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Ciò che ha impedito alla cultura politica del comunismo italiano di perseguire la verità e di conoscere la realtà
di Piero Craveri

La speranza c’è, quando uno crede
Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
E che vista, tatto e udito non mentono …


(Milosz, Poesie)



Nello sciogliere i fili che legano la rivoluzione francese a quella russa dell’ottobre 1917, Furet ha sottolineato come l’una ha trasmesso un retaggio, che è parte intrinseca e determinante della nostra civiltà, e l’altra ha fatto sì che «il sogno dell’eguaglianza, si trasformasse nell’incubo del totalitarismo», non lasciando dietro di sé pressoché altro che questa memoria.
Il mito dell’eguaglianza, d’altra parte, attraversa tutta la storia dell’umanità ed è difficile pensare che, in qualche modo, esso non torni continuamente a riproporsi. Ma certamente non secondo gli esempi proposti dal movimento comunista durante il secolo passato, che non sono stati soltanto il proseguimento di un sogno, ma una catena di eventi, ancora non del tutto spezzata, volta a realizzarlo nelle varie forme del cosiddetto “socialismo reale”. Hobsbawn ha visto nel mito egualitario la fonte da cui hanno proceduto due grandi rivoli, quello del movimento comunista e quello delle socialdemocrazie. Invero da essa, nel ’900, ne sono discesi anche altri, seppure non soltanto contraddistinti da questo tema. Ora l’interrogativo da porsi non è tanto relativo al quanto di eguaglianza essi abbiano perseguito e in effetti realizzato, ma al come, e ancora a quale tipo di essa. A riguardo si dice che senza democrazia non può darsi eguaglianza, perché la democrazia è già forma di due momenti essenziali dell’eguaglianza, quella civile e quella politica. L’eguaglianza sociale, come progetto politico, del resto nasce da essa, come suo momento sostanziale, e storicamente costituisce una costante linea di tendenza; sotto certi aspetti anzi si presenta come tendenziale condizione della democrazia stessa. Il socialismo fu l’accentuazione di questo terzo elemento dell’eguaglianza sociale, che si propose anche, per un lungo tratto, come negazione degli altri due, nella sua esplicita polemica contro la democrazia borghese. L’esperienza comunista del “socialismo reale” ne fu poi la negazione totale, e l’eguaglianza totalitaria che essa realizzò, non fu neppure piena eguaglianza sociale, generando nella sua struttura piramidale e gerarchica nuove insolubili diseguaglianze.
Tuttavia non può propriamente dirsi che l’incarnazione comunista di questo mito, nel suo lungo percorso politico e nelle sue diverse realizzazioni, sia stata caratterizzata da un’attitudine di tipo conformistico. Da essa certamente si è generato più di un conformismo, specie nei paesi che passarono attraverso la sua realizzazione totalitaria, se di conformismo si può parlare nell’atteggiamento di chi dovette passivamente subire quel regime politico: basta in proposito rinviare all’analisi che ne fa Milosz ne La mente prigioniera. Più di altri movimenti di questo secolo, inoltre, il comunismo si è organizzato sulla base di un’ortodossia ferocemente determinata a sopprimere qualsiasi devianza, il che appunto porta come naturale conseguenza il conformismo quale abito mentale. Ma tuttavia non si può non dire che l’adesione al comunismo fu in principio quell’atteggiamento passivo, che il conformismo sempre postula. In particolare nei partiti comunisti che continuarono ad operare in regimi liberal-democratici, come il PCI, l’adesione rimase un principio attivo. Anzi, quanto più si risale all’origine della storia comunista, non si tratta di un’adesione, ma piuttosto di una identificazione consapevole e volontaria, cosicché il termine proprio sembra essere quello di “fideismo”, che può volgersi in “fanatismo” o in “cinismo”, ma è altra cosa.
Benedetto Croce, recensendo sui «Quaderni della Critica», nel dicembre 1946, Buio a Mezzogiorno, notava che «a mente fredda il caso del libro di Koestler non è nuovo» e riproponeva quel fenomeno che nella storia va sotto il nome di «fanatismo».
Il fanatismo – egli osservava – nel suo intrinseco, è l’assunzione di una regola unica o suprema, che sopprime o soverchia e mette a tacere il pensiero che pensa e che esercita la critica, e la coscienza morale, che moralmente si risolve e crea le azioni solo se conformi. Che quella regola, la quale disumana l’uomo traendolo fuori di se stesso, si fondi sopra una rivelazione religiosa o sopra un falso raziocinio o sopra un concetto astrattamente concepito e unilaterale, o sopra un’immaginazione scambiata per realtà, o sopra l’autorità di un uomo o di un istituto, comunque essa sia nata, comunque si impianti e si fissi nell’animo, l’essenziale, come si è detto, sta nella soppressione e sostituzione che essa esegue del pensiero critico e della coscienza morale.

