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Giano tra i Carpazi ed il Don. L’Ucraina alla ricerca del suo ruolo
di Sandro Petriccione
I recenti avvenimenti politici in Ucraina, la più importante delle repubbliche ex sovietiche, che hanno sancito la fine dell’assetto politico risultato della cosiddetta “rivoluzione arancione” non possono, come pure può apparire dallo scarso rilievo dato da molti mezzi di informazione specialmente in Italia, come un fatto meramente locale nella caotica situazione interna che si era aggravata negli ultimi anni. Invece, pur con tutte le specificità del caso, quanto è avvenuto anche per le conseguenze che sta provocando, può essere considerato un punto di svolta della politica internazionale e sarebbe irragionevole sottovalutarne l’importanza.


I nuovi Stati usciti dai trattati di Versailles e quelli dell’ex Unione Sovietica

La nascita di nuove nazioni indipendenti dopo la prima guerra mondiale dalla crisi di Stati di solito sopranazionali fu provocata dalla sconfitta degli Imperi Centrali e, nel caso delle repubbliche baltiche e della Finlandia, dalla rivoluzione bolscevica che ridusse drasticamente il peso della Russia nel contesto europeo. La risorta Polonia la quale manifestò subito la sua vocazione espansionistica, la Jugoslavia, denominata allora il “regno dei Croati e dei Serbi” nel quale si poneva il problema della convivenza di popoli con cultura e storia molto diverse, la Cecoslovacchia costruzione artificiosa sulle rovine dell’impero austro-ungarico (il ministro fascista Grandi la definiva «fungo velenoso nato nella oscura notte di Versailles»!) ebbero tutte negli anni tra le due guerre una vita tormentata.
Diverso è invece il caso delle repubbliche esistenti nell’ambito dell’URSS le quali acquisirono definitivamente l’indipendenza per effetto del patto di Minsk voluto da Eltzin che sancì la fine dell’Unione Sovietica, il primo Stato sopranazionale dell’età moderna, e che, come afferma Putin è stato uno dei maggiori drammi del XX secolo. Le nuove repubbliche sorte dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica potevano essere divise in tre gruppi: quelle del Caucaso (Azerbaijan, Georgia e Armenia) quelle dell’Asia Centrale – srednaia Azia secondo la denominazione sovietica – (Uzbekistan, Tadjikistan, Kirghisistan, Turkmenistan e Kazachstan che però era considerato a sé più che facente parte di questo gruppo) ed infine quelle dell’Europa Orientale Bielorussia e Ucraina comprendenti territori già appartenenti all’impero dei Romanov fin dal XVII secolo e denominati correntemente “piccola Russia”. A queste due repubbliche dell’URSS si riferiva Solgenitzin qualche anno prima del 1992 e del patto di Minsk quando proponeva di abbandonare i territori dell’Asia Centrale frutto dell’imperialismo di Alessandro I nel XIX secolo ed invece di stabilire uno stretto legame dovuto all’affinità culturale e linguistica con l’Ucraina e la Bielorussia allora non indipendenti, ma parte dell’Unione Sovietica. Ma l’improvvisa acquisizione dell’indipendenza avveniva quando, nell’ambito dell’Unione, l’autonomia di queste “repubbliche” era già drasticamente limitata dall’appartenenza ad uno Stato il quale a partire dal periodo staliniano anche per effetto del progresso tecnico e dell’unificazione del mercato, diveniva sempre più centralizzato, cementato dalla direzione unica in politica ed economia esercitata dal Presidium del comitato centrale del PCUS, indipendentemente dalla lettera della costituzione del 1936. Le frontiere di tali repubbliche nell’ambito dell’URSS definite e sancite nel 1924 dal Commissariato del Popolo alle Nazionalità (il cui titolare era Giuseppe Stalin) cioè nei primi tempi dopo la rivoluzione bolscevica, appena prima che si concludesse nel volgere di pochi anni il periodo leninista dell’autodeterminazione (rimasto poi come mèro segno nella costituzione staliniana del 1936) assunsero di fatto un significato puramente amministrativo così che le “repubbliche” altro non erano che regioni oggetto della politica economica e dell’attuazione delle direttive politiche decise dal centro.


