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La "questione morale"
di G. G.
Ancora una volta (e ancora una volta alla vigilia di importanti elezioni) la "questione morale" è tornata al centro della vita pubblica italiana. Dopo la traumatica fine della cosiddetta Prima Repubblica sembrava, a stare a coloro che di quella fine erano stati celebrati eroi e protagonisti, che corruzione, concussione e compagnia cantante dovessero sparire dal lessico politico nazionale. La mala pianta era stata estirpata, un n uovo giorno avrebbe illuminato le sorti della "fatal penisola", come con consapevole previdenza, la definiva Carducci.
Invece, neppure si erano concluse le cronache giudiziarie di quella drammatica stagione, e ancora duravano varii processi allora apertisi, e già una nuova stagione giudiziaria si apriva, con casi di varia entità e natura, ma troppe volte di indubbio rilievo, colpendo molto di più lo schieramento di destra che quello di sinistra, e non senza alcune varianti di non minore rilievo anch'esse (tanto per dirne una, nella stagione della cosiddetta "tangentopoli" il sesso non aveva giocato la parte, incredibilmente e massicciamente diffusa, che ora sembra avere).
Questa volta nessun crollo del sistema politico si prospetta all'orizzonte. I traumi del 1992-1994 sono lontani. Decisamente attenuata appare la sensibilità ai colpi di maglio giudiziario inferti a personalità titolari di posizioni che vanno dal governo nazionale alle giunte di piccoli comuni, dall'amministrazione centrale dello Stato ai suoi uffici periferici e alle burocrazie locali, che portano nomi dai più noti e illustri ai più ignoti e oscuri: la sensibilità che, come si ricorderà, quindici anni o sedici anni prima aveva decretata la dissoluzione, e spesso una autodissoluzione, di grandi forze politiche dalle profonde e antiche radici. Di più: non solo la sensibilità si è attenuata, ma sembra che sia senz'altro sopravvenuta una sorta di indifferenza, o, per lo meno, di molto scarsa attenzione ai titoli clamorosi, ai resoconti sconvolgenti, alle notizie più inattese e a quant'altro si accompagna alla casistica degli scandali nella vita politica e nella pubblica amministrazione.
Cosa, poi, non meno da rilevare e sottolineare, molti di coloro che più hanno0 profittato del crollo della Prima Repubblica, assumendo verso di essa un atteggiamento durissimo di condanna morale e di impietoso giustizialismo, spesso sono oggi fra color che vengono, a loro volta, colpiti, e talora gravemente, dalla nuova ondata giudiziaria. E, inoltre, molti, che allora furono drastici nei giudizi, decisioni e comportamenti di condanna, oggi continuano a condannare, ma con voci più flebili e con animo fin troppo evidentemente molto meno severo.
La domanda che da tutto ciò sorge irrefrenabile, il dubbio che se ne genera ineludibilmente, è se la "questione morale", tante volte agitata in grandi e piccole occasioni nei centocinquant'anni della storia dell'Italia unita sia qualcosa di connaturato al paese, qualcosa di strettamente connesso al suo essere profondo, qualcosa da considerare come un vero e proprio "carattere nazionale", e quindi qualcosa di irreprimibile nella vita pubblica dello stesso paese.
L'idea affacciata dal presidente Berlusconi e da altri che si tratti di casi isolati e non di una nuova "tangentopoli" non riesce convincente. E lo diciamo non perché crediamo che si possa, come accadde nella precedente occasione, considerare afflitta dal male soltanto, o quasi soltanto, una delle parti presenti nel gioco politico italiano. Lo diciamo perché ci sembra che la diffusione di grandi e piccoli episodi di malcostume, e peggio che malcostume, non autorizzi una tale versione delle cose. E poi, oltre la diffusione, conta, ed è da mettere nel giudizio di fondo che si dà della cosa, la "regolarità", temporale e tipologica, con la quale si presenta ai più varii livelli della cosa pubblica.