È un registro questo che noi riscontriamo come caratteristico dell’identità storica anche del comunismo italiano e che segnò profondamente le prime due generazioni dei suoi militanti. Chi abbia consuetudine con le biografie della prima generazione comunista sa che esse costituiscono per lo più una galleria di figure tagliate nella pietra. Si prenda il caso preclaro di Giorgio Amendola. Nella sue Lettere da Milano, pubblicate nel 1973, rievocando gli eventi del suo esilio parigino, tra il ’37 e il ’40, su due passaggi cruciali della storia dello stalinismo di quegli anni fornisce, senza commento, anzi con implicita riproposizione delle posizioni di allora, queste annotazioni autobiografiche:
ricordo di essere stato vivacemente criticato in una riunione, perché, candidamente, dopo qualche settimana di soggiorno a Parigi, avevo confessato di non aver ancora avuto il tempo di leggere La conquista del bolscevismo, il testo del famoso rapporto di Stalin del 1937, che diede il via alla lotta e ai processi contro le opposizioni di destra e di sinistra, contro trotskisti e buchariani. Ora, io approvavo senza alcuna riserva, anzi con entusiasmo, il vigore e la durezza impiegati da Stalin contro quelli che venivano indicati nemici del socialismo e agenti dell’imperialismo. Di fronte alla capitolazione delle democrazie occidentali, Stalin ripeteva la lezione giacobina del terrore, dell’implacabile violenza esercitata a difesa della patria del socialismo, contro gli agenti del nemico. Ero, insomma, staliniano come tutti, e forse più degli altri. Ma non sopportavo certe ipocrisie formali.
Poco oltre affrontava l’altro tema cruciale del patto Hitler-Stalin, avvertendo che la discussione «vedeva i compagni politicamente divisi», perché l’articolo di Dimitrov, La guerra e la classe operaia dei paesi capitalistici, aveva affermato che, se in un primo stadio «l’Italia, la Germania e il Giappone, si erano presentati come stati aggressori», al presente lo erano «gli imperialisti francesi ed inglesi».
Era evidente – nota Amendola – nello scritto di Dimitrov, la cautela osservata nella critica all’imperialismo tedesco, e la severa polemica condotta con molte argomentazioni contro l’imperialismo inglese e francese. Voleva dire questo che bisognava considerare gli imperialismi inglese e francese come i nemici principali? Vi erano compagni che giungevano a questa conclusione. Mi sembrava evidente che Dimitrov avesse sentito il bisogno di spiegare i motivi che avevano indotto l’Unione Sovietica a rompere le estenuanti trattative con l’Inghilterra e con la Francia per firmare il patto tedesco-sovietico. Questa mancanza di proporzione nella critica ai vari imperialismi indicava la necessità di una giustificazione, era in fondo l’espressione di un’esigenza difensiva.
La rievocazione di questi eventi non sembra indurre Amendola a riconsiderarli criticamente. Essi sono proposti come momenti di un passato lontano e in quanto tali superati. Di mezzo c’erano state tante cose; da ultimo, con Praga, nel ’68, il PCI aveva operato il suo primo deciso strappo con l’URSS. Ma in realtà quello che qui si affermava e si celebrava era la continuità della storia comunista. Del resto gli episodi sopra evocati si presentavano ad Amendola quali devianze, da proporre come marginali, nel corso maestoso di una storia, segnata da un’altra decisiva continuità, quella tra antifascismo e democrazia. Salvo che la storia dell’antifascismo, ed anche quella della Resistenza, non fu propriamente soltanto una storia di lotte per la democrazia, fu anche altro, perché le forze che si unirono contro il fascismo, in primo luogo i comunisti, ebbero altri pregnanti obiettivi politici, che presupponevano la sconfitta del fascismo, ma non si proponevano necessariamente la democrazia, come in effetti questa non si realizzò nei paesi dell’Europa dell’Est. Al contrario forze culturali e politiche di indubbia matrice antifascista si ponevano contro il comunismo sovietico, sulla base di analisi che risalivano agli anni ’30 e che i decenni del secondo dopoguerra ebbero modo di svolgere in modo sempre più puntuale ed incisivo, rimosse da una parte della cultura italiana, che doveva riscoprirle poi negli anni ’70, quando il dissenso sovietico fece definitivamente breccia in Francia e nel resto dell’Europa continentale.
La democrazia fu da parte del PCI una scelta politica, a partire dal ritorno di Togliatti, nell’inverno del 1944, e questa scelta segna indubbiamente un discrimine nella storia del comunismo italiano. Oggi sappiamo che essa fu presa in piena sintonia con la strategia post-bellica di Stalin, che questi anzi precorse molte delle sue direttive, non avversandone nessuna, dal partito nuovo col suo carattere nazional-popolare, alla democrazia progressiva. La continuità sarebbe dunque intrinseca a questa scelta e l’ombra di Stalin la qualificherebbe come scelta meramente tattica.