Ucraina e ucraini

Negli ultimi anni dell’Unione Sovietica in alcune sue regioni avevano preso vigore dei movimenti indipendentisti; a parte le repubbliche baltiche che costituiscono un caso a sé in quanto acquisite dall’URSS solo nel 1939 anche se nel passato erano appartenute all’impero russo, questi movimenti erano particolarmente significativi in Azerbajan, animati dal conflitto con l’Armenia per il Nagorno Karabach, e soprattutto in Ucraina, una repubblica sovietica vastissima che andava dai Carpazi al mare di Azov e comprendeva i bacini del Dniepr e del Don. Anche la popolazione la quale ormai raggiunge i 46 milioni di abitanti, era – ed è – molto diversificata. Da quella della Galizia e della Rutenia, regioni che facevano parte dell’impero austro-ungarico, fino a quella cosmopolita di Odessa e a quella russa delle più industrializzate regioni orientali. La stessa denominazione di Ucraina da luogo a interpretazioni diverse a seconda dell’accento Ucràina oppure Ucraìna; nel primo caso dal vocabolo russo krai (margine e anche territorio) secondo alcuni etnografi russi sarebbe un termine generico indicante una regione di frontiera, non una nazione; il che implicava che gli “ucraini” altro non sarebbero che russi di una marca di frontiera. Ma in tempi più recenti Lev Gumilev1, figlio della poetessa Anna Achmatova, etnografo molto conosciuto in Russia ed esponente della corrente eurasiatica, ha riaffermato l’unicità etnica e quindi politica della Russia e di tutte le sue regioni slave2. Significative a tal riguardo le parole di Rosa Luxemburg:
Il nazionalismo ucraino in Russia era tutt’altra cosa, diciamo, di quello ceco, polacco o finlandese, bensì niente altro che motivo di affettazione di alcune diecine di intellettuali piccolo borghesi senza alcuna radice nell’economia, nella politica e nella sfera culturale del Paese, privi di alcuna tradizione storica poiché l’Ucraina non è né Nazione né Stato3.

Queste tesi estreme traggono origine dal fatto che il nazionalismo ucraino ha avuto origine e sostentamento in Galizia (la cui capitale è Leopoli, oggi nella repubblica Ucraina) regioni che appartenevano prima alla Polonia e poi all’Austria Ungheria nelle quali si rifugiarono molti Polacchi, vittime della repressione zarista dopo l’insurrezione del 1863 e dove nel corso del XIX secolo si sviluppò la lingua e la letteratura ucraina da Taras Scevcenko fino a Ivan Franko (ma è una “lingua” il napoletano da Giovan Battista Basile a Salvatore Di Giacomo?).
Già prima della guerra del 1914 l’alleanza austro-tedesca aveva cercato in Galizia ed in Rutenia di favorire lo sviluppo di formazioni politiche che erano definite russo-carpatiche, animate da odio per i Russi che definivano “una variante di mongoli”. E la minoranza russa, “i moscoviti” come erano chiamati, fu considerata “quinta colonna” dell’impero zarista e oggetto di persecuzioni e di “pulizia etnica” che, anche se su dimensioni molto più ridotte, richiama la logica seguita dal governo dei “giovani turchi” nell’impero ottomano nei confronti degli Armeni. La politica e l’azione diplomatica antirussa della coalizione austro-tedesca proseguì da parte dei vincitori della prima guerra mondiale come politica antibolscevica che fu alla base dell’indipendenza accordata alle piccole repubbliche baltiche e alla Bessarabia, assegnata alla Romania, che facevano parte dell’impero russo4.


