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Appunti sul pensiero giuspolitico di Francesco Mario Pagano
di Alessandro Tuccillo
Continuità e fratture. Polarizzazioni sempre al centro del dibattito storiografico, termini elementari che nella loro radicale opposizione dischiudono interrogativi essenziali per l’indagine dello storico. Un binomio duttile, aperto a molteplici articolazioni, in cui è incardinata la fine disamina del pensiero giuspolitico di Francesco Mario Pagano proposta da Dario Ippolito nel volume Mario Pagano. Il pensiero giuspolitico di un illuminista (Torino, Giappichelli, 2008). L’analisi è infatti costruita sulla tesi di una fondamentale continuità ideologica nella riflessione paganiana che, definita in larga parte già nella prima edizione dei Saggi politici (1783-1785) e nelle Considerazioni sul processo criminale (1787), non avrebbe subito sostanziali rielaborazioni nel confronto con gli eventi rivoluzionari dell’ultimo decennio del secolo. Coerente con l’affermazione dell’unitarietà della produzione di Pagano, l’indagine non segue la successione cronologica delle sue opere, sviluppandosi attorno a quattro nodi concettuali corrispondenti alle quattro parti della monografia: “il giusnaturalismo”, “la teoria dello Stato”, “la teoria della giustizia penale”, “il repubblicanesimo”. L’esito della ricerca è una «reinterpretazione complessiva del pensiero di Pagano» che, sottratto all’ambigua categoria del “dispotismo illuminato” in cui è stato tradizionalmente inquadrato, viene ricondotto a tre componenti principali radicate «in una forma di giusnaturalismo, teoreticamente eclettico, ma nitidamente determinato nel suo profilo di dottrina dei diritti naturali»: «una teoria costituzionalistica dello Stato, centrata sulla garanzia dei diritti soggettivi e sulla limitazione formale e materiale del potere»; «una teoria garantistica del diritto penale»; «una visione repubblicana della convivenza politica» (p. XV)1.
Ippolito sottopone, dunque, a revisione consolidate acquisizioni storiografiche, rispetto alle quali non manca di evidenziare le distanze e di indicare i percorsi attraverso cui ha inteso superarle. Come accennato, punto fermo della sua argomentazione è l’omogeneità tra le due edizioni dei Saggi politici, edite rispettivamente negli anni 1783-1785 e 1791-1792. Al riguardo il principale riferimento polemico è l’interpretazione di Franco Venturi2, che osservò nelle varianti della seconda edizione il delinearsi di un solco ormai insanabile tra la teoria politica paganiana, influenzata dalle novità rivoluzionarie che giungevano d’oltralpe, e l’orizzonte riformatore della collaborazione tra monarchia borbonica e filosofi; una discontinuità su cui, in tempi più recenti, hanno insistito anche Beatrice Sasso3 e Fabrizio Lomonaco4.
Più vicina alla tesi di Ippolito è la proposta interpretativa di Gioele Solari elaborata negli anni Venti del secolo scorso5. Solari non negava le novità presenti nella seconda edizione dei Saggi, ma le considerava interventi formali insufficienti a marcare una discontinuità con la prima; la definitiva frattura tra Pagano e la monarchia di Ferdinando IV si sarebbe prodotta nel 1794, quando la repressione della congiura giacobina palesò l’incompatibilità tra le sue convinzioni politiche e gli indirizzi ormai tirannici dei Borbone. Un giudizio ribadito da Giuseppe Galasso6, che contestò quanto scritto da Venturi circa l’evidenza nella seconda edizione del «distaccarsi sempre più netto della classe colta napoletana dalle speranze di un assolutismo riformatore»7. Pur riconoscendo un’accentuazione degli elementi rivolti al perseguimento di un’“eguaglianza civile”, Galasso ricordava i passi della seconda edizione in cui Pagano espresse posizioni ancora attente al ruolo positivo della monarchia per il benessere dei popoli. Come Domenico Cirillo, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel, Andrea Serrao, Francesco Saverio Salfi e altri esponenti dell’ultima generazione dell’illuminismo napoletano, Pagano era stato partecipe del “dramma” intellettuale che produsse la «conversione ad un’idea di rivoluzione, che certamente non entrava nei canoni ispiratori della sua milizia e attività intellettuale». Quel “dramma” si sarebbe consumato soltanto dopo la congiura del 1794, quando la persecuzione politica, l’esilio, la povertà si tradussero in una prospettiva politica che non fu un semplice adeguamento del programma riformatore al nuovo contesto. La militanza rivoluzionaria, l’irrompere delle masse al centro della vita politica e il conseguente problema di una loro possibile guida incisero sulla sostanza di quel programma, che non a caso fu rifiutato da celebri esponenti del movimento riformatore (Giuseppe Maria Galanti ad esempio) e che segnò nel fronte repubblicano i confini tra moderati e radicali8. Ed è proprio su tale aspetto che si misura la distanza della “reinterpretazione” di Ippolito dai citati studi che pure hanno riconosciuto una continuità tra le due edizioni dei Saggi politici.
