanoni, Saraceno, Menichella, La Malfa, Compagna, Giordani.
Nacque cioè dalla convinzione della necessità di un intervento straordinario dello Stato prolungato nel tempo con risorse aggiuntive certe, che la struttura organizzativa e burocratica dello Stato centralistico e prefettizio non era in grado di assicurare, soprattutto sotto il profilo della difesa dalle ingerenze localistiche e partitiche improprie, inconciliabili con il rigore di una visione
strategica di medio-lungo periodo dello sviluppo della macroregione del Mezzogiorno.
Era indispensabile perciò un ente ad hoc dotato di forte autonomia operativa, del tipo della Tennesee Valley Authority creata negli Stati Uniti da David Lilienthal: così nacque la “Cassa”.
Questo modello entrò in crisi nel corso degli anni ’70 per tre principali ragioni: la crisi petrolifera che produsse una grave scossa al sistema industriale del Paese e pose al primo punto della politica economica la ristrutturazione industriale. Il Mezzogiorno passò in seconda linea, come Saraceno intuì prontamente.
In secondo luogo: la nascita delle Regioni, che iniziarono una puntigliosa contestazione di competenze con la Cassa. Infine l’esplosione dell’autunno caldo, con la tesi vincente “del salario variabile indipendente”, che fece saltare la politica dei redditi fondamento della programmazione prevista nella nota aggiuntiva di La Malfa per la eliminazione degli squilibri strutturali del Paese.
Iniziò così la degenerazione clientelare e localistica dell’intervento straordinario, che toccò il vertice con il terremoto dell’80 in Campania. La “Cassa” fu tagliata fuori degli interventi di ricostruzione affidata ai poteri locali.
Si può ben dire che il fallimento della politica per il Mezzogiorno fu una delle cause della fine della prima Repubblica.
Il richiamo all’esperienza e alla vicenda della Cassa per il Mezzogiorno in un’Italia degli anni 2000 assai diversa da quella dell’immediato dopoguerra offre comunque un insegnamento prezioso, del quale è necessario tenere conto se si vuole affrontare in modo nuovo e convincente il problema della unificazione economica del paese. L’insegnamento è quello dello stretto legame che esiste tra il problema ancora aperto del Mezzogiorno e la irrisolta questione della riforma della struttura istituzionaleamministrativa dello Stato unitario: questione della forma di Stato e problema della unificazione economica del paese sono in sostanza due facce della stessa medaglia. E una vera riforma delle amministrazioni pubbliche, così vitale per il Mezzogiorno è impensabile fuori da un quadro istituzionale meglio definito. Si intende, in altri termini, che un indirizzo politico efficace per l’economia del Mezzogiorno postula e presuppone un quadro istituzionale e amministrativo adeguato.
Sotto questo aspetto nei 150 anni di Unità sono stati registrati due clamorosi fallimenti: lo Stato prefettizio, burocratico, uniforme, iper-accentrato, finito con il fascismo, e lo Stato delle asfittiche autonomie regionali della Costituzione del ’48. Ambedue questi assetti istituzionali si sono dimostrati inidonei ad esprimere una efficace politica di sviluppo per il Sud.
Ora all’inizio del nuovo secolo il quesito fondamentale è: in un paese duale come l’Italia, un assetto istituzionale di forti autonomie, di tipo federale è in grado di consentire gli indirizzi di governo necessari ad una efficace politica di unificazione economica del paese? Con la riforma del titolo V della Costituzione del 2009 si è dato vita ad un nuovo tentativo, ad un nuovo modello di organizzazione statale.
Su questa riforma finora si è molto polemizzato, ma assai poco riflettuto. Essa nasce dalla fondamentale esigenza di conciliare la legittima aspirazione della parte più ricca, più sviluppata del paese ad una maggiore autonomia e a un più robusto autogoverno (esigenza esplosa in tutti i paesi europei, anche i più accentratori come la Francia) e la necessità di assicurare all’area meno sviluppata, che corrisponde a circa un terzo della comunità nazionale, non solo i livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere assicurati a tutti i cittadini, ma anche la destinazione da parte dello Stato di risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione sociale e per rimuovere i persistenti squilibri economici e sociali.
