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Università italiana e modello tedesco. Una nuova fonte (1869)
di Anna Maria Voci
È noto che in Italia, sin dalla sua costituzione in Stato nazionale, il dibattito sulla riforma universitaria fu intenso, diffuso, direi quasi assiduo. È altrettanto noto che dalla Legge Casati (1859) fino a quella di Gentile (1923) si riuscì a realizzare solo qualche intervento, taluno marginale, qualche altro più incisivo, su singole questioni divenute urgenti, non però una complessiva e organica riforma1.
L’organizzazione degli atenei e degli studi universitari, il reclutamento del personale docente, il funzionamento dell’attività didattica furono oggetto di lunghi dibattiti. Pressocché da tutti, che fossero esponenti della Destra o della Sinistra, si riconosceva, a parole, la necessità di una riforma. E tuttavia tali dibattiti non sortirono praticamente quasi alcun effetto sostanziale sulla vita e sulle strutture dell’Università italiana, sia a causa della lentezza dei lavori parlamentari, sia per l’instabilità dei Governi e per i frequenti cambi di persone al vertice del Ministero della Pubblica Istruzione («la vita media d’un ministro di pubblica istruzione non arriva in Italia a un anno» affermava G.B. Giorgini nel 18632), sia per l’eccessiva disparità delle opinioni e degli interessi particolari da difendere, sia, infine, perché, nonostante «la proliferazione di progetti, il problema della scuola rimaneva ai margini della vita politica»3.
Negli anni ’60 dell’Ottocento, gli anni in cui si collocano le due fonti qui pubblicate, il dibattito sull’Università trasse ispirazioni e stimoli dai due principali modelli allora esistenti in Europa, quello francese e quello tedesco, e si alimentò anche delle reminiscenze erudite di quell’istituzione idealizzata e irriproducibile che era stata l’Università medioevale. Le origini di quest’ultima gli intellettuali italiani, indulgendo ad un fin troppo affascinante itinerario o schema storico, trasfigurantesi in un mito, scorgevano in Italia, nei Comuni italiani, dai quali, in seguito, le Università tedesche avrebbero tratto i loro criteri di ordinamento per poi, a metà Ottocento, restituirli all’Italia “risorta”.
Vi è praticamente unanimità tra gli studiosi nel ritenere che sia stato il modello tedesco quello che più fu ammirato in Italia e che più ispirò le continue proposte di riforma, rinnovamento, riorganizzazione delle nostre Università. E ciò non solo a partire dall’Unità. Dopo il 1861, è vero, il riferimento al modello tedesco divenne quasi costante. Due studiosi italiani, che molto si sono occupati di storia della Scuola e dell’Università, hanno affermato che «fin dalla legge Casati, e poi nel corso del dibattito pluridecennale, la vita scientifica, e l’organizzazione delle università tedesche costituirono, per studiosi e politici italiani, un costante punto di riferimento»4; che, sin dall’approvazione della Legge Casati la classe dirigente italiana guardò all’Università tedesca come a un modello da imitare, percependone il grado di eccellenza5 .
È stato, però, evidenziato, ed è opportuno ripeterlo in questa sede, che già prima del 1861 si manifesta qua e là in Italia la consapevolezza dell’esemplarità del sistema universitario tedesco. Come l’interesse per altri aspetti del mondo intellettuale e della cultura tedesca, anche quello per l’organizzazione degli studi universitari fu, in quei decenni anteriori agli anni ’60, soprattutto a causa della scarsa conoscenza della lingua tedesca, mediato, direi filtrato, in Italia attraverso gli impulsi di una parte della cultura francese, quella più sensibile all’idealismo tedesco6.
Anche il “modello” tedesco, però, come quello medioevale, veniva, in Italia, idealizzato. Sembra, cioè, che gli intellettuali italiani che lo proponevano per una riforma del nostro sistema universitario non fossero ben consapevoli della sua incongruenza di fondo, che, pur non condannandolo, in Germania, all’inefficacia, col tempo, però, diede luogo, anche lì, a riflessioni e discussioni.
Il modello tedesco di Università, fondato sui due cardini del monopolio pubblico dell’istruzione e della più ampia libertà dell’insegnamento e dell’apprendimento, era una singolare mescolanza tra istituzione statale, sodalizio corporativo e iniziativa privata. Dal punto di vista dell’apparato burocratico-amministrativo esso costituiva, in effetti, un’anomalia, in quanto il corpo insegnante era costituito in parte da “funzionari”, assunti e retribuiti dallo Stato, e, in parte, da docenti che non lo erano, e insegnavano solo a titolo privato. Ma anche i primi, i “funzionari”, i “Beamten”, rappresentavano un’anomalia all’interno del ceto burocratico, essendo meno sottoposti degli altri loro colleghi, funzionari, a regole disciplinari e a controlli, e godendo di molta più libertà nell’espletamento delle loro funzioni: essi potevano, infatti, decidere da sé contenuti, tempi, ed estensione del loro lavoro, l’insegnamento e la ricerca, e persino l’importo dell’onorario che era consentito loro chiedere per le lezioni, senza doversi sottoporre a controlli. Non solo: l’anomalia dello status del professore ordinario era ancora più sottolineata dal sistema del loro reclutamento sin dal primo all’ultimo gradino della carriera universitaria. I giovani docenti, i docenti privati, come gli straordinari e gli ordinari, venivano, infatti, scelti di regola proprio dal collegio dei professori, dalla Facoltà, realizzando quella che, nella maggior parte dei casi, può definirsi quasi una cooptazione. Tutto ciò avvicinava i professori tedeschi piuttosto ad una corporazione, dotata di ampi spazi di libertà e indipendenza, che ad un ceto burocratico reclutato, disciplinato e controllato dallo Stato.