E tale fu per un lungo tratto, ma non fu solo questo, perché una democrazia, praticata anche malgré soi, che comporta inoltre una intensa opera di elaborazione ideologica e culturale e che viene proposta come parte costitutiva della stessa identità comunista, non può essere liquidata come una semplice finzione, perché è invero una storia che si radica nella formazione di nuove generazioni di militanti e dà un’immagine surrettizia diversa della natura stessa del comunismo. Mutano anche i gruppi dirigenti, con marcate soluzioni di continuità, che non si riscontrano altrettanto profonde in altri partiti della nostra democrazia repubblicana, da quella operata dallo stesso Togliatti nell’VIII Congresso del 1956, fino all’epoca di Berlinguer, per non dire delle metamorfosi degli anni ’90. Sotto questo aspetto continuità e rotture si mescolano, segnando un percorso sempre più complesso, che è stato solo parzialmente studiato, sia sul versante organizzativo, sia su quello più propriamente della cultura politica.
Il problema da intendere resta tuttavia ancora proprio quello della continuità. Perché infatti nella storia del comunismo italiano la scelta della democrazia non comporta la rottura con lo stalinismo, che i socialisti invece operarono, determinando lacerazioni profonde al loro interno? Qui il fideismo non c’entra più, perché siamo di fronte a due scelte assai divergenti, che inoltre rispondevano a realtà politiche dalle marcate differenze, facilmente riscontrabili, malgrado la cortina di ferro, e che non potevano quindi essere fideisticamente operate tutte e due. Si è parlato di “doppiezza”, in particolare riguardo alla personalità di Togliatti. Ma questo è appunto il vero conformismo intellettuale e politico di tutto il comunismo italiano, in questa sovrapposizione acritica di due storie tra loro in drammatico contrasto. Ed è su ciò, appunto, che viene operandosi il passaggio dal fideismo al conformismo, o meglio una sorta di difficile sovrapposizione dell’uno sull’altro. Passaggio che resta comunque marcato dal fatto che la fedeltà alla prima storia, quella della rivoluzione leninista, incarnatasi nel “socialismo reale” stalinista, rimane decisiva, l’autentico e originario elemento dell’identità e della continuità comunista.
In questo amalgama contraddittorio il registro democratico viene comunque redatto con canoni peculiari che resero possibile una sintonia con quella idea di continuità, così necessaria all’identità comunista. L’amalgama ebbe successo e si tradusse in una tendenziale egemonia sulla cultura italiana. È questo appunto il grande pasticcio ideologico, proprio del comunismo italiano, a partire dal secondo dopoguerra. Come esso abbia potuto esercitare tanta influenza e tradursi in una complessa vulgata, che si radicò profondamente nella intellettualità italiana, ha varie spiegazioni. Si tenga conto che nessuna delle sue proposizioni designava in realtà una democrazia realmente operante nel senso occidentale del termine; inoltre nessuna delle sue analisi e dei suoi obiettivi politici andava nel senso di quelli che erano gli effettivi sviluppi della società industriale contemporanea: non la concezione dello Stato, tantomeno quella del mercato, non la strategia sindacale, non l’azione parlamentare, divisa tra opposizione e consociazione, non la promozione del dibattito culturale, piuttosto rivolto ai temi del passato che alle analisi sul presente e sulle prospettive a venire.
A partire da ciò una delle ragioni del suo successo fu probabilmente proprio quella di non formulare una coerente strategia di modernizzazione culturale, istituzionale, civile e politica, quale lo sviluppo economico e il mutamento sociale postulavano. Senza rinnegare la sua premessa messianica e il modello stesso in cui si incarnava, cioè il socialismo reale, facendo anzi di questo riferimento una forza, in realtà quell’amalgama spurio costituito dalla propaganda ideologica comunista forniva, per il quotidiano della cultura corrente italiana, l’immagine di un modello intermedio, in cui le scelte non avrebbero mai dovuto essere traumatiche, che conteneva alcuni “elementi di socialismo reale” e che stendeva un rassicurante velo di conservazione rispetto ai più traumatici effetti del progresso economico e sociale in un sistema capitalistico.
Questo contraddittorio spartito si coniugava con un aspetto profondo del conformismo italiano, lo stare con gli innovatori purché non si proponessero realmente di innovare. In effetti il riformismo comunista fu assai povero ed anche nella stagione dell’unità nazionale, in cui incise in profondità, si rifece ad idee che a lungo il centrosinistra aveva incubato senza riuscire a dare un esito politico. Il riformismo italiano negli anni ’50 e ’60 ebbe la sua maggiore stagione e fu piuttosto appannaggio delle minoranze laiche, come Il Mondo e Nord e Sud e dei socialisti e di alcuni settori della stessa DC. A questo patrimonio nuovo di idee il partito comunista restava polemicamente estraneo, anche se con esso cadevano molti presupposti della sua impostazione storico-ideologica. La questione contadina, e con essa quella meridionale, si volgeva nei problemi del nuovo urbanesimo, la storiografia gramsciana sulla storia d’Italia veniva oscurata nelle sue stesse fondamenta, in fine il principio dell’egemonia operaia si esauriva nel declino della grande fabbrica taylorista e fordista, mentre il neocapitalismo della grande impresa oligopolistica cedeva il passo ad una struttura industriale di piccole e medie imprese.