La ricerca si presenta infatti come una focalizzazione del «vasto orizzonte tematico e problematico dischiuso dalla nuova prospettiva storiografica» (p. XV) avviata dagli studi di Vincenzo Ferrone. Muovendo da ipotesi delineate in un saggio apparso su «Studi storici» nel 19999, Ferrone ha proposto nel volume La società giusta ed equa un’interpretazione del tardo illuminismo italiano – e per molti versi europeo – fortemente legata al pensiero politico di Gaetano Filangieri, rivalutato in quanto sintesi dell’originale e autonomo progetto illuminista di «superamento graduale e incruento attraverso le riforme dell’iniqua società d’antico regime»10. La Scienza della legislazione (1780-1789) è riletta pertanto in senso repubblicano11 e come opera fondatrice di un moderno costituzionalismo ispirato dall’esperienza rivoluzionaria americana. Secondo questa prospettiva, quello di Filangieri era un repubblicanesimo affatto diverso dall’arcaizzante tradizione repubblicana ancora viva negli scritti di Mably e Rousseau. Un “repubblicanesimo dei moderni” «in grado di conciliare la virtù degli antichi con la ricchezza e il progresso dei moderni, [...] ma soprattutto [...] un repubblicanesimo capace di passare dai principi e dall’enunciazione dei diritti al loro concreto esercizio attraverso il governo delle leggi e una specifica politica costituzionale»12. Ferrone ritiene “inesatto e riduttivo” collocare Filangieri nel «tradizionale e rassicurante solco dell’assolutismo illuminato»13, contro cui invece il principe di Arianello avrebbe elaborato «un costituzionalismo illuministico [...] dalle caratteristiche precise ed inconfondibili con quanto emergerà nel periodo rivoluzionario, polemico con quello britannico di natura consuetudinaria, teso a rivendicare una costituzione scritta come ‘piccolo codice delle leggi fondamentali’, secondo il nascente modello americano, rispettosa dei diritti e contraria a quell’onnipotenza del legislativo rispetto ai diritti che emergerà ben presto dalle letture rousseauiane dei rivoluzionari francesi»14. Non è questa la sede per approfondire le argomentazioni di una tesi che ha il merito di aver valorizzato la centralità del discorso sui diritti dell’uomo nell’illuminismo napoletano e di aver riportato l’attenzione su autori e questioni di grandissimo rilievo: Carlo Capra, Vittorio Criscuolo, Anna Maria Rao ne hanno già autorevolmente evidenziato i punti di forza e documentato le debolezze15. È utile però soffermarsi, in quanto decisivo per la figura di Pagano, sul contributo dell’interpretazione ferroniana alla vexata quæstio dei rapporti di continuità o frattura tra i Lumi e la Rivoluzione e, in particolare, sui rapporti fra la lunga stagione illuministica delle riforme e il breve periodo del Triennio repubblicano 1796-179916. Il riconoscimento di una tradizione repubblicana e costituzionale italiana, o meglio napoletana, distinta da quella rivoluzionaria francese, da un lato, stabilisce una discontinuità nel nesso Lumi-Rivoluzione, dall’altro ripropone, a partire dalle nuove premesse inscritte in questa frattura, una profonda continuità ideologica peculiare della storia settecentesca italiana. I protagonisti di questa storia, più che soggetti al “dramma” della conversione dai Lumi alla Rivoluzione, sono i portatori di un «programma emancipatorio, di lungo periodo, organico e dettagliato»17 nell’inedito orizzonte politico aperto nel 1796 dalle vittorie dell’armée d’Italie. In tale paradigma interpretativo, Pagano diviene il “fedele allievo di Filangieri” che attinse agli insegnamenti del maestro per l’elaborazione del Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana (1799), i cui punti di divergenza dalla Costituzione termidoriana francese deriverebbero, quindi, proprio dalla sua inconfondibile matrice illuministica; una matrice alla base di quell’originalità del giacobinismo italiano acquisita dalla storiografia sul Triennio, che Ferrone conferma e rilegge dal suo punto di vista. L’esito sanguinoso della repressione contro i repubblicani napoletani assurge, dunque, a emblema di una stagione politica ben più ampia di quella rivoluzionaria: l’impiccagione di Pagano sul patibolo di piazza Mercato a Napoli il 29 ottobre 1799 «segnò anche simbolicamente la fine dell’Illuminismo italiano» e l’inizio di un itinerario di oblio delle radici illuministiche del costituzionalismo democratico e repubblicano italiano18.