Il periodo sovietico in Ucraina: dal leninismo allo stalinismo

Il problema che si pone a chi voglia prendere in esame la situazione politica dell’Ucraina dopo l’indipendenza e le prospettive per l’avvenire è quello di dare una risposta a come si sia originata e come si sia sviluppata nell’ambito dell’URSS la “repubblica” Ucraina. Come si è detto la politica di Lenin, ancora dominata dalla convinzione della rivoluzione comunista internazionale, sosteneva il principio dell’autodeterminazione ed aveva già portato all’indipendenza della Finlandia. Ma nel caso della “piccola Russia” cioè dei territori dell’estremo Ovest e di quelli sud occidentali, era presente anche l’esigenza di contrastare il peso eccessivo della “grande Russia” nell’ambito dell’Unione (ciò che più tardi non riuscì a Gorbacev nel suo contrasto con Eltzin). Così negli anni Venti del XX secolo, Stalin il quale voleva ottenere l’appoggio dell’Ucraina nella lotta scatenatasi nel PC(b) dopo la morte di Lenin, nominò nel 1925 Lazar’ Moseevitch Kaganovitch segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Ucraina nel quale si scontravano due tendenze: quella della “ucrainizzazione” che fu perseguita adottando la lingua ucraina, accanto a quella russa, e spostando diecine di migliaia di abitanti dalla Galizia, la culla dell’indipendentismo ucraino, alle regioni centrali e inserendo gli “ucraini” nei posti di comando, dall’altra quella della lotta al nazionalismo borghese e piccolo-borghese dato che l’indipendenza – affermava Kaganovitch – era già stata conquistata con la Rivoluzione di Ottobre e col regime sovietico. Questa seconda linea fu scelta da Kaganovitch in acceso contrasto con i dirigenti del partito comunista ucraino V. Chubar e A. Shumski, fautori dell’“ucrainizzazione”, quest’ultimo si appellò a Stalin perché Kaganovitch fosse richiamato a Mosca5. Nonostante le resistenza e le critiche Kaganovitch dette un impulso a tutta l’attività industriale specialmente nella parte orientale dell’Ucraina, mentre non nascose la sua ostilità per il piccolo Partito Comunista dell’Ucraina Occidentale accusandolo di nazionalismo e perfino di tradimento e giunse fino al punto di fare arrestare i suoi dirigenti.
Nel 1928 dopo un’accesa discussione con Stalin che li accusò di antisemitismo, i dirigenti ucraini ottennero alla fine che Kaganovitch fosse richiamato alla segreteria del Presidium del PCUS. Ma ormai la situazione era totalmente mutata e prevaleva la linea stalinista del “socialismo in un solo Paese” e con essa la necessità di uno Stato fortemente centralizzato. Così la politica di ucrainizzazione perse tutto il suo dinamismo e proseguì in tono minore mentre l’autonomia diveniva puramente formale in tutto il periodo che va fino alla fine dell’URSS mentre si rafforzava il processo di integrazione economica in campo industriale, dei trasporti e delle comunicazioni di tutta l’Unione.