La dimensione ottimale nella quale operava l’esperienza comunista, era quella locale, e non tanto quella di dimensione metropolitana, quanto piuttosto quella rurale e quella civica, tradizionale del municipalismo italiano. E a partire da ciò il PCI seppe poi sviluppare capacità di governo rispetto a reticoli più complessi e a realtà più moderne, distrettuali, provinciali e regionali. Ma a livello più generale, nel passaggio dall’amministrativo al politico, la cultura comunista celebrava conformisticamente i suoi fasti in una sostanziale negazione della modernità, peraltro variamente condivisa con altre forze politiche, anche di governo.
La formazione di questo grande amalgama va colta fin dalle origini nella storia del comunismo italiano. Norberto Bobbio ha notato come l’esperienza de l’«Ordine Nuovo» si presentò come un’espressione abbastanza caratteristica di socialismo «non materialistico, ma etico e fideistico». In essa la contrapposizione è tra fideismo e determinismo, fatalismo e volontarismo, e sta a connotare quella peculiare ricezione del leninismo che fu propria di Gramsci e che è una sublimazione dell’agire politico, in cui si esplica la contiguità delle sue formulazioni ideologiche con l’idealismo; propriamente una specie di reductio storicistica del materialismo dialettico, rimanendo fermi, come riferimento fondamentale, i postulati del materialismo storico. Una lettura di Marx attraverso Croce, più ancora Gentile, e Lenin. La lettura di Lenin, naturalmente, inseriva su quella idealistica il suo volontarismo e generava gli incerti contorni di una filosofia della prassi in cui l’atto rivoluzionario era il punto focale volto a mutare la società individualistica, quindi classista, in società collettiva, nella cui appartenenza l’uomo avrebbe realizzato la sua libertà sostanziale. Con Gramsci siamo così in realtà del tutto fuori dalla democrazia, intesa in senso proprio. La società collettiva è eterodiretta gerarchicamente dal partito, che vi esercita la sua egemonia, e attraverso di essa svolge la sua fondamentale funzione educatrice e moralizzatrice. Tuttavia, rimane l’essenza di una problematica che il leninismo, almeno nella prassi, abbandona, probabilmente un’eco soreliana, o meglio una ricezione in chiave leninista di Sorel, e cioè che la “classe operaia” in Gramsci, pur sotto la direzione del partito, partecipa in quanto tale al processo rivoluzionario attraverso suoi istituti, di cui i “consigli” sono la forma primaria. Gramsci mutua da Lenin un modello, che non è necessariamente un processo rivoluzionario, nel senso di una presa del potere statale, e ne fa un paradigma concreto-astratto della cosiddetta “transizione” al socialismo. C’è in esso tutt’al più un’idea di democrazia diretta, ma questa conferisce comunque in qualche modo una “forma” al processo rivoluzionario su cui la prassi leninista era già passata oltre, dopo l’ottobre 1917.
È un principio dottrinario che egli svilupperà nei Quaderni, ma che già nell’autunno 1926 l’aveva messo in contrasto con gli esiti dello scontro politico che allora si svolgeva all’interno del PCUS. Gramsci è precocemente fuori della linea dell’Internazionale comunista, e fu il carcere fascista, con il martirio della sua esistenza, che probabilmente lo salvò all’ortodossia. Questa avrà poi mani attente, sotto la regia di Togliatti, nella preparazione della prima edizione dei suoi Quaderni dal carcere, che attendono in realtà ancora una lettura critica volta tra l’altro a farne emergere i sensibili punti di polemica con il partito sullo stalinismo: per la diversa interpretazione del leninismo, per il rifiuto di allinearsi su posizioni settarie, di rottura frontale dell’unità democratica, che caratterizzarono l’avvio della guida staliniana dell’Internazionale comunista. Tema quest’ultimo largamente recuperato dalla vulgata del primato e della coerenza antifascista dei comunisti. Ma la prima mistificazione della cultura politica dei comunisti italiani sta proprio qui, nel modo in cui per 50 anni hanno continuato a rielaborare la loro stessa storia, senza rendere merito, non solo a Gramsci, ma a molti altri, che, al di là del primato della politica, si adoperarono nella ricerca della verità, invece che nella continua manipolazione di essa, tratto peculiare quest’ultimo del conformismo comunista.