Il testo della riforma non è soddisfacente, ha certamente necessità di correzioni e di emendamenti, ma è innegabile che delinea un sistema in certo modo a geometria variabile, di autonomie anche forti per le aree a maggiore capacità di autogoverno, e di responsabilità diretta dello Stato, del Governo, per le politiche di sviluppo delle aree a minore capacità fiscale, e cioè per la macroregione che è il Mezzogiorno.
I due poli di questo difficile equilibrio sono al terzo comma dell’art. 116, che prevede “ulteriori forme e condizioni di autonomie” analoghe a quelle delle Regioni ad autonomia speciale, che possono essere conferite ad alcune regioni, e il quinto comma dell’art.119, che prevede risorse aggiuntive dello Stato per lo sviluppo e l’eliminazione degli squilibri territoriali nelle aree a minore capacità fiscale. È certamente positivo che si sia iniziata l’attuazione della riforma a partire dall’art.119 sul federalismo fiscale, anche se la legge delega approvata suscita interrogativi ai quali solo i decreti delegati potranno dare risposta nei due anni di durata della delega. Ma la riforma non può limitarsi all’art.119. V’è il problema dell’art. 117, della ampia area cioè della legislazione concorrente Stato-Regioni, che è dominata da molte incertezze interpretative sulle competenze affidate da troppo tempo agli interventi della Corte costituzionale; v’è la disposizione dell’art.118, che stabilisce che «le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni»; ciò comporterebbe un esame approfondito della idoneità dei nostri 8 mila comuni, in particolare quelli del Mezzogiorno, a questo compito e la valutazione delle dimensioni minime necessarie per svolgerlo. V’è da considerare altresì se il modello di governance di comuni, province e regioni abbastanza contraddittorio (elezioni popolari dirette dei capi degli esecutivi e leggi elettorali proporzionali per i Consigli) siano l’ideale per un paese a struttura federale, con spinte contemporanee e contrastanti all’aggregazione e alla frammentazione politica.
In particolare nel Mezzogiorno questo modello di governance è il meno indicato a contenere le degenerazioni clientelari e localistiche.
V’è infine il grave problema della riforma del bicameralismo paritario e la questione della rappresentanza nazionale delle Regioni. Quanto alle risorse aggiuntive dello Stato per promuovere lo sviluppo delle aree in ritardo ed eliminare gli squilibri, sarebbe necessario prevedere una struttura operativa ad hoc.
Come si vede si tratta di un complesso di problemi assai spinosi da affrontare in modo coerente secondo un piano pluriennale di riforma radicale dello Stato e dell’amministrazione che solo un vasto consenso delle forze politiche di maggioranza e di opposizione può rendere realizzabile.
Il federalismo fiscale è necessario per assicurare ad un tempo i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale e per eliminare sprechi ed abusi tramite la cancellazione della spesa storica e la determinazione del costo del fabbisogno standard per i servizi presenti in tutte le regioni, e cioè per mettere ordine nella spesa ordinaria. Ma serve la struttura per l’attuazione del quinto comma dell’art.119, lo strumento dello Stato per l’utilizzazione delle risorse aggiuntive destinate allo sviluppo dell’area sottosviluppata del Sud secondo un piano strategico di interesse nazionale. Il Mediterraneo è ridiventato centrale nei traffici con l’Oriente; l’Europa è interessata allo sviluppo della sponda sud di questo mare. L’Italia e il suo Mezzogiorno possono svolgere un ruolo importante non solo di natura logistica, con un piano infrastrutturale secondo le direttrici europee Berlino-Palermo e il corridoio 8 verso la Puglia e il Balcani.
E si può cominciare subito, dal Piano Strategico nazionale 2007-2013 e cioè dal FAS e dai fondi strutturali europei, evitando la triste esperienza fatta con il precedente piano strategico dissipato in mille rivoli senza costrutto.
In questo modo la politica di riforme e di riorganizzazione istituzionale e amministrativa sarebbe contestuale e interconnessa ad una politica mirante alla eliminazione del divario storico tra le due Italie.
Si opererebbe costruttivamente anche per uscire dalla crisi nella quale siamo ancora immersi, con un progetto per il futuro del paese idoneo a risvegliare le energie morali assopite ma presenti nella nostra comunità nazionale.
Forse questo sarebbe il modo migliore per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia.
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