L’Ucraina indipendente tra Russia, UE e USA

La situazione appena descritta fu quella che si trovò a fronteggiare il governo dell’Ucraina dopo il 1992; un Paese che rimaneva etnicamente diviso tra le regioni occidentali abitate da cittadini di origine polacca e regioni orientali sostanzialmente russe mentre Kiev e il bacino del Dniepr rappresentavano una zona di passaggio tra Est ed Ovest anche in termini etnici. In mancanza di una scelta politica chiara finirono col prevalere le spinte nazionaliste come quasi sempre avvenne in molti Paesi di nuova indipendenza. Ma i problemi che doveva affrontare il nuovo Stato avevano delle loro caratteristiche peculiari. In primo luogo la separazione da uno Stato sopranazionale che, anche dopo la fine dell’URSS, rimaneva il più vasto del mondo, comportava il restringimento del mercato che era stato quello di tutta l’Unione Sovietica al quale era configurato l’apparato produttivo ucraino, nell’attesa – che dura ancora – che si aprisse all’Ucraina quello dell’Europa Occidentale e degli USA. L’integrazione economica dell’Ucraina nel sistema sovietico si fondava poi sulla disponibilità a prezzi politici delle fonti di energia (petrolio e gas naturale) da cui dipendeva oltre che dal carbone (che si estraeva nel bacino del Don), in primo luogo l’industria siderurgica. Inoltre il legame strettissimo con la Russia in campo linguistico e culturale che si era andato consolidando dal XVII secolo, rendeva quanto mai arduo recidere i legami con la Grande Russia.
Di fatto tutto il periodo della presidenza di Leonid Kuchma, pur considerato un filorusso, fu dominata dall’indecisione. Basti pensare che furono a capo del governo prima Jushenko – il futuro capo della “rivoluzione arancione” – e poi Viktor Janukovitch il leader del “partito delle regioni”, forte nella parte orientale dell’Ucraina. Allo stesso tempo la privatizzazione dell’industria di Stato favoriva il sorgere di “oligarchi” e di una corruzione generalizzata mentre i timidi tentativi di avvicinamento alla UE rimanevano lettera morta ed allo stesso tempo i rapporti con la Russia sempre difficili, erano condizionati dallo stato di permanente crisi dell’economia di quel Paese seguita alla disgregazione dell’URSS fino al tracollo finanziario del 1999 che portò alla fine del corrotto regime di Eltzin al quale pure non era mancato il sostegno politico dell’Occidente. La “rivoluzione arancione” del 2004, sostenuta da UE e Stati Uniti, e le manifestazioni a Kiev in occasione delle contestate elezioni di Victor Janukovitch alla presidenza, traevano origine dall’immiserimento delle classi popolari e dalla reazione alla corruzione dilagante; ma aveva i suoi sostenitori nella parte occidentale dell’Ucraina, in particolare la Galizia e la Rutenia, le regioni più povere con una popolazione di origine polacca. Furono gli studenti, i professori e i piccoli imprenditori di Leopoli ad animare la protesta del movimento “arancione” e le manifestazioni nella piazza Maidan a Kiev che provocarono il deciso intervento diplomatico della UE e degli USA a favore di Jushenko che risultò eletto presidente col 52% dei voti, concentrati nella parte occidentale e centrale dell’Ucraina. Certamente nelle valutazioni dell’Occidente contavano molto anche considerazioni geopolitiche perché l’Ucraina svolge una funzione di raccordo con l’Europa della UE avendo frontiere con molti suoi Stati Membri (Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia) ed una estesa costa sul Mar Nero da Odessa a Feodosia che la mette in contatto con tutti i paesi rivieraschi a cominciare dalla Turchia e dalla Georgia.
Ma il motivo dominante dell’intervento degli Stati Uniti al quale seguì quello della UE fu la conseguenza politica e l’attuazione concreta della dottrina Bush-Rice fondata sulla convinzione che si presentasse l’occasione storica della trasformazione in senso democratico occidentale dei regimi seguiti alla dissoluzione dell’URSS che dominavano gli Stati ex sovietici e – perché no – anche della Russia. Gli strumenti adoperati erano quelli del soft power, cioè l’impiego dei mezzi di comunicazione di massa e delle ONG (organizzazioni non governative) per favorire il rovesciamento dei regimi esistenti ed un diverso orientamento di politica estera in senso più favorevole ai paesi Occidentali ed ostile alla Russia. In tal modo era esclusa l’alternativa, che pure avrebbe potuto esser presa in considerazione, di una lenta e faticosa trasformazione democratica senza il ricorso alla piazza dei paesi ex sovietici almeno di quelli più progrediti. Tra Walesa e Dubcek rappresentanti due modi di uscire dal regime comunista veniva scelto il primo.
E l’inizio e anche il più importante caso dell’attuazione della dottrina Bush- Rice fu appunto quello dell’Ucraina con la vittoria del filoamericano Yushenko. Ma le aspettative dei sostenitori – in Ucraina ma soprattutto nella UE e negli USA – della “rivoluzione arancione” che doveva costituire la premessa per l’instaurazione di un regime democratico, vennero presto deluse. La corruzione riprese tutta la sua forza ed investì la famiglia dello stesso presidente mentre la crisi economica generava effetti asimmetrici dal punto di vista regionale e da quello della distribuzione del reddito creando altro malcontento. La continua litigiosità delle forze politiche che avevano formato la nuova alleanza “arancione” portò allo scioglimento del governo e alla rottura con Yulia Timoshenko che era stata la principale esponente della “rivoluzione”. In politica estera sarebbe stata necessaria a Jushenko una grande prudenza per tener conto del ruolo di equilibrio tra Est e Ovest che l’Ucraina avrebbe dovuto svolgere, tenuto conto anche della sua spaccatura all’interno e degli stretti rapporti economici con la Russia. Invece l’orientamento nazionalista decisamente filo occidentale (il “nazionalismo cavernicolo” come dicevano i suoi avversari) e soprattutto antirusso qualificò la sua politica fino a manifestare l’intenzione di uscire, come la piccola Georgia, dal CSI (Comunità di Stati Indipendenti un’organizzazione che stabilisce dei tenui legami con la Federazione Russa) e con il tentativo di creare alleanze come la GUM (Georgia-Ucraina-Moldavia) e, insieme alle repubbliche baltiche, membri della NATO e della UE, una “Comunità di Stati per la Democrazia” che ricorda la “cintura sanitaria” in funzione antibolscevica degli anni Venti del XX secolo.
Il crollo di Jushenko e del suo partito “Nascia Ucraina” ridotto al 5% e la sconfitta della Timoshenko alle elezioni politiche del 2010 rappresentano non solo la fine del movimento “arancione” ma della dottrina Bush-Rice e della conseguente politica nei confronti degli Stati ex sovietici. Il contraccolpo di quanto avviene in Ucraina non tarderà a farsi sentire in Bielorussia, nel Caucaso ed in Asia Centrale.
Ma anche per Janukovitch si presenta il problema, che speriamo si dimostri capace di affrontare, di rendere possibile la convivenza delle regioni ricche e di quelle povere dell’Ucraina, divise anche da caratteristiche etniche e religiose. E inoltre, scartata come politicamente non percorribile la strada di un’adesione alla NATO che suonerebbe come una inaccettabile provocazione per la Russia, come assicurare il mantenimento della neutralità dell’Ucraina e di buoni rapporti con la UE, pur escludendo una partecipazione che probabilmente oggi non vorrebbero nemmeno gli Stati Membri dell’Unione, ponendo fine ad aspirazioni espansionistiche di alcuni circoli politici occidentali? La questione centrale e decisiva per Janukovitch rimane quella del rapporto con la Federazione Russa. Si avvera quello che nel 1997 Brzezinski, che non mostrava certo simpatie per la Russia, prevedeva6: che cioè con l’andare del tempo i paesi ex sovietici, pur mantenendo la loro indipendenza politica avrebbero sempre più finito per gravitare dal punto di vista economico – e soggiungiamo noi finanziario – attorno ad una grande potenza regionale quale la federazione Russa. Il successo della politica di Yanukovitch dipende dalla capacità di far fronte ad una ambiguità oggettiva che caratterizza in questa fase storica il ruolo dell’Ucraina da una parte legato alla sua funzione di area di passaggio tra Oriente e Occidente e quindi ad una politica di buone relazioni con la UE, e con la Turchia; dall’altra di un’economia con forte integrazione con il sistema economico-sociale russo e con il mantenimento dei secolari legami culturali e linguistici con un paese il quale con tutti i suoi difetti appartiene al novero del gruppo di grandi nazioni emergenti dalle quali dipenderà il nuovo assetto politico internazionale.