La riproposizione e parziale manipolazione del lascito intellettuale di Antonio Gramsci, il gramscismo, è così la prima forma di conformismo della cultura comunista. Esso, d’altra parte, si prestava in particolar modo a fornire argomenti pregnanti all’immagine nazional-popolare che il comunismo italiano intendeva imprimere al partito e alla sua linea, e ciò sotto due aspetti. Quanto al primo, abbiamo già accennato, che la peculiarità del leninismo di Gramsci stava nel carattere dottrinale, se vogliamo formale, della sua concezione della transizione rivoluzionaria al socialismo. A ciò si aggiungeva un timbro ulteriore, che stava nel carattere organico che la società a venire doveva assumere. Questo è l’aspetto dottrinale che più caratterizza il pensiero di Gramsci, nell’ambito del marxismo-leninismo e ancor più rispetto agli esiti staliniani di esso. Il processo rivoluzionario diveniva il momento di soluzione tra due organicismi. Il trapasso dall’uno all’altro si compieva logicamente, da un lato secondo la più elementare premessa del materialismo storico, attraverso cioè lo sviluppo storico delle forze produttive, e da questo punto di vista egli lo individuava nell’approdo fordista e taylorista dell’organizzazione produttiva capitalistica, dall’altro attraverso l’azione politica del partito, nel suo assumere posizione di forza egemonica e con essa nel farsi mallevatore di quello stesso sviluppo e suo radicale elemento di accelerazione e compimento.
Questo elemento organicistico, nel suo duplice proporsi storico e politico, si rivelerà decisivo tra l’altro ai fini dell’apertura del dialogo con il cattolicesimo progressista. Certo gli equivoci in questa formulazione non mancavano. Tuttavia ai fini di un confronto con il cattolicesimo, in particolare con la sua deriva integralista ispirata alla renovatio maritainiana, esso stabiliva un terreno di incontro assai denso di conseguenze. Anche Togliatti aveva per proprio conto elaborato approdi simili, a cui la pubblicazione dei Quaderni di Gramsci diede inestimabile supporto, come si evince dalla lettura degli atti della I Sottocommissione alla Costituente, che documentano, su questo terreno, il suo fecondo dialogo con Dossetti, proprio su questo sfondo concettuale.
Gramsci, per suo conto, ebbe una assai lucida consapevolezza di questi risvolti, valgano due pertinenti osservazioni nella sua critica del pensiero di Croce, quando gli rimproverava di non aver difeso il “modernismo” come fattore progressivo, e quando nota, «che la posizione relativa del Croce nella gerarchia intellettuale della classe dominante è mutata dopo il Concordato», perché questo, con la «introduzione nella vita statale di una gran massa di cattolici in quanto tali, [...] ha posto il problema dell’educazione della classe dirigente non nei termini dello stato etico, ma nei termini della società civile educatrice», in cui sarebbero state le organizzazioni di parte o di partito che avrebbero dovuto confrontarsi col cattolicesimo (Il materialismo storico, IV, “L’importanza culturale di Croce”).
A questa acuta percezione dei mutamenti di prospettiva avvenuti col fascismo e registrati da Gramsci, Togliatti avrebbe aggiunto un altro punto decisivo, quello della democrazia progressiva come dialogo tra le forze popolari, in particolare col cattolicesimo. Non era la strada della liberal-democrazia, ma appunto del compromesso nazional-popolare, che non riuscirà a diventare storico, per il legame intrinseco che la democrazia italiana avrebbe nel frattempo stretto con quelle occidentali, più che per una resistenza del cattolicesimo liberale e delle forze di democrazia laica, che era stata pregnante e decisiva ai tempi della leadership degasperiana, ma era divenuta sempre più debole e vacillante in seguito, non avendo più un inequivoco approdo nel partito cattolico. Tuttavia circa la possibilità di realizzare quel disegno, il tempo storico era passato, con la rottura del ’48 e il consolidarsi dei rapporti di forza che ne seguì, cosicché la linea di Berlinguer, un venticinquennio più tardi, fu, sotto questo aspetto, appunto, un gramscismo fuori tempo massimo.
Il secondo aspetto decisivo del nuovo credo nazional-popolare fu naturalmente una interpretazione particolare della storia d’Italia, specialmente di quella unitaria. Il Risorgimento come rivoluzione mancata, incapace di legare in termini moderni i rapporti tra città e campagna, tra ceti urbani e classi contadine, di darsi una forma giacobina che sostanziasse il suo programma unitario. Una tesi che sarà anche il nocciolo delle riflessioni di Gramsci sul Mezzogiorno, e che quando verrà applicata a quest’ultimo dal PCI, nel secondo dopoguerra, non avrà possibile esito, né politico, né sociale, perché lo sviluppo industriale, pur non risolvendo la questione meridionale, ne avrebbe dissolto uno dei termini più tradizionali, la questione contadina. Ma l’interpretazione storica di Gramsci rimarrà fondamentale nella cultura storica comunista, e sarà soprattutto negazione della forma liberale dello Stato unitario e del suo carattere moderno. Una generazione di storici si eserciterà in questa impresa, che implicitamente piegava alla radice il principio che il progresso civile ha fondamento necessario, anche se non sufficiente, nella liberaldemocrazia, o altrimenti non è tale.