Ippolito non tematizza le “nuove categorie storiografiche” del “repubblicanesimo dei moderni” e del “costituzionalismo illuministico” nelle opere di Pagano, ma vi giunge, per così dire, a valle di un percorso tutto interno agli scritti politici e giuridici (lo spazio riservato a quelli teatrali è marginale19). In altri termini il Pagano di Ippolito ha un profilo autonomo rispetto ai risultati delle ricerche di Ferrone. Il costituzionalismo e il repubblicanesimo paganiano vengono infatti ricondotti al dialogo serrato con i testi della cultura classica, del giusnaturalismo, dell’illuminismo e sostanzialmente svincolati dall’ascendenza di Filangieri, di cui, invece, sono rilevati tratti non certo affini a una proposta repubblicana. Ciononostante, il Settecento «dei diritti dell’uomo, del costituzionalismo, del patriottismo repubblicano, della creazione della sfera pubblica, delle pratiche culturali e dei linguaggi della modernità»20, rimane il quadro di riferimento per l’indagine di Ippolito, che nell’insistenza sulle continuità si ricongiunge per altre vie – ed è qui il punto di contatto più stretto con la prospettiva ferroniana – all’interpretazione venturiana dell’esperienza rivoluzionaria e costituzionale del ’99 come culmine della precedente stagione illuministica, come ultimo tentativo per realizzare le riforme21.
A sostegno della tesi di una lunga continuità nella riflessione paganiana, Ippolito si sofferma, in prima istanza, sull’appello rivolto da Pagano il 18 dicembre 1798 al Consiglio dei juniori della Repubblica cisalpina. Perseguitato dalla monarchia borbonica, l’esule chiedeva di non essere espulso dai territori cisalpini, sottolineando l’impegno «per la causa della libertà» cui si era dedicato sin dagli anni dell’insegnamento all’Università di Napoli, «nel corso dei quali» – dichiarava – «ho procurato di istillare le teorie e i sentimenti della libertà nella mente e nel cuore dei giovanetti». Ma non era tutto: ricordava che nei Saggi politici «pubblicati sedici anni fa» (si riferiva cioè alla prima edizione) aveva sviluppato «i principi della democrazia e dei diritti dell’uomo», che le Considerazioni sul processo criminale (1787) erano state tradotte in francese e apprezzate dall’Assemblea costituente, che aveva patito la galera e che era stato benevolmente accolto dalla Repubblica romana dopo l’esilio dal Regno di Napoli22.