Dall’altro lato, il fatto che una figura centrale del sistema tedesco, i liberi docenti, godessero, in quanto docenti a titolo privato, di una totale e incontrollata libertà nell’esercizio del loro lavoro, e che gli studenti fossero anch’essi liberi di scegliersi i professori e di seguire le lezioni che più aggradavano loro, rendeva ancor di più l’Università un’istituzione dai tratti molto diversi da quelli, consueti, di un ufficio statale7.
Questo “modello” riuscì a funzionare in Germania, nonostante la sua incongruenza di fondo, e nonostante le insoddisfazioni che, col tempo, si manifestarono soprattutto intorno alla figura, così poco istituzionalizzata e priva di garanzie, del Privatdozent, il libero studioso. Ciò senza contare il fatto che, sia nei primi decenni, che negli ultimi del secolo XIX, aumentarono i casi di controllo governativo sull’attività didattica di liberi docenti e professori. Quel modello riuscì comunque a funzionare perché si fondava in gran parte su un substrato culturale, l’individualismo idealistico, con il suo nuovo senso storico, che in Germania fu molto più potente e robusto che in Italia. Quel modello, che aveva consentito alla scienza tedesca di ottenere grandi successi e prestigio internazionale, fu, appunto per questo, vagheggiato da molti in Italia, e, in parte, anche copiato dalla nostra legislazione, e tuttavia da noi non riuscì a funzionare.
Per ciò che riguarda l’Italia, occorre, però, credo, aggiungere che, se è vero che nelle discussioni teoriche prevalse senz’altro l’esemplarità del modello tedesco, animato dall’idea della libertà degli studi e della concorrenza sia tra i docenti, sia tra gli atenei sparsi nella realtà federale dei territori tedeschi, è, tuttavia, anche vero che, nella realizzazione pratica, sembra piuttosto, alla fine, avere avuto la meglio, soprattutto quanto all’organizzazione degli studi e all’autonomia universitaria, il modello francese, governato e controllato dal centro, dallo Stato, che dava la priorità non alla ricerca e all’insegnamento del metodo di ricerca scientifica, ma alla formazione professionale dello studente, alla sua preparazione all’espletamento di una professione, in senso lato, borghese.
Prima di presentare le due fonti oggetto di questo saggio, sarà, forse, opportuno ricordare per sommi capi le tappe essenziali del dibattito sulla riforma universitaria in Italia tra il 1859 ed il 1869, e il contenuto dei principali provvedimenti adottati, anche se ciò è ben noto agli specialisti di questa materia.
Al modello tedesco fa riferimento il proemio della prima legge che riordinò la Scuola e l’Università italiane, laLegge Casati del 13 novembre 18598 . E tuttavia, quanto all’ordinamento dell’Università, questa Legge adottò solo in parte il modello tedesco. La libertà di reclutamento dei professori, ad esempio, vale a dire una parte cospicua dell’autonomia delle Università, era limitata da un sistema accentrato (il concorso con commissari di nomina ministeriale) di scelta dei professori ordinari. D’altro canto, la Legge istituì la figura, tipica del sistema tedesco, del libero docente, che conseguiva il titolo mediante un esame, consistente in una prova scritta, una orale ed una lezione su un argomento proposto dalla commissione esaminatrice presieduta dal preside della Facoltà, e composta in parti uguali da docenti della Facoltà e da membri estranei ad essa. La venia legendi, cioè il titolo ad esercitare l’insegnamento libero, andava perduta se il docente privato non teneva lezioni per cinque anni consecutivi «senza legittimo impedimento»9.
Analogamente al caso tedesco, il libero docente era retribuito dall’Università con le tasse pagate da ogni studente iscritto al suo corso, e, pertanto, secondo lo spirito della Legge, egli avrebbe dovuto vedersi costretto, proprio come avveniva in Germania, ad offrire un insegnamento di alto livello, ed entrare, quindi, in competizione col professore ordinario: ciò avrebbe dovuto innalzare il livello qualitativo dell’insegnamento. Quanto agli studenti, infine, la Legge lasciò loro libertà nell’elaborazione dei loro piani di studio (come avveniva, appunto, in Germania), ma non abolì gli esami speciali, quelli da sostenere al termine di ogni corso su una determinata materia (sconosciuti in Germania), né li sostituì con il seminario, il luogo di apprendimento del metodo critico della ricerca, di approfondimento di tematiche scientifiche, complementare alla lezione generale e tipico del mondo accademico tedesco.
La Legge Casati, entrata in vigore in un primo momento per i soli territori piemontese e lombardo, avrebbe, poi, dovuto essere estesa nella sua integrità ai territori annessi al Regno dopo il novembre 1859. A questa estensione completa, che avrebbe introdotto nel resto d’Italia un sistema accentrato di governo e di gestione dell’Università, si oppose, tuttavia, la forza di resistenza delle tradizioni autonomistiche locali, e pertanto quel sistema venne, nella maggior parte dei casi, esteso solo in parte alle altre regioni italiane, e rimase non omogeneo10.
La legge che più si discostava dalla Legge Casati fu quella per l’istruzione superiore per le provincie napoletane, emanata da Paolo Emilio Imbriani il 16 febbraio 1861. Questo provvedimento era ispirato al principio di una quasi assoluta libertà accademica (in particolar modo per i liberi docenti e gli studenti), libertà consona alla tradizione dell’ambiente culturale napoletano, che si ribellava alle troppe restrizioni apportate alla libera docenza dalla Legge Casati. E qui, non a caso, si verificheranno anche i maggiori abusi di questa libertà11. Avvenne pertanto che
nel nuovo Stato, che si trovava a dover sciogliere il nodo cruciale tra scelta centralistica o decentramento dell’amministrazione pubblica, anche la questione dell’assetto dell’istruzione superiore era posta in questa prospettiva12.

I due principali provvedimenti adottati negli anni seguenti furono la Legge del 31 luglio 1862 e il Regolamento del 14 settembre 1862, entrambi emanati essendo ministro Carlo Matteucci. Nel tentare «di uniformare il funzionamento delle Università del Regno e di introdurre dappertutto la stessa disciplina nei corsi e negli esami, limitando le disparità»13 ereditate dalla tradizione e dalla legislazione degli antichi Stati italiani, e con l’obiettivo ultimo di «costituire alcuni centri universitari di rilevanza davvero nazionale» e di accrescere il prestigio e l’autorità degli atenei maggiori a scapito di quelli minori, destinati, negli intenti del Ministro, ad estinguersi14, quei provvedimenti finivano, tuttavia, per incidere molto sulla libertà d’insegnamento e di apprendimento, che, comunque, era stata tenuta in una qualche considerazione dalla Legge Casati.
Con la Legge del luglio 1862, infatti, si fissavano, abbassandole notevolmente, le tasse e gli emolumenti per professori e liberi docenti, mettendo pertanto a rischio la fonte di sostentamento, e, dunque, la stessa attività d’insegnamento dei secondi. Con il successivo Regolamento si formulavano prescrizioni vincolanti sui piani di studio, sull’obbligo di frequenza, sui programmi e sull’ordine degli esami (esami di ammissione, esami speciali durante il corso di laurea, esami finali di laurea) per gli studenti. Erano innovazioni ritenute, a quanto pare, necessarie, da un lato per ovviare all’ingiusto divario delle tasse universitarie da luogo a luogo, dall’altro per frenare gli abusi della libertà di insegnamento e di apprendimento, registratisi soprattutto, come si dirà, tra i liberi docenti, e per introdurre una disciplina più rigorosa e selettiva degli esami: in sostanza per elevare il livello qualitativo dell’Università. Quelle innovazioni contraddicevano all’impostazione, più ispirata alla libertà accademica germanica, della Legge Casati, e si orientavano piuttosto al modello accentratore francese, considerato, evidentemente, più consono alla mentalità italiana. Non solo:
Si trattava nell’insieme di un intervento di tipo chiaramente accentratore, che trovava una sua giustificazione nel nuovo clima politico conseguente all conquista del sud e al fallimento dell’ipotesi di decentramento […] Ad orientare Matteucci verso scelte di questo tipo, e dunque verso un modello inequivocabilmente mutuato dalla Francia, avevano contribuito in modo decisivo il lungo periodo trascorso a Parigi e l’amicizia con François Guizot, ministro della pubblica istruzione della Monarchia di luglio e grande organizzatore della cultura15.

Passarono solo un paio d’anni, e già i provvedimenti di Matteucci furono oggetto di severe critiche. Queste vennero, ad esempio, da Ruggiero Bonghi, un intellettuale e uomo politico certamente non filo-tedesco, ma nemico personale di Matteucci. Egli le formulò in primo luogo in nome di quella «libertà accademica» che molti ritenevano uno dei maggiori valori dell’istituzione universitaria e che era uno dei cardini dell’organizzazione accademica tedesca: «Come colla legge del 31 luglio 1862 fu uccisa la libertà d’insegnare, così, col Regolamento del 14 settembre 1862 fu ammazzata quella di studiare. Senza l’una non va l’altra; ed ambedue formano quella libertà accademica, che accende lo spirito della scienza nel maestro e nello scolare»16.