Anche sotto questo aspetto si apriva un campo visuale in cui potevano determinarsi coincidenze con l’interpretazione cattolica del processo unitario e si gettavano anche le basi per un’altra direttiva polemica, quella contro il riformismo socialista: una pagina ideologica e storiografica assai strumentale della cultura comunista. L’aveva inaugurata Togliatti su «Stato Operaio», nel 1933, con un’atroce denigrazione della figura di Filippo Turati. Nel dopoguerra i toni si erano smorzati e all’esperienza del socialismo riformista sembrava venir destinato piuttosto l’oblio. Storiograficamente giocava il pregiudizio che l’avvento del “nuovo principe” era il vero inizio della storia del socialismo, rispetto a cui la precedente stava come una preistoria. Politicamente la polemica aveva una rilevanza maggiore. Perché il partito comunista non è stato propriamente un partito riformista, ma piuttosto ha adottato prassi politiche riformiste nell’ambito di una strategia che rimaneva neo-leninista, nel senso di essere volta principalmente all’inserimento nel potere come processo continuo, stabile, non reversibile, per questo teorizzato come “egemonico”. Il PCI fu riformista nelle prassi di gestione degli enti locali e poi nelle regioni rosse, in particolare in Emilia, ma non fu propriamente riformista nell’attività parlamentare e nella politica sindacale.
Consociativismo non è riformismo, è semmai politica di equilibrio nella mediazione di interessi sociali confliggenti e pratica politica della congiuntura, in cui è sempre il primo tempo, quello appunto della congiuntura, ad essere l’elemento reale. Questa fu l’effettiva inclinazione della politica del PCI; senza sviluppare propriamente una vera e propria cultura delle riforme. Fa eccezione la stagione dell’unità nazionale, tra il 1976 e il 1978, quando il Parlamento varò tardivamente il disegno definitivo del welfare italiano, sotto l’impulso decisivo del PCI. Ed è eccezione che conferma la regola, perché quel disegno fu concepito ed attuato sulla base di presupposti fortemente ideologici, che la formula delle “riforme di struttura” aveva emblematizzato per un cinquantennio, magari introducendo nel sistema italiano “elementi di socialismo reale”, ma non valutando i fattori di crisi fiscale dello stato che attraversavano tutto l’Occidente capitalistico, e fecero del welfare italiano una costruzione friabile fin dalla legislatura seguente e costituirono la causa non secondaria della seguente crescita del debito pubblico.
Sempre politicamente poi il PCI mancò deliberatamente di appoggiare le occasioni di riformismo che il sistema politico italiano venne offrendo, di cui la vicenda emblematica fu quella del centro-sinistra, dalle sue origini fino allo scontro decisivo del luglio 1964. Molti elementi fanno intendere che Togliatti ebbe la netta percezione della posta che era in gioco, e fu per un tratto indeciso sulla linea da seguire. Fece cenno esplicito alle conseguenze che quel fallimento avrebbe portato con sé, cioè l’inevitabile deriva “trasformista”, che prenderà forma nel seguente quindicennio “consociativo” e che doveva segnare l’identità stessa del PCI. Percepiva che lo scontro era reale e che le prospettive positive che potevano derivarne non si sarebbero facilmente ripresentate. Conosceva la debolezza dei socialisti e dello schieramento progressista interno alla maggioranza parlamentare; e sapeva che senza un accordo di tipo concertativo, almeno attraverso l’organizzazione sindacale, non ce l’avrebbero fatta. Prevalse allora in lui e nel suo partito l’opportunità di perseguire l’obiettivo che gli si presentava, in quei frangenti, a portata di mano, quello di conseguire definitivamente la propria egemonia sulla sinistra e di diventare così gli interlocutori necessari di un diverso equilibrio politico, che succedesse alla crisi eventuale di quello presente, confermando in ciò quale fosse il loro vero e unico obiettivo di massima.
Vero è che le ragioni oggettive su cui il tentativo di centro-sinistra aveva fatto perno, dare cioè una risposta politica riformatrice ai mutamenti avvenuti nella società italiana, obbligavano anche il PCI ad una risposta e questa maturò per più rivoli, che cambiarono lentamente, sotto più aspetti, i connotati della presenza comunista nella realtà italiana. Dal punto di vista degli sviluppi ideologico-culturali si passò da una fase di selezione calcolata degli obbiettivi politico-sociali ad una di sedimentazione solo parzialmente meditata. Il discrimine è più o meno segnato dalla morte di Togliatti, concomitante alla prima decisiva crisi del centro-sinistra. L’era di Togliatti, a partire dal dopoguerra, è caratterizzata da due fasi, il cui spartiacque è il 1956; quella successiva vede prima una fase di transizione, poi, con Berlinguer, un epilogo.
