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Voci e volti dell'Europa
di Francesco Torchiani
Quarant’anni or sono quell’“anima leonardesca” di Vittorio Beonio Brocchieri dava alle stampe un volume dal titolo evocativo, Europa e oltre, che vedeva la luce con la prestigiosa prefazione di Salvador de Madariaga. In quelle pagine, il poliedrico cattedratico pavese invitava a guardare ad una storia del pensiero politico che andasse al di là degli angusti confini nazionali, fino ad estendere lo spettro d’indagine all’intero continente antico, anzi, più oltre, fin verso l’estremo oriente. Ma l’autore del monumentale Trattato di Storia delle dottrine politiche non era l'unico docente della facoltà pavese di Scienze politiche ad avere la vocazione a "pensare in grande"; Anche Mario Albertini, di cui Il Mulino sta ora dando alla stampe l'opera omnia (M. Albertini, Tutti gli scritti, Vol. I-VII, a cura di N. Mosconi, Bologna, Il Mulino, 2006-2009), rappresentava un punto di riferimento per i giovani universitari pavesi, insegnando loro a meditare gli scritti di Luigi Einaudi e soprattutto quelli del "Federalist", con particolare attenzione ai saggi di Hamilton, e del grande storico tedesco Ludwig Dehio. In questo coacervo di suggestioni diverse maturate nell’“insubre Atene” (l'immagine e del Parini), ma con lo sguardo rivolto all'Europa che ancora muoveva i primi, incerti passi dopo il trauma della guerra, affonda le sue radici l'impegno federalista di Arturo Colombo, di cui il volume Voci e volti dell`Europa. Idee, Identità, Unificazione (Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 199) appare tutto sommato un bilancio critico.
Il volume, infatti, si presenta, da un lato, come una puntuale rassegna di oltre un secolo di riflessioni politologiche, semiotiche, antropologiche, letterarie e storiografiche, maturate nel tentativo di definire la complessa identità europea; dall'altro, intende offrire spunti di riflessione sull'attualità, in un momento storico in cui la difficile costruzione dell'unità europea attraversa un prolungato momento di impasse.
Christopher Dawson, Norman Davies, Giuseppe Galasso, Jean Baptiste Duroselle sono solo alcuni degli studiosi che Colombo "interroga" per offrire, almeno indicativamente, uno spaccato della complessità dei problemi storiografici che implica la definizione del rapporto fra identità collettiva europea, riscontrabile a livello culturale, e il sistema di relazioni internazionali che si viene a creare con il consolidamento dello Stato moderno. Il prevalere dello Stato-Nazione, infatti, getta le basi per l'emancipazione dei popoli e per l'avvento delle libertà individuali, ma anche, in prospettiva, apre le porte ad una stagione di conflitti fra Stati sovrani in cerca di volta in volta di conquistarsi una posizione egemone sul continente. II prezzo di questa conflittualità portata al parossismo è, appunto, la distruzione economica e la perdita di influenza a livello geo-politico a vantaggio degli Stati Uniti, all'indomani della Grande Guerra.
Il cuore del saggio è appunto costituito dall'analisi serrata della "crisi" dell'idea di Europa cui si assiste negli anni del primo dopoguerra. Ai sinistri bagliori che affascinano il vasto pubblico degli Spengler e dei profeti del tramonto dell'Occidente, fa pendant un ventaglio di pragmatiche soluzioni alla crisi morale e politica del continente: sono quelle offerte da Luigi Einaudi nel suo lucido saggio La guerra e l'unità europea (ora a cura di Giovanni Vigo, Bologna, il Mulino, 1984) con la denuncia dello Stato nazionale come "idolo immondo"; dallo svizzero Richard Coudenhove-Kalergi, con la sua idea di Pan Europa (trad. it., Rimini, Il Cerchio, 1997) vale a dire di una confederazione che si pone in alternativa tanto ai trionfanti Stati Uniti quanto al Commonwealth britannico e all'URSS; come non citare inoltre Philip Henry Kerr, meglio noto come Lord Lothian, che nel ’35 invitava ne Il pacifismo non basta ( trad. it., Bologna, il Mulino, 1986), a superare alla radice la malattia dell'Europa, costituita dalla sopravvivenza dello Stato-Nazione, garanzia di futuri e ancor più disastrosi conflitti: «La ragione per cui nel nostro pianeta la guerra non ha mai praticamente subito interruzioni sin dai primordi dell'umanità, scriveva Lothian, è che, dal punto di vista internazionale, viviamo come animali nella giungla, non avendo a disposizione altro mezzo per risolvere le controversie che inevitabilmente sorgono fra di noi se non l'uso dei denti e degli artigli» (p. 168).