NOTE
1 Si veda L. Gumilev, Ot Rusi k Rossii; Ocherki etnicheskoi Istorii Moskva, 1992 ed il libro di J.H. Billington, Russia in search of itself, Baltimore, John Hopkins, 2004.Top
2 Le tesi delle correnti eurasiatiche di Lev Gumilev e di Aleksandr Panarin fino a quelle filofasciste di Alexandr Dughin sono esposte lucidamente da Marlène Laruelle in Russian Eurarsianism (an ideology of Empire), Baltimore, John Hopkins, 2008. È curioso osservare che tra i propugnatori dell’eurasianismo furono alcuni tra i più grandi linguisti del XX secolo: N.S. Trubetzkoi, R. Jakobson, P.N. Savitzki.Top
3 R. Luxemburg, Rukopis’o russkoi Revoluzii Voprosy Istorii, 1990, citato dal politologo nazionalista russo Andrei Vadjra Ucraina ot Mifa k Katastrofa Yandex.ru. Top
4 Si veda il terzo volume (1919-1939) del manuale sovietico Istoria Diplomatii, a cura dell’accademico V.P. Potemkin ed in particolare il capitolo Versalski Mir del professor I.I. Minz, Moskva-Leningrad, 1945, nonché C.A. Macartney e A.W. Palmer, Independent Eastern Europe, London, Macmillan & Co, 1962.Top
5 Si veda il capitolo su L.M. Kaganovitch e in particolare Vo glave Ucraini nel libro di R. Medvedev, Oni okrujali Stalina, Moskva, Politizdat, 1990.Top
6 Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, New York, Basic Books 1997.Top
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