Della prima fase, quella che va fino al XX Congresso del PCUS nel 1956, oggi sappiamo molto più di ieri. Tutte le parole d’ordine e gli atti politici qualificanti che radicarono, come si è già accennato, il PCI nella “democrazia” italiana del dopoguerra furono concertati con Stalin: il partito nuovo, la democrazia progressiva, la pratica legalitaria e la politica delle alleanze che ne conseguiva. Era una strategia attendista rispetto agli equilibri fissati a Yalta, nutrita di un credo che non era solo un filtro ideologico, ma un’effettiva, per quanto sbagliata, analisi di prospettiva politica, il credo zdanoviano della imminente crisi capitalistica, sul modello di quella del ’29 (è un leit motiv che lasciò una traccia profonda nella cultura comunista, e ne troviamo ancora un’eco nell’introduzione di Barca al volume antologico su La politica economica dei comunisti italiani, che è del 1975). Tra le numerose manifestazioni di questa linea, una va sottolineata, l’opposizione cioè di Togliatti all’iniziativa di Di Vittorio per un piano del lavoro, che fu l’unico tentativo, negli anni ’50 e anche oltre, riformista, anche se maturato nella CGIL e non nel PCI. Di Vittorio, come era proprio della sua indole più profonda, populista ed insieme riformista, cercava per il movimento sindacale uno sbocco politico, che Togliatti al contrario giudicava inopportuno e inattuale, così da bocciare perentoriamente quella iniziativa.
Naturalmente questa strategia attendista si accompagnava ad una forte idealizzazione del mito sovietico. L’URSS, come grande madre del socialismo e di tutti i movimenti non solo proletari ma anche democratico-progressisti, fu mitologia propagandata senza risparmio ed accreditata senza riserve. Il XX Congresso del PCUSS e ancor più il krusciovismo vennero ad interrompere queste lineari sequenze. Si conosce quanto Togliatti, sotto tutti gli aspetti, avesse disapprovato la messa in discussione del mito socialista, che il Rapporto segreto su Stalin e altri aspetti della liberalizzazione kruscioviana implicitamente comportavano. Fin dall’intervista a «Nuovi Argomenti» pose argini a questi pericoli, costruendo un reticolo di parziali ammissioni e nuove menzogne sulla realtà sovietica. Ma il krusciovismo era anche politicamente rimozione della prospettiva di una crisi del capitalismo, a cui si sostituiva una sfida per il futuro sul terreno della produzione e del consumo. L’espansionismo, nella forma tradizionale di politica di potenza, propria dello stalinismo, non veniva abbandonato, ma si colorava di una nuova valenza, che Togliatti avvertì subito lucidamente comportare di necessità una articolazione di posizioni nel campo socialista, risolvendosi, tra l’altro, in un indebolimento del tradizionale mito dell’URSS. Rispetto ad essa riteneva così che si dovesse operare con un’accentuazione dei motivi e delle prospettive nazionali della linea politica del PCI, di cui l’ultima pregnante espressione fu il postumo Memoriale di Yalta.
Sulle ragioni e sugli effetti del massimalismo comunista in quegli anni cruciali che si conclusero nel luglio del ’64 con la fine del primo centro-sinistra e del suo iniziale progetto riformatore abbiamo già accennato. Va aggiunto che l’operazione del centro-sinistra nel suo avvio cruciale comportò uno scontro con la destra italiana, interna allo schieramento di governo, ed ebbe fasi alterne, tra cui l’episodio Tambroni. Quell’episodio si tinse di antifascismo, per l’utilizzazione spregiudicata che Gronchi e Tambroni intesero fare dell’appoggio del MSI, con gli episodi che da ciò seguirono. Il fascismo, in questa storia, non aveva in realtà niente a che fare, e lo scontro diede risalto piuttosto a una fase potenziale di crescita della democrazia italiana, a cui si voleva dare diversa impostazione oligarchica e conservatrice. L’antifascismo, come ideologia repubblicana, fu così un’anacronistica superfetazione, priva di reale fondamento analitico, anzi la fondazione di un conformismo antifascista, che congelava i canoni interpretativi dell’evoluzione della società italiana nei termini dell’immediato dopoguerra. Tornava il tema della Resistenza tradita in due versioni, quella dell’unità ciellenista e quella della mancata rivoluzione: dal primo si generò la legittimazione al consociativismo come premessa del superamento della conventio ad excludendum del PCI; dalla seconda trassero linfa i movimenti extraparlamentari prima e dopo il ’68, fino ai loro esiti nell’autonomia e nel terrorismo. Da questo punto di vista fu un immaginario perverso destinato a conferire agli album di famiglia nuove suggestioni estremistiche.