L’autorappresentazione dell’attività intellettuale di Pagano sembrerebbe lasciare davvero pochi dubbi circa la mancanza di fratture tra il periodo illuminista e quello rivoluzionario. Tuttavia, come rileva giustamente Ippolito, «considerate le circostanze e gli scopi pragmatici delle parole di Pagano, il suo interessato contributo alla ‘critica di se stesso’ può apparire irrilevante per la comprensione storica della sua opera» (p. XIII). Diversa è invece la valutazione della reazione da parte degli ambienti cattolici più oltranzisti all’indomani della pubblicazione della prima edizione dei Saggi politici. Secondo la testimonianza del coevo profilo biografico di Pagano scritto da Lorenzo Giustiniani nelle Memorie istoriche degli scrittori legali del regno di Napoli (1788), anonimi teologi consegnarono al Cappellano maggiore Isidoro Sanchez de Luna un elenco di «quaranta erronee proposizioni [...] facendo vedere [...] gli errori di panteismo, di materialismo in cui era incorso l’autore, come anche di aver impugnata la verità della naturale, e della rivelata Religione, e di altre dottrine opposte alla Monarchia, ed all’Aristocrazia, oltre della sua corrotta morale sparsa dappertutto ne’ suoi saggi»23. Ippolito scorge in queste accuse un importante indizio per accedere a quella che ritiene la corretta lettura della prima edizione dei Saggi, secondo la quale l’opera proponeva un progetto politico repubblicano, eversivo dell’ordine monarchico costituito.
La polemica clericale costituisce solo una traccia per la densa analisi di Ippolito, che segue ben altri percorsi. Ci sembra però opportuno rilevare che il condivisibile approccio critico verso l’appello milanese del dicembre 1798 andrebbe assunto anche nei confronti della diatriba innescata dal livore anti-illuminista di coloro che Giustiniani non esitava a definire “sciocchi censori”24. Le quaranta erronee proposizioni, per quanto è possibile cogliere dalle citate pagine delle Memorie istoriche degli scrittori legali, s’inscrivevano chiaramente nell’offensiva generalizzata della Chiesa contro i philosophes, accusati non soltanto di minare i dogmi della religione rilevata, ma soprattutto considerati nemici politici, perché in grado di fornire l’arsenale ideologico necessario alle monarchie per sottrarsi ai vincoli che le stringevano a Roma. Nella Napoli della metà degli anni ’80 del Settecento, denunciare il carattere eversivo per la monarchia e per l’aristocrazia delle dottrine antireligiose del “panteismo” e del “materialismo” paganiano aveva una precisa connotazione politica: significava richiamare la dinastia borbonica a un ralliement con la Chiesa, agitando lo spauracchio dell’abbattimento dell’ordine costituito cui avrebbe condotto la linea riformistica. La condanna dei Saggi era parte di un’ampia strategia che intendeva recuperare i rapporti incrinati a causa della politica giurisdizionalistica del governo napoletano. Una strategia che il clero conservatore ripropose, infatti, a seguito delle nuove di Francia, quando con rinnovato vigore poté più facilmente propagandare l’idea della rivoluzione come diretta filiazione delle riforme promosse dalla filosofia. Anche all’inizio degli anni ’90 l’obiettivo era la netta inversione di tendenza di quel moto riformatore, in cui molti suoi sostenitori individuarono invece l’antidoto contro le derive rivoluzionarie25.
Non pare dunque possibile rintracciare nel casus che seguì la pubblicazione dei Saggi gli orientamenti utili a delineare la ricezione immediata della teoria politica paganiana, a meno che non si intenda circoscrivere l’indagine agli ambienti conservatori. Questi ultimi, accecati dal materialismo di Pagano, potevano vedere in lui – come scrive Ippolito – «(già nel 1785) un pericoloso sovvertitore dei pilastri dell’ordine sociale» (p. XIV), ma la valutazione fortemente condizionata da pregiudizio ideologico dei censori non consente di svincolare – tout court – il filosofo lucano dall’orizzonte monarchico. Del resto, se si accordasse un tale valore paradigmatico alle accuse dei detrattori, si dovrebbe quantomeno dare uguale credito alla Lettera apologetica che Pagano stesso inviò in sua difesa a Diodato Marone e Francesco Conforti, teologi di corte e professori all’Università designati come revisori da monsignor Sanchez de Luna. Per confutare la “quarta imputazione”, in cui gli era stato contestato il «reato di aver biasimato l’aristocratico e monarchico governo lodando soltanto la democrazia», Pagano presentava le sue pagine dedicate alle forme di governo “regolari” (monarchia, aristocrazia, democrazia) come debitrici di quanto già scritto da Montesquieu nell’Esprit des lois: le calunnie che gli erano