Critiche vennero anche da chi, come Luigi Settembrini o Pasquale Villari, o, di nuovo, Bonghi17, constatarono che il rigido regolamento degli esami previsto dal provvedimento di Matteucci non era affatto riuscito a risollevare il livello dell’insegnamento e dell’apprendimento nelle Università italiane, e che, anzi, al contrario, proprio quel minuto regolamento di programmi di esami speciali e piani di studio aveva provocato un ulteriore degrado del livello degli studi18. Unanime era, poi, la constatazione del fallimento della libera docenza, che, invece di innalzare la qualità degli studi stimolando una nobile concorrenza tra i docenti, come il legislatore della Casati aveva ritenuto avvenire nel mondo germanico e si augurava potesse verificarsi anche in Italia, aveva dato luogo, in maniera particolarmente visibile a Napoli, ad abusi, raggiri e truffe, consumate grazie ad accordi tra studenti e liberi docenti. I primi, abusando della loro libertà di studio, si iscrivevano solo sulla carta ai corsi dei liberi docenti, e questi ultimi, abusando anch’essi, a loro volta, della loro libertà d’insegnamento, finivano per riscuotere i loro emolumenti senza di fatto insegnare, o restringendosi a dare agli studenti ripetizioni delle lezioni degli ordinari onde prepararli agli esami.
Alla fine del 1866 Villari formulava proposte di riforma ispirate al modello tedesco, cioè all’idea del valore primario della libertà di insegnamento e di apprendimento, e a quell’altra, strettamente connessa, della concorrenza tra i docenti, l’unica in grado di elevare il livello didattico dell’Università italiana: sostituzione degli esami speciali con un esame di Stato, cioè un esame complessivo per l’abilitazione ad una professione, sostenuto dal candidato davanti ad una commissione statale i cui membri dovevano essere diversi dai professori universitari seguiti dallo studente; introduzione di un regime di libertà per lo studente, lasciato libero di seguire i corsi che più lo interessano; rilancio della figura del libero docente19, auspicato anche da Ruggiero Bonghi20.
Seguirono due progetti di riforma, uno della Commissione d’inchiesta insediata nel 1863 dal ministro Michele Amari, l’altro di un’altra Commissione, nominata dal successivo ministro, Giuseppe Natoli, e composta da Matteucci, Ercole Ricotti e Francesco Brioschi. Entrambi questi progetti erano incentrati su un ambito limitato: da un lato il problema del numero delle sedi universitarie, che il primo avrebbe voluto vedere aumentate, il secondo restringersi; dall’altro, il tema, anch’esso parecchio discusso in Italia, della necessità di separare le scuole di istruzione superiore, dedicate alla preparazione professionale degli studenti, da quelle votate, invece, alla preparazione alla sola ricerca scientifica21.
Il 28 dicembre 1866 il ministro allora in carica, Domenico Berti, presentò un disegno di legge sulla riforma dell’istruzione universitaria, che teneva ampio conto dell’esperienza del modello tedesco, tendeva a rafforzare la figura del libero docente per stimolare la concorrenza intellettuale e favorire la crescita culturale delle Università, ed era
ispirato ai criteri di libertà: lanciando l’appello «torniamo alla Casati», Berti mirava ad introdurre maggiori spazi di autonomia per studenti e professori. Egli sosteneva che i provvedimenti successivi alla legge 13 novembre 1859 ne avevano falsato lo spirito, sovrapponendovi princìpi diversi da quelli che l’avevano ispirata. Soprattutto era stato osteggiato l’istituto della libera docenza, di cui la legge Matteucci avrebbe decretato di fatto la scomparsa22.

Oltre alle numerose misure particolari attinenti alla didattica, sarà sufficiente ricordare qui che agli studenti Berti restituiva la facoltà di scegliersi e mettere insieme autonomamente un loro piano di studi. Il progetto Berti decadde con il termine della sua esperienza di ministro della Pubblica Istruzione, nel febbraio del 1867.
Il lavorìo attorno ad alcuni aspetti della riforma, quali la garanzia di una maggiore autonomia didattica, amministrativa e disciplinare, continuò al tempo del primo, alquanto breve, ministero Coppino (aprile-ottobre 1867), ma senza sortire effetti pratici23.
Nel complesso restava, dunque «l’impressione, a pochi anni dall’unità, di una politica universitaria effimera, costruita a spizzichi, tra ripensamenti e divergenze, continuamente corretta e contraddetta, in balìa di un troppo rapido avvicendarsi dei governi»24. A circa quattro anni dall’Unità, nel marzo 1865, ad alcuni osservatori stranieri il sistema universitario italiano appariva come un «ibrido»
che mescolava accentramento burocratico, strapotere ministeriale e spinte locali di tipo per così dire campanilistico; caratterizzato da cambi repentini di ministri; in cui le nuove norme, che si susseguivano serrate per via regolamentare, si aggiungevano alle più risalenti senza sostituirle; in cui al modello di Università statale andavano affiancandosi atenei liberi, e istituti di studi superiori e di perfezionamento, con statuti disciplinari e organizzazione interna diversi; in cui la più grande sede del Mezzogiorno, Napoli, era riuscita ad evitare l’applicazione di gran parte delle riforme della legge Casati, vigenti invece al Nord. E l’aspetto che più colpiva in questo quadro di totale confusione era l’impossibilità di accertare con chiarezza perfino un elemento che pure doveva risultare verificabile con estrema facilità: il numero degli iscritti25.