Il PCI procurò di suonare ambedue gli spartiti, non senza tensioni interne. Furono infatti quelli, gli anni ’60, dell’“unità fittizia”, come la definì Amendola. Fittizia, perché comunque obbligatoria, ma non senza che da essa emergessero linee contraddittorie, soprattutto in tema di alleanze. In proposito antifascismo voleva dire, sia frontismo, più o meno aggiornato, che era la tesi di Amendola, sia consociativismo tout court, cioè un’alleanza in primo luogo con la DC, o con una parte di essa, che era invece la linea espressa da Ingrao. Ambedue queste tesi dopo il ’68 si confrontarono con il problema del rapporto con i movimenti extraparlamentari, generando da un lato un rifiuto, in omaggio al principio leninista e staliniano che il monopolio rivoluzionario della violenza, pur in forma quiescente, va conservato a tutti i costi, magari anche con una “lotta sui due fronti”, ed era la tesi di Amendola, e quella di un’apertura egemonica, che sarà poi la linea ufficiale adottata da Longo.
La sintesi unitaria politico-ideologica di Togliatti era già andata in frantumi, e Longo vi aveva sostituito la sedimentazione empirica dei contrasti, sorretta dall’espansione crescente della forza politico-sindacale comunista. Sarà Berlinguer, con il compromesso storico, a tentare l’ultima sintesi. A differenza di quella formulata da Togliatti essa mancava di realismo, nel senso che alcune delle sue premesse fondamentali erano più ideologiche che politiche: così l’analisi del mondo cattolico in cui le novità del Concilio erano colte a senso unico, senza valutare le fratture profonde che esse avevano comportato e rimanevano operanti; così anche nell’analisi socio-politica della DC, in particolare non valutando che la sua componente aconfessionale, in particolare quella di ceto medio, mostrava di fermentare in una nuova destra dai connotati sociali nuovi, contraddistinti dalle esigenze nuove e contraddittorie generate dalla crescita produttiva e dai suoi riflessi economico-sociali.
Nel rapporto poi con la sinistra extraparlamentare e sindacale non era stata presa in considerazione l’ipotesi che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine. E non essendo del tutto sciolto, nelle sue componenti di fondo, il rapporto con l’URSS, ciò generava una serie di ulteriori problemi, oltre a quelli sottolineati, determinati dalle valenze internazionali che attraversavano la politica italiana, e ciò malgrado l’analisi fosse partita proprio dai fatti cileni. Non vennero infine colti per nulla gli approdi globalizzanti verso cui con decisione si orientarono i paesi guida del mondo capitalistico, proprio a seguito delle battute di arresto che l’espansione del mercato internazionale aveva subito nelle crisi patologiche degli anni ’70.
La sintesi di Berlinguer era vecchia ed elusiva di troppi aspetti latenti e sopravvenuti della realtà politica. Ma l’idea più anacronistica che tutta la pervadeva era proprio quella del partito. Anche qui il gramscismo della terza generazione comunista non si era aggiornato. Si fossilizzava in un’idea circolare e organica della democrazia, fondata su organizzazioni partitiche, là dove la società italiana era viepiù divisa in rivoli diversi e virtualmente contrapposti, e richiedeva una più libera dialettica nella cultura e nella politica. La linea di Berlinguer ebbe tuttavia la nobiltà di una formulazione canonica. La sua debolezza stava nella irriflessa complementarietà tra posizioni astratte e concrete, tra formule ideologiche ed analisi propriamente politiche. Rifletteva così anch’essa quello che era diventato il vizio più profondo del comunismo italiano, la tendenza a falsificare la realtà per ragioni strumentali, che si volgeva in una sostanziale povertà di analisi della realtà stessa, che poi è la vera natura del conformismo comunista e che si è profondamente radicata nelle attitudini della cultura e nello svolgimento della vita politica italiana.
Questo vizio di fondo impregna di sé anche la storiografia comunista, sia quando si è occupata del proprio partito, sia quando ha tratteggiato la storia della Repubblica. Una storiografia che ha riflesso i dilemmi politici del comunismo italiano e in quest’ambito, anche se non oltre, ha esercitato la sua critica. Così solo tardivamente è approdata alle tesi estremistiche di cui hanno fatto poi sfoggio i suoi epigoni. La tesi del “doppio stato”, ad esempio, venne elaborata da Franco De Felice nel 1983, crollato definitivamente lo scenario del compromesso storico, ed essendo ormai emergente l’offensiva craxiana contro i residui anelli consociativi che legavano il PCI al sistema. Fino a quel momento la storiografia comunista, pur con tutta l’enfasi che le era congeniale su Antifascismo, Resistenza e Costituente, non aveva mai radicalmente contrapposto al carattere proprio delle istituzioni repubblicane la “continuità” del vecchio stato, che peraltro era stato il Pci a contribuire in modo decisivo a perpetuare, prima ancora della convocazione della Costituente, tra la svolta di Salerno e il I° governo De Gasperi. Le vicende dell’89 disancoravano poi questi epigoni della storiografia comunista dalla storia stessa del vecchio partito comunista e dall’esercizio della responsabilità politica che gli era connesso. Si è aperta così una nuova fase postcomunista, quella che potremmo definire di uno storicismo irresponsabile, in cui tutti i vecchi luoghi comuni del passato conformismo si sono tra loro mescolati, senza più il segno di quella ratio politica che era pur sempre stata la vecchia bussola del comunismo italiano.
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