rivolte erano perciò da imputare più all’“ignoranza” che alla “malignità”. L’errore dei “benevoli censori” consisteva nell’aver confuso “libertà politica e libertà civile. La prima non si può ritrovare che nella democrazia, la seconda ritrovasi in ogni regolare governo, come si è il regno e l’aristocrazia”. Si trattava di un dato da inquadrare nella dimensione analitica, descrittiva sviluppata nei Saggi, che non si traduceva in un’opzione politica né, tantomeno, in una scelta programmatica in favore della democrazia. Al contrario, ciò cui Pagano “aspira” è la libertà civile, necessaria «per la felicità dei popoli, per la perfezione della società», «la quale è riposta nella tutela che prendono le leggi de’ diritti di ciascuno»26. Ebbene, la libertà civile – scriveva Pagano – non era affatto una prerogativa esclusiva della democrazia: «la coltura e la perfezione della società può dovunque fiorisca qualsiasi de’ tre divisati regolari governi [...]. Basta solo che la civile libertà vi sia rispettata, che dalle leggi sia protetta e difesa, che placido e tranquillo in piena sicurezza riposi il cittadino, e de’ suoi dritti adopri il suo talento, regnerà sempre ivi l’ordine e la pace, le scienze e l’arti»27. In definitiva, si chiedeva Pagano, «quando così chiaro si parla, le interpretazioni possono avere mai luogo?»28. Anche la Lettera apologetica è condizionata dal particolare movente per cui fu scritta: la soffocante circostanza di doversi difendere da accuse che avrebbero potuto dar luogo a gravi procedimenti di censura. Sarebbe dunque arbitrario servirsi esclusivamente del Pagano obbligato interprete di se stesso per decodificare i nodi controversi della prima edizione dei Saggi politici. La polemica che ne seguì la pubblicazione è però di grande interesse proprio perché conferma la complessità di un’opera ambiziosa, cruciale per comprendere la portata delle questioni che animarono il coevo dibattito politico e, soprattutto, per indagare i fermenti dell’ultima stagione dell’illuminismo napoletano. Fermenti estranei alla categoria stereotipata del dispotismo illuminato, ma che allo stesso tempo non approdarono a un compiuto disegno di superamento dell’Antico regime.
L’analisi condotta da Ippolito dei fondamenti teoretici della filosofia giuspolitica di Pagano coglie decisamente nel segno. Come aveva già sottolineato Criscuolo nel suo intervento al Convegno per il bicentenario della Repubblica napoletana29, è lì che effettivamente risiedono le continuità tra le due edizioni dei Saggi. Nel materialismo che concepiva le azioni degli uomini come conseguenze necessarie di leggi naturali simili a quelle che regolano il movimento dei corpi; nella concezione del diritto come forza in atto, dinamica, tendente a far prevalere gli uni sugli altri; nella conseguente visione pessimistica della vita sociale e del corso della storia delle nazioni. Ippolito indaga con competenza e chiarezza stilistica le fonti del pensiero paganiano, confrontandosi con l’eredità di Locke, dei classici del giusnaturalismo e dell’illuminismo, con l’influenza esercitata dalle categorie aristoteliche e vichiane. Valuta i risvolti di questi fondamenti teoretici nelle avanzate posizioni assunte da Pagano sulla questione feudale, sull’esigenza di una codificazione che facesse valere nella società le norme del diritto naturale, sulla definizione di una teoria della giustizia penale che garantisse la libertà dell’individuo. Tuttavia la ricchezza dell’indagine tende a imbrigliarsi nel sostegno alla tesi della continuità ideologica, nella ricerca delle anticipazioni di radicali cambiamenti che si determinarono soltanto nell’alveo delle nuove vie di azione politica aperte dalla Rivoluzione e, in particolare, durante il Triennio30. Una tendenza che stempera anche le puntate in cui l’autore non manca di sottolineare i momenti critici, gli scarti, i mutamenti e che si fa più evidente nel capitolo IV dedicato al “repubblicanesimo”. In queste pagine si valorizzano i legami dell’attività politica di Pagano nella Napoli repubblicana con la sua precedente elaborazione teorica; legami che sgombrano efficacemente il campo da presunte “passività” della Rivoluzione del ’99. I risultati paiono però meno convincenti quando il Progetto di Costituzione è focalizzato soprattutto come la codificazione di un pensiero costituzionale autonomo piuttosto che come un contributo al decennale dibattito costituzionale rivoluzionario; un contributo – sia detto per inciso – conservatore sul piano dell’immediato riconoscimento dei diritti politici, riservati a un futuro popolo “rigenerato” dall’educazione repubblicana, premessa indispensabile per procedere a un ampliamento dei titolari.