Proprio l'esigenza di superare lo sconfortante status quo, di fronte alla marea montante del fascismo e del nazionalsocialismo, spingeva un manipolo di intellettuali, pur nella mortificante condizione dell'esilio e della prigionia, ad uscire dal piano delle astrazioni e proporre soluzioni pratiche. È così che alcuni dei condannati al confino a Ventotene ─ nell'isola che Camilla Ravera ricorderà come "una ciabatta sul mare"─ Ernesto Rossi e Altiero Spinelli danno vita a quel Manifesto che, a distanza di molti armi, Norberto Bobbio continuava a definire uno dei documenti più importanti: prodotti dalla Resistenza europea. Sulle radici ideologiche e culturali del Manifesto Colombo si è già soffermato in diversi contributi (da ultimo Spinelli e il «Manifesto di Ventotene». Originalità e fonti di ispirazione, in «Il politico», 2008, n. 1, pp. 107-124), ma in questa sede all'autore importa definirne rapidamente le acquisizioni più importanti: abbattimento dello Stato nazionale in primis; creazione di un governo responsabile non verso i governi dei singoli Stati ma verso i loro popoli, con una forza armata, posta agli ordini di questo governo, in grado di soppiantare ogni esercito nazionale; finalmente, approdo ad una federazione degli Stati europei sul modello degli Stati Uniti d'Europa che Carlo Cattaneo vagheggiava già nella famosa chiusa a Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (in Opere. Vol. III, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi, 1972).
Proprio Spinelli, nel dopoguerra, sarà l'alfiere di una ostinata battaglia per la soluzione “federalista” del processo di integrazione europea, contro quella "funzionalista" che pure ha finito per prevalere. La passione federalista dell'autore, va detto, non fa mai velo all'onestà del giudizio storiografico sulle diverse idee d'Europa che si sono fatte largo nel dopoguerra, di cui Colombo ricostruisce il complicato ordito inquadrandole sullo sfondo dei cambiamenti politici e sociali alla base dei numerosi stop and go che caratterizzano la costruzione dell'unità europea.
Chiude il volume una significativa antologia degli autori il cui pensiero é stato privilegiato nell'analisi di Colombo: a noti passi degli scritti di Einaudi e Ortega y Gasset ─ che definisce icasticamente l'Europa come "sciame" composto da molte api, impegnate però in un unico volo ─ si alternano le "voci" di Jean Monnet, Mario Albertini, Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, passando per Lord Lothian e Richard Coudenhove-Kalergi, fino a quella di Carlo Azeglio Ciampi.
Da questo articolato mosaico è così possibile comprendere l’entità dello sforzo compiuto da personalità tanto diverse, accomunate dal medesimo obiettivo, perseguito con una tenacia che riesce ad avere ragione delle frequenti, cocenti delusioni e a suscitare comunque stimolanti interrogativi e riflessioni. Minoranze il cui impegno costituisce un’ulteriore riprova di quanto scriveva Albert Camus: «la storia non è altro che lo sforzo disperato degli uomini di dar corpo ai più chiaroveggenti fra i loro sogni».
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