Questa "regolarità" è, tra l'altro, uno degli elementi che più pesano nel determinare la convinzione diffusa in Italia e, ancor più, all'estero circa il "carattere nazionale" (il "carattere originale", come si dice nel linguaggi storiografico) del fenomeno in Italia. E la stessa "regolarità" vale pure, sia detto per inciso, a dissolvere l'opinione, in se stessa ragionevole, pure espressa dal presidente Berlusconi, che i casi isolati siano inevitabili, in quanto è sicuramente probabile, ben più che possibile, che in un gregge di cento pecore ve ne sia sempre qualcuna che, più o meno gravemente, zoppichi.
Rassegnarsi, dunque, alla "regolarità" del fenomeno? Ma si sa che questo non è possibile, e non è lecito. Né occorre spiegare il perché. Per questo, anzi, la differenza fatta tra l'attuale stagione del malcostume e quella precedente persuade, anch'essa, assai poco. Una volta, si dice, si sbagliava per alimentare correnti, partiti, movimenti e altre forma di azione e di dibattito politico. Ora, invece, lo si fa per ignobili scopi di vantaggio personale. La distinzione è importante e rilevante, e, soprattutto, non è infondata. Essa suona, inoltre, come una postuma e doverosa riparazione alla classe politica travolta da "tangentopoli". E tuttavia, non risolve il problema, anche perché appare chiaro che l'infrazione delle norme relative alle procedure e alla correttezza nella gestione della cosa pubblica sussiste sempre, sia che si tratti di azioni dovute a passioni e interessi politici, sia che si tratti di passioni e interessi privati e personali.
Qualcosa bisogna, dunque, fare riguardo alla ricorrente "questione morale" dell'Italia. Che cosa? Dall'esperienza dell'ultimo quindicennio risulta chiaramente che il giustizionalismo giudiziario non è idoneo allo scopo. Da questi quindici anni i "manipulite" - magistrati, politici, giornalisti, intellettuali, nonché demagoghi e professionisti dell'opportunismo di ogni genere - escono con una sconfitta clamorosa, sia che fossero in buona fede, sia che sin dal primo momento fossero in mala fede. La loro spada di fuoco e le loro penne di angeli del Signore non sono valse a risanare il campo italiano dalle erbacce e dalle incrostazioni cattive.
A suo tempo, uno dei magistrati delle "manipulite" di Milano - interrogato sul tempo di durata di quella stagione giudiziaria - rispose che essa sarebbe durata finché la corruzione e gli affini mali della vita pubblica nazionale non fossero stati estirpati. La risposta fece sorridere molti, e molto. Significava, si disse, che "manipulite" non sarebbe mai stata chiusa, considerata la nota e già ricordata ragione delle pecore zoppe, che non mancano mai in nessun gregge. E, considerato il vento di tempesta giustizialista che allora spirava, il sorriso, o il riso, a tale riguardo non erano giustificati. Non avrebbe avuto torto, però, neppure quel magistrato, se la sua risposta fosse stata vista non in relazione alla specifica inchiesta giudiziaria milanese alla quale fu dato il nome giustinianeo di "manipulite", bensì in relazione all'azione repressiva alla quale si è tenuti, e che è naturale e irrinunciabile, oltre che necessaria, ogni volta che si produce una violazione delle normative vigenti e, tra queste, con particolare considerazione di quelle relative alla cosa pubblica.
È in questo senso che "manipulite" non può e non deve finire mai, non nel senso che fa comodo alle fortune (e agli interessi) dei tanti giustizialisti e moralisti che affliggono le cronache e la vita pubblica italiana. Ma, ovviamente, con questo il discorso non è chiuso.
Il peso del costo della politica sulle casse dello Stato è cresciuto verticalmente nell'Italia degli ultimi quindici anni, dalle retribuzioni e indennità dei politici, amministratori e annesso sottogoverno ai finanziamenti a giornali, fondazioni, associazioni, movimenti etc., ma l'inclinazione alle violazioni della selva di normative vigenti non è affatto diminuito. Invocare un ulteriore aggravio delle casse pubbliche per finanziare la politica? È difficile sostenerlo, considerato il molto che già si è fatto, e che, semmai, va ridotto, e anche molto ridotto.
Inasprire le normative? Può essere opportuno, ma si tenga presente che lo Stato italiano è da tempo un moderno Stato di diritto, le cui normative e i cui controlli dovrebbero già costituire uno sbarramento validissimo a garanzia di correttezza e normalità della pubblica amministrazione. Il pieno rispetto di tali normative dovrebbe, dunque, valere già di per sé a impedire le patologie che ricorrentemente ne constatiamo. Il difetto italiano non è di normativa. Si migliori pure la normativa. Il difetto italiano è, insomma, altrove.