Le continuità teoretiche sono tali in quanto nucleo di un pensiero in evoluzione che si misurò con rivolgimenti epocali. La ricerca di Ippolito le conferma come dato incontestabile, che però può essere utilizzato proprio per indagare le ragioni dei mutamenti. Pagano nella prima edizione dei Saggi individuava nel diritto all’esistenza uguale per tutti gli esseri umani una via per porre fine alle usurpazioni dei potenti, sostenendo un’istanza eversiva non certo trascurabile. Ma le conseguenze dell’“universale urto degli uomini oppressi”31 si materializzarono solo dopo gli eventi francesi, quando non a caso venne posto con chiarezza il problema costituzionale: l’eliminazione nella seconda edizione dei Saggi dell’elogio di Ferdinando IV e Maria Carolina, spiraglio di ottimismo nella plumbea ricostruzione storiografica della storia del Regno di Napoli, delineata nel quinto Saggio della prima edizione, fa trasparire la diffidenza di Pagano verso la possibilità che il Regno potesse abbandonare la condizione di monarchia feudale e trasformarsi, grazie all’azione riformatrice dei sovrani, in una forma di governo regolare, in una monarchia assoluta e illuminata32. Certo si tratta di spunti che non devono indurre a opporre schematicamente il philosophe al rivoluzionario degli inizi degli anni ’90; come rileva Ippolito, e come aveva rilevato Galasso, persistono gli elogi della monarchia anche nella seconda edizione dei Saggi. Ciononostante, la coesistenza di posizioni che potrebbero sembrare contraddittorie al di fuori del contesto di crisi dell’Antico regime consente di misurare l’importanza della riflessione paganiana per penetrare la problematicità di quel contesto politico. Circa venti anni fa, Luciano Guerci metteva in guardia dalle ambiguità della categoria tutta ottocentesca del dispotismo illuminato. I termini sono antitetici e mal si adattano a definire «un’attività proveniente dall’alto (dai sovrani e dai loro collaboratori) la quale volle essere [...] sollecita del bene dei sudditi»33. Inoltre la categoria, da un lato, ingenera una confusione tra monarchia assoluta e dispotismo che nel Settecento, pur tra oscillazioni, mantenevano una distinzione ben precisa; e dall’altro, «sembra suggerire un rapporto di causa-effetto tra movimento delle idee e politica dei monarchi» inaccettabile se si presta attenzione alle molte ragioni materiali (la crisi economica che seguì la guerra di successione austriaca e quella dei Sette anni) alla base dell’esigenza riformatrice e se si entra nel merito di un processo disomogeneo, caratterizzato da profonde differenze tra Stato e Stato: «meglio sarebbe, in fin dei conti, sbarazzarsi della categoria del ‘dispotismo illuminato’ ed esaminare senza preoccupazioni nominalistiche le riforme che vennero attuate o progettate lungo l’intero Settecento»34. Ippolito ha ritenuto opportuno confrontarsi con questa categoria, probabilmente guidato dall’ingombrante presenza in molti degli studi su Pagano che lo hanno preceduto. La sua “reinterpretazione” ribadisce la necessità di sbarazzarsene e di provare a ragionare sulle effettive opzioni politiche dei protagonisti di quella stagione.
Come sarà emerso, nel «luogo di tensione [...] civile e componibile» che sta animando la storiografia italiana sul XVIII secolo, con cui si è confrontato Giuseppe Ricuperati in un recente ricchissimo saggio, chi scrive trova maggiori elementi di persuasione in «coloro che ritengono il crogiolo del Triennio essenziale per la democrazia e i suoi valori» rispetto a quanti «arretrano fino all’Illuminismo»35. Da questo punto di vista libri come quelli di Ippolito rappresentano importanti momenti di confronto, perché esortano con il pungolo attraente della finezza delle argomentazioni a tenere sempre alta l’attenzione sui profondi canali di comunicazione che legarono la stagione dei Lumi e quella della Rivoluzione. Non è discutibile la validità della proposta innanzitutto metodologica di rompere definitivamente gli steccati delle letture teleologiche tendenti a intravedere nel ‘prima’ le semplici origini del ‘dopo’. Alla luce dei recenti sviluppi della storiografia è sempre più viva l’esigenza di studiare il Settecento italiano sia per quello che elaborò di originale e autonomo in ambito culturale e politico, sia per quanto lasciò in eredità al periodo rivoluzionario, nonché ai secoli successivi. La storia delle idee proposta da Ippolito risponde a questa esigenza, svelando importanti linee di continuità nel pensiero giuspolitico di Pagano. Come abbiamo provato ad argomentare, non riteniamo però che tali continuità consentano al Pagano philosophe di superare «le frontiere dell’illuminismo riformatore, proiettandosi nell’orizzonte della rivoluzione»36 . Restiamo convinti che le frontiere delle riforme corrispondessero in larga parte al progetto politico degli illuministi italiani, per quanto alcuni fra loro, e Pagano era certamente fra questi, cominciassero a minarne l’impianto. Furono i patrioti che abbatterono quelle frontiere; ma non va dimenticato – e il libro di Ippolito è lì a ricordarcelo – che i patrioti attinsero alle macerie per forgiare il nuovo materiale rivoluzionario. Un materiale con cui costruirono l’edificio della modernità.


NOTE
1 Le citazioni dal volume in questione verranno segnalate direttamente nel testo indicando fra parentesi la pagina da cui sono tratte.Top
2 F. Venturi, Nota introduttiva a F.M Pagano, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. 46, Illuministi italiani, tomo V, Riformatori napoletani, a cura di Franco Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, pp. 783-833, ma cfr. anche Idem, Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, «Rivista storica italiana», 74 (1962) pp. 5-26.Top
3 B. Sasso, I “Saggi politici” di F.M. Pagano dalla prima alla seconda edizione, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti di Napoli”, 93 (1982), pp. 113-155.Top
4 F. Lomonaco, Introduzione a Francesco Mario Pagano, De’ saggi politici. Ristampa anastatica della prima edizione (1783-1785), a cura di F. Lomonaco, presentazione di F. Tessitore, Napoli, Fridericiana editrice universitaria, 2000, pp. XIII-XCIV.Top
5 G. Solari, Della vita e delle opere di Francesco Mario Pagano (1924), in Idem, Studi su F.M. Pagano, a cura di Luigi Firpo, Torino, Giappichelli, 1963, pp. 19-161.Top
6 G. Galasso, I giacobini meridionali (1984), in Idem, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, pp. 509-548.Top
7 F. Venturi, Nota introduttiva a Francesco Mario Pagano, cit., p. 825.Top
8 G. Galasso, I giacobini meridionali, cit., p. 513. Su questi temi ci limitiamo a rinviare ad A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), prefazione di G. Galasso, Napoli, Guida, 1992.Top
9 V. Ferrone, L’illuminismo italiano e la rivoluzione napoletana del ’99. Un problema storico da ridefinire, in «Studi storici», 40, (1999), pp. 993-1007, ripubblicato in appendice alla seconda edizione di Idem, I profeti dell’illuminismo. La metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma-Bari, Laterza, 20002 (I ed. 1989), pp. 361-374.Top
10 Idem, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. X.Top
11 «Tutta la Scienza della legislazione risulta incomprensibile se si perde di vista l’afflato repubblicano che la pervade in ogni riga»: V. Ferrone, Le radici illuministiche del costituzionalismo democratico e repubblicano dell’Italia contemporanea: il caso Filangieri, in Diritti e costituzione. L’opera di Gaetano Filangieri e la sua fortuna europea, a cura di Antonio Trampus, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 11-17, qui p. 17.Top
12 Ferrone, La società giusta ed equa, cit., pp. 172-173.Top
13 Ivi, p. 63.Top
14 V. Ferrone, Le radici illuministiche…, cit., p. 16.Top
15 C. Capra, Repubblicanesimo dei moderni e costituzionalismo illuministico: riflessioni sull’uso di nuove categorie storiografiche, in «Società e storia», 2003, 100/101, pp. 355-371, cui è seguita la Risposta a Carlo Capra di Ferrone, in «Società e storia», 104 (2004), pp. 401-407; V. Criscuolo, «Vecchia» storiografia e nuovi revisionismi nella ricerca storica sull’Italia in rivoluzione, in Idem, Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792-1802), Milano, Angeli, 2006, pp. 25-178; A.M. Rao, Presentazione del volume di C. Passetti, Verso la Rivoluzione. Scienza e politica nel Regno di Napoli (1784-1794), Napoli, Vivarium, 2007, pp. VII-XXIVTop.
16 Cfr. A.M. Rao, Lumières et Révolution dans l’historiographie italienne, in «Annales historiques de la Révolution française», 334 (2003), pp. 83-104.Top
117 Ferrone, La società giusta ed equa…, cit., p. 211.Top
18 Ferrone, Le radici illuministiche…, cit., p. 13.Top
19 Sul cui rilievo politico cfr. invece A. Quondam, Il teatro senza rivoluzione: politica e sentimento nelle opere drammatiche di Francesco Mario Pagano, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche. Società nazionale di scienze lettere e arti in Napoli”, 86 (1975), pp. 347-371.Top
20 Ferrone, La società giusta ed equa…, cit., p. XIV.Top
21 Cfr. Venturi, Nota introduttiva a Francesco Mario Pagano, cit., p. 823.Top
22 Cfr. N. Ferorelli, Mario Pagano esule a Milano, in «Archivio storico lombardo», 44 (1917), pp. 630-654, qui pp. 630-631, da cui Ippolito trae le citazioni.Top
23 Memorie istoriche degli scrittori legali del regno di Napoli raccolte da Lorenzo Giustiniani, Napoli, Stamperia simoniana, 1787-1788, 3 voll., III, pp. 3-7; pp. 5-6.Top
24 Ivi, p. 6.Top
25 Cfr. A.M. Rao, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in «Prospettive settanta», 7 (1985), pp. 403-476.Top
26 Lettera apologetica. Difesa. Lettera di Francesco Mario Pagano a’ [...] fra’ Diodato Marone [...] e don Francesco Conforto [...], in F.M. Pagano, Saggi politici. Luoghi e varianti della prima edizione (1783-1785) rispetto alla seconda (1791-1792) e altri scritti etico-politici, a cura di Laura Salvetti Firpo, Napoli, Vivarium, 2004, pp. 13-34, qui pp. 28 e 30.Top
27 Ivi, p. 29, Pagano cita il Saggio V, cap. XVI, p. 141, cfr. Pagano, De’ saggi politici. Ristampa anastatica della prima edizione…, cit., p. 547.Top
28 Lettera apologetica…, cit., p. 29.Top
29 V. Criscuolo, L’esperienza della Repubblica napoletana nel quadro del triennio rivoluzionario 1796-1799, in Napoli 1799. Fra storia e storiografia, Atti del Convegno internazionale, Napoli, 21-24 gennaio 1999, a cura di A.M. Rao, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 241-294, ora in Idem, Albori di democrazia, cit., pp. 407-442.Top
30 Cfr. A.M. Rao, L’expérience révolutionnaire italienne, in «Annales historiques de la Révolution française», 313 (1998), pp. 387-407.Top
31 Pagano, De’ saggi politici. Ristampa anastatica della prima edizione, cit., Appendice al terzo saggio, cap. III, p. 414.Top
32 Cfr. G. Imbruglia, Rivoluzione e civilizzazione. Pagano, Montesquieu e il feudalesimo, in Poteri democrazia virtù. Montesquieu nei movimenti repubblicani all’epoca della Rivoluzione francese, a cura di Domenico Felice, Milano, Angeli, 2000, pp. 99-122.Top
33 L. Guerci, L’Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Torino, Utet, 20062 (I ed. 1987), pp. 501-508; qui p. 501.Top
34 Ivi, pp. 501 e 503.Top
35 G. Ricuperati, Frontiere e limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, Torino, Utet, 2006, p. 351.Top
36 Riprendiamo, riadattandole, espressioni presenti nella quarta di copertina.Top
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