Con l’esperienza ministeriale del conservatore Emilio Broglio (5 maggio 1868-13 maggio 1869) si registra, di nuovo, il tentativo di redigere un complessivo progetto di legge per la riforma dell’Università, che sostituisse la Legge Casati, ed è in questo ambito che si collocano i due testi qui pubblicati. Essi sono datati al 23 aprile e al 19 maggio 1869. Il primo cade alla fine dell’esperienza ministeriale di Emilio Broglio. Il secondo risale proprio ai primi giorni del mandato del suo successore, Angelo Bargoni (13 maggio-14 dicembre 1869).
Nel febbraio 1868 Broglio affidò la preparazione del progetto di legge al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, il quale, a sua volta, il 14 marzo, delegò questa incombenza ad una Commissione ristretta. Uno dei frutti di questo lavoro fu il Regolamento universitario emanato con Regio Decreto n. 4638 del 6 ottobre 1868, che ricalcava quello di Matteucci del 1862.
Dal 2 al 5 febbraio 1869 il Consiglio Superiore discusse il progetto di legge sull’istruzione superiore elaborato nei mesi precedenti dalla Commissione. La sua redazione definitiva fu pronta a metà marzo, a esattamente un anno dall’insediamento della Commissione. I suoi punti principali erano:
riduzione draconiana del numero degli atenei; tutela del prestigio dei professori ordinari, esaminati solo in base ai titoli o nominati mediante l’art. 69 della Casati [cioè per ‘meritata fama’]; garanzie serie per i professori straordinari; incentivi per i liberi docenti; incoraggiamento per gli studenti di lettere; fermo controllo sulla disciplina studentedesca»26.

Broglio era intenzionato a presentare questo progetto al più presto in Parlamento, ma non fece in tempo: il 13 maggio il presidente del Consiglio, Menabrea, costretto a procedere a un rimpasto, lo sostituì con Angelo Bargoni, decretando l’affossamento di quel progetto e, di nuovo, il rinvio della riforma dell’Università.
L’iter dei lavori della Commissione, i temi discussi, le soluzioni proposte si trovano con dovizia di particolari nel lavoro di Simonetta Polenghi, al quale pertanto rinvio27. Qui mi pare importante da un lato rilevare il fatto che si attinsero informazioni e dati dalle esperienze di altri paesi europei, dando un particolare rilievo, pare, a quella prussiana28, e, dall’altro, riassumere i punti qualificanti sui quali il Governo italiano, e, cioè, proprio il ministro Broglio29, incaricò il ministro plenipotenziario del Regno d’Italia nel granducato del Baden, a Karlsruhe, Isacco Artom, di chiedere ragguagli sull’Università di Heidelberg, che, peraltro, non era un’Università prussiana, ma, appunto, il principale ateneo del Granducato del Baden. Artom pensò di rivolgersi all’allora giovane storico dell’Università di Heidelberg, Heinrich von Treitschke, e gli scrisse il 23 aprile 1869 una lettera, alla quale lo storico tedesco rispose il 19 maggio seguente fornendogli le informazioni richieste. Si tratta di un tipo di fonte relativa alla storia dell’istruzione superiore in Italia e al dibattito sulla sua riforma, che, per quanto ho potuto vedere, non è proprio frequente.
Treitschke era divenuto noto soprattutto grazie al suo saggio del 1864 su Bundesstaat und Einheitsstaat, un lavoro che ebbe un successo grandissimo ed una diffusione molto ampia nell’opinione pubblica tedesca30. In esso Treitschke cerca un modello per la soluzione del problema nazionale tedesco, e lo trova non negli Stati a struttura federale, bensì nello Stato unitario italiano. Può darsi che il contenuto di questo studio gli abbia consentito di ottenere in Italia, nonostante la difficoltà della lingua, un po’ di notorietà. Quest’ultima gli fu, comunque, assicurata dalla sua celebre monografia su Cavour, che proprio in quel periodo del 1869, a cui risale la lettera di Artom (l’antico segretario di Cavour) Treitschke si avviava a concludere, o aveva appena concluso.
I due erano entrati in rapporto nel novembre del 1868, quando lo storico tedesco aveva scritto al diplomatico italiano per chiedergli alcune informazioni a lui necessarie per la redazione del suo saggio su Cavour31. Pertanto sembra naturale che Artom, avendo ricevuto l’incarico da Broglio di informarsi sull’organizzazione dell’Università di Heidelberg, abbia subito pensato a Treitschke. I due si conobbero anche proprio nell’aprile del 1869, quando Artom fece visita a Treitschke a Heidelberg. Sullo storico tedesco Artom fece un’impressione «magnifica», quella di un uomo «prussiano fino in fondo, un grande ammiratore di Bismarck»32. E qualche giorno dopo questo incontro, il 23 aprile 1869, Artom scrisse a Treitschke la lettera che qui si pubblica.
Artom dà alla sua missiva la forma di un questionario Egli elenca, infatti, quattordici punti contenenti numerose domande su questioni pratiche o problemi intorno ai quali il suo Governo chiedeva informazioni allo storico tedesco. Artom gli chiedeva, cioè, quali soluzioni, in relazione a questioni, evidentemente ritenenute punti essenziali del progetto di riforma italiano, avesse adottato l’Università di Heidelberg, in modo da permettere, egli scrive, al Governo italiano di introdurre in Italia, per quanto fosse possibile, istituti analoghi.
Le domande di Artom concernono i seguenti argomenti: le tasse di immatricolazione; la retribuzione corrisposta dallo studente al libero docente; le tasse per l’esame di dottorato; l’obbligo o meno per lo studente di seguire un corso regolare di studi; gli esami; la percentuale dei respinti tra i candidati al dottorato; la libertà dello studente e i suoi eventuali inconvenienti, di trascurare, cioè, i suoi doveri; le associazioni politiche tra gli studenti; l’esistenza di pene disciplinari per gli studenti; la disponibilità di pensionati per questi ultimi; le funzioni dei due istituti del Seminarium philologicum e del cosiddetto Spruch-Collegium; le condizioni dei laboratori di scienze naturali; il modo di reclutamento del Privatdozent; i controlli sui programmi e sulle lezioni di professori e di liberi docenti; l’esistenza di conflitti tra le Facoltà universitarie ed il Governo per la nomina dei professori; la segnalazione, infine, di una buona storia dell’Università di Heidelberg.
In sostanza i punti essenziali si riducevano a sei questioni: il livello delle tasse; il sistema, il numero e la qualità degli esami; il grado di libertà che era opportuno lasciare allo studente nell’organizzarsi il curriculum degli studi; la condizione del libero docente; i rapporti tra potere politico e accademia; infine il controllo sulle associazioni studentedesche. Si è visto sopra che le prime quattro questioni erano state negli anni precedenti oggetto di innumerevoli dibattiti in Italia, generati dall’insoddisfazione per il basso livello qualitativo sia dell’insegnamento che dell’apprendimento all’Università italiana. Quanto alle associazioni studentesche, occorre ricordare che forti erano state in quegli anni le preoccupazioni della classe politica verso le associazioni a carattere politico degli studenti, e dai più si era levata la richiesta di un più severo controllo su di esse. Nulla di strano, pertanto, che anche questo punto fosse oggetto di particolare attenzione da parte della Commissione che preparò per Broglio il progetto di riforma del 1869.
Con la sua lettera ad Artom del 19 maggio 1869, quando Broglio già non era più ministro, lo storico tedesco diede risposte abbastanza ampie, dettagliate e informative e non solo in relazione all’Università dove egli insegnava33: già questo la renderebbe, credo, un’utile nuova fonte su di essa, quanto, ad esempio, all’entità delle tasse per l’immatricolazione e per l’esame di dottorato, agli onorari per le lezioni presso le diverse Facoltà, al numero di dottorandi che ogni anno sostenevano l’esame finale presso la Facoltà filosofica, alla percentuale di respinti, al numero di studenti che frequentavano le lezioni dello storico sassone. Le sue osservazioni si allargano, però, anche a considerazioni di carattere generale.
Così, al punto 2, Treitschke comunica osservazioni generali, e, credo, di un certo interesse, sulle tasse universitarie. Rileva il problema del loro alto importo, avvertito soprattutto nelle Facoltà di medicina e di scienze naturali, e da lui giudicato un impedimento all’ascesa sociale di un giovane grazie allo studio universitario. Egli dà un quadro complessivo dei differenti importi esatti dalle Università, aggiungendo che Heidelberg e Bonn erano le due Università con la quota più alta di tasse, e dunque erano frequentate dagli studenti più abbienti, mentre in molte Università del Nord, spiega, una parte delle lezioni erano tenute gratis. Se questa osservazione si riferisce anche a Berlino, e tutto induce a credere che sia così, allora potrebbe, forse, essere una delle ragioni per cui l’Università di Berlino godeva di un alto numero di studenti, come la letteratura ha messo in evidenza34.
Lo storico si sofferma poi sugli aiuti agli studenti più poveri tramite borse di studio ed esenzione dagli onorari ai docenti. A proposito di questi ultimi, poi, egli ammette alcune «ombre» del sistema del loro pagamento, osservando che, mentre alcuni professori di materie meno frequentate, quali le lingue orientali o l’alta matematica, dovevano cavarsela con introiti molto bassi, i docenti delle pandette e della storia moderna potevano disporre di redditi molto superiori.
È, questa, un’osservazione degna di nota, non tanto in relazione al grande favore accordato alle discipline giuridiche35, che era un fatto tradizionale, quanto piuttosto perché attesta la grande popolarità tra gli studenti (riflesso, in fin dei conti, delle tendenze culturali della società tedesca), della storia moderna tedesca negli anni della formazione dello Stato unitario in Germania, a discapito di quella medioevale, che tanto aveva attratto le menti i primi decenni del secolo36.
Treitschke ammette, inoltre, alcuni casi di trucchi posti in essere da taluni professori, i quali tentavano di attirare alle proprie lezioni il maggior numero di studenti servendosi di «incentivi retorici e analoghi riprovevoli artifici», un’allusione a una cattiva prassi che in Italia era ben nota e conosceva forme di ancor maggiore deprecabilità. E tuttavia egli, cogliendo benissimo il sottotono del quesito postogli da Artom in relazione all’istituto del Privatdozent, ribadisce la sua opinione che esso offra più vantaggi che svantaggi. E, infatti, egli aggiunge, «se si abolissero gli onorari, solo pochi giovani studiosi sarebbero in grado di vivere da liberi docenti, e si distruggerebbe un vivaio dei professori tedeschi». Qui Treitschke riprende la definizione allora corrente in Germania dei liberi docenti quali «Pflanzschule künftiger Professoren» («vivaio di futuri professori»), coniata nel 1770 dall’orientalista di Gottinga Johann David Michaelis37, e, in seguito, ripetutamente usata durante la prima metà del secolo XIX.
Altro punto generale trattato da Treitschke con una certa estensione è quello della Lernfreiheit, la libertà di apprendimento (punto 5), a proposito della quale egli chiarisce al corrispondente italiano le differenze esistenti anche all’interno del territorio tedesco, di tutta la Germania (ad esempio tra la Prussia e il Baden), spesso considerata in Italia come un tutt’uno, e idealizzata come il paese per eccellenza dell’assoluta libertà dello studente.
Lo storico si dichiara a favore del sistema prussiano, che lascia grandi spazi di libertà allo studente, a differenza di quanto avviene nei territori meridionali tedeschi, ad esempio nel Baden, dove egli insegna, e dove tale libertà è invece limitata. Se si confrontano i risultati, egli aggiunge, si evince che il sistema prussiano è il più conveniente alla Germania, essendo quello in cui risultano pagate meno lezioni, ma la diligenza degli studenti e la loro effettiva frequenza alle lezioni sono più alte. Viceversa, lo studente del Baden si iscrive spesso solo nominalmente, perché vi è costretto, alle lezioni di un professore, ma poi non le frequenta, mentre lo studente oriundo dalla Prussia, che non è sottoposto ad alcuna costrizione, vi si iscrive solo quando ha davvero intenzione di seguirle. In generale egli giudica gli studenti prussiani più diligenti di quelli del Baden, ed in possesso di un’istruzione scolastica migliore dei giovani della Germania meridionale. Qui e altrove in questa lunga missiva traspare la ben nota, grande ammirazione del sassone Treitschke per la Prussia, il paese che egli, da storico di sentimenti nazional-liberali, giudicava depositario della missione storica di unire la patria tedesca.
Per evitare, tuttavia, il disorientamento agli studenti, conseguenza della loro piena libertà, esistono, egli scrive, in ogni Facoltà antiche consuetudini che regolano i piani di studio. Ad esempio, nella Facoltà giuridica la prassi è quella di studiare il diritto romano al primo anno, il diritto tedesco al secondo, e, al terzo, di dedicarsi ad esercitazioni pratiche.
A questo riguardo Treitschke accenna ad un argomento di etnopsicologia, che, a parte qualche eccezione, mi pare poco presente nelle fonti italiane. Egli avverte, infatti, l’obbligo di avvertire Artom che le osservazioni da lui fatte sulla libertà di apprendimento valgono solo per un paese dove gli studenti da secoli sono stati abituati alla libertà. In un altro paese dove la situazione sia diversa, e questo, egli sottintende, è il caso italiano, l’immediata introduzione dell’illimitata Lernfreiheit potrebbe dare luogo a pigrizia, negligenza e confusione tra gli studenti. Consiglia pertanto di introdurre in un primo momento una libertà limitata, obbligando ogni studente ad ascoltare alcune, poche lezioni e lasciandogli la libertà di scegliere i professori e l’ordine delle lezioni. Occorrerebbe, continua, poi, stare a vedere come questo sistema funziona in pratica, e, in seguito, si potrebbe lentamente passare ad una libertà illimitata. La medesima riserva è brevemente espressa nel preambolo della lettera di Treitschke, lì dove egli afferma che «la forza delle Università tedesche è riposta nell’istituto del docente privato e nella libertà di apprendimento degli studenti. Si tratta di due istituti assolutamente peculiari della nazione tedesca, e pertanto difficilmente imitabili».
Anche ai successivi punti 6, 7, 8, 9, lo storico sassone dà al diplomatico italiano risposte generali, concernenti l’intera Germania. Conferma la sparizione delle antiche associazioni segrete degli studenti, e l’esistenza di associazioni politiche che riuniscono giovani dai sentimenti patriottici e nazionali, professanti la loro fede nell’unità della Germania, mentre tutte le altre associazioni studentesche hanno per lo più scopi scientifici o sociali, e, talvolta, come tra i teologi, religiosi. Illustra poi i poteri disciplinari a disposizione delle autorità universitarie per frenare e punire gli eccessi degli studenti; la totale libertà per i docenti di aprire pensionati per gli studenti, e, per gli studenti, di organizzare la loro vita, tranne che, aggiunge con un’osservazione degna di nota, per gli studenti cattolici di teologia, che vivono in istituti chiusi (i convitti), sorvegliati da sacerdoti, con conseguenze negative sul grado della loro integrazione sociale e sul livello della loro cultura, conseguenze che, invece, non toccherebbero i teologi evangelici.
Passa, quindi, alle informazioni richiestegli sull’istituto dello Spruch-Collegium. Ogni Facoltà giuridica tedesca, egli spiega, era anche un collegio, un organo con questa denominazione, traducibile, suggerisce, con i termini conseil d’avis judiciaires, o foro dei consigli giudiciali, o curia d’arbitro. Era, cioè, un’istanza tenuta a dare pareri su complessi casi giuridici attinenti sia al diritto pubblico che a quello privato. In passato questi Consigli avevano goduto di grande considerazione ed esercitato anche la funzione di tribunale, dovendosi talvolta pronunciare sugli atti di complicati processi civili. Talvolta, nel passato, i loro pareri avevano avuto anche una grande rilevanza politica. Ormai, però, conclude, la loro importanza era scemata, e questi Spruchcollegien si limitavano a dare pareri su sollecitazione di soggetti privati o di pubbliche autorità.
Data la penuria di laboratori e attrezzature scientifiche in Italia, si comprende l’interesse che il Governo italiano poteva avere ad ottenere informazioni sulla situazione in Germania. Di questo tratta, ma brevissimamente, il punto 10 della risposta di Treitschke, che conferma semplicemente al corrispondente italiano il loro buono stato in Germania, reso peraltro possibile da un regime ferreo di parsimonia. Si sofferma, invece, un po’ sulla Biblioteca Universitaria di Heidelberg, della quale delinea brevemente la nota storia, nonché i criteri allora seguiti per l’acquisizione di libri. Ricorda, poi, ad Artom che solo tre biblioteche in Germania potevano aspirare alla quasi completezza degli acquisti dei libri che ogni anno si affacciavano sul mercato: Berlino, Gottinga e Monaco, nei cui regolamenti era però previsto l’istituto del prestito agli studiosi.
La lettera di Treitschke è anche un’interessante testimonianza su almeno una disfunzione del sistema universitario tedesco, che, al tempo della sua redazione, era già del tutto evidente: l’insufficienza e lo scadimento dell’esame di dottorato. Un brutto abuso, lo chiama Treitschke al punto 3 della sua risposta, assolutamente non degno di essere imitato altrove, e in merito al quale tutti concordano sia necessaria una riforma. E, infatti, i requisiti scientifici richiesti al candidato sono troppo modesti: tre soli anni di studio, senza tener conto dei corsi frequentati; redazione di uno scritto, in latino o tedesco, su un tema scelto da lui (a Heidelberg, aggiunge, neanche questo è richiesto); infine superamento di un esame molto facile davanti ai professori della Facoltà su tre materie proposte dallo studente stesso38. Il titolo di dottore, commenta, è oggi non molto di più che un titolo, cui taluni aspirano perché nella vita di relazioni procura un certo credito. A ciò si aggiunge l’insostenibile importo delle tasse da pagare per sostenere l’esame di dottorato. Pertanto Treitschke conclude asserendo la necessità da un lato di aumentare i requisiti scientifici e, dall’altro, di abbassare o eliminare del tutto le tasse.
Treitschke sfiora qui un tema, la decadenza del titolo di dottore, oggetto di un diffuso dibattito in Germania in quegli anni. A seguito di due veementi articoli del 1876 di Theodor Mommsen sugli Pseudodoktoren39 si avviò una riflessione critica, e nella maggior parte delle Università furono adottate misure più severe e restrittive per il conferimento del titolo di dottore. E tuttavia, ancora all’inizio del secolo XX si registrano, in Germania, lagnanze e censure per la facilità con la quale esso poteva conseguirsi.
Infine, l’ultimo, ma non certamente meno importante punto trattato da Treitschke è quello della libera docenza. Ivi egli chiarisce che, a differenza dell’esame dottorale, la dissertazione scritta e il colloquio orale richiesti al candidato non sono affatto formalità, ma prove rigorose Al candidato si richiede, infatti, la produzione di una monografia che attesti la sua capacità di svolgere autonomamente una ricerca dai caratteri originali, non meramente compilatori. Il colloquio consiste in un esame orale di più ore, e, a Heidelberg, vi può accedere solo il candidato che non abbia conseguito lì il dottorato. Superato il severo colloquio, il candidato sostiene una cosiddetta disputazione con alcuni altri dottori, una formalità in realtà senza valore, ma che si continua ad osservare, egli aggiunge, in omaggio ad un’antica, tenace tradizione40.
Il tema strettamente connesso al reclutamento dei liberi docenti è quello della possibilità per il potere politico di influenzare la scelta dei candidati a quel posto e di coartare la loro libertà d’insegnamento. Treitschke asserisce di non aver mai fatto l’esperienza di abusi agli esami di libera docenza per eliminare candidati sgraditi o per il loro orientamento politico, o per la loro confessione religiosa, cioè, occorre immaginare, per stroncare la carriera di giovani studiosi o di fede politica democratica o repubblicana, o di fede religiosa cattolica. Quanto agli Ebrei, nel momento in cui Treitschke scriveva era ancora estremamente raro, anzi quasi inesistente, il caso di uno studioso ebreo che riuscisse ad ottenere un posto di professore. Lo status di Beamter, come quello di ufficiale dell’esercito, era loro pressoché precluso.
In realtà, aggiunge lo storico, il Governo ha la facoltà di interdire al libero docente di tenere le sue lezioni, anche se egli è stato abilitato a farlo dalla Facoltà, cioè anche se egli ha ottenuto da questa la venia legendi