Noi indichiamo qui solo due punti. Il primo sono le lungaggini e le inefficienze della macchina amministrativa e delle sue procedure. Il secondo è il costume, che è quello che è, e sembra autoperpetuarsi con una coerenza e con una sistematicità scoraggianti. È su questi due punti che bisogna, perciò, lavorare, senza illudersi sui tempi e sulle forma, in cui un miglioramento è effettivamente possibile (e, a nostro avviso, i tempi potrebbero alquanto minori di quel che si può pensare, e gli strumenti con cui procedere possono essere più maneggevoli e disponibili di quanto si possa pensare). Né bisogna dimenticare l'incidenza che anche sui fenomeni dei quali parliamo influisce molto, moltissimo il cancro della malavita organizzata, che alla violazione sistematica della legalità è strutturalmente interessata anche al di fuori dei suoi momenti di più aperta violenza e di più clamorosa illegalità.
Naturalmente, quanto qui adombriamo presume che su questi problemi non vi sia una speculazione di parte come vi fu per "tangentopoli".
Intendiamoci, una speculazione di parte su problemi come questi è pressoché impossibile che non vi sia. Il problema è di renderla - per così dire - sostenibile, fisiologica e, al massimo possibile, benefica. Che poi su questo motivo possano pensare di vivere e di prosperare forze politiche, che lo adottano a loro esclusiva ragion d'essere, può essere relativamente indifferente, se le maggiori forze politiche sanno contenere gli stessi scontri sulla "questione morale" in una cornice di comune interesse. Soprattutto - vogliamo dire anche questo - non è giocando su questo terreno che si può sperare (da chi lo vuole) di eliminare, mettiamo, a titolo di esempio, Berlusconi. La via giudiziaria difficilmente dà i frutti che ne sperano coloro che più o meno incautamente vi si affidano. Berlusconi non è oggi meno forte di quindici anni fa. Anzi. O chi vuole piegarlo lo vince in un vigoroso e forte scontro politico o la pianta Berlusconi (ma lo stesso vale per ogni altro simile caso, anche lontanissimo dalla tipologia berlusconiana) rifiorirà vigorosa a ogni stagione.
Se sarà così coloro che speculano (persone e forze politiche) sul motivo, e più spesso pretesto, morale saranno drasticamente emarginati. Nessuno può ignorare la degenerazione a cui la deriva giustizialista della giustizia ha portato la vita pubblica italiana. Né alcuno può ignorare la misura intollerabile in cui, non soltanto sul piano mediatico, i diritti del cittadino, del cittadino indagato, o sotto processo, sono pesantemente violati e offesi. Né alcuno può sottovalutare l'intollerabilità di procedimenti giudiziari che, come niente, durano dieci o quindici anni. Né alcuno può chiudere gli occhi davanti alle difformità di procedure e di decisioni a cui si è esposti dinnanzi ai tribunali italiani. E non parliamo del corporativismo della magistratura, del ricorrente antagonismo fra politici e magistrati, o del troppo frequente ingresso di magistrati nelle competizioni elettorali, o delle tante altre cose di cui si potrebbe parlare, senza allontanarsi, peraltro, dal nostro tema. Ciò che abbiamo accennato vale già allo scopo.
C'è solo da notare che l'Italia può presentare e presenta il problema morale in forme e con ricorrenza particolare. Questo è innegabile. Non si creda, però, che essa sia la sola mela marcia nel paniere europeo. L'uomo è uomo dappertutto. Certi livelli e criteri debbono tuttavia valere, al di qua e al di là di ogni possibile comparazione. E, tanto più se la comparazione non porta affatto a concludere che l'Italia sia un caso strano ed eccezionale, essa, però, indubbiamente non è confortante per l'Italia. È bene che ce lo diciamo e ce lo ripetiamo da noi, senza sentirselo ripetere da altri fino all'eccesso e alla noia. E, naturalmente, non solo per prevenire i malevoli giudizi altrui, bensì col concreto proposito di fare qualcosa al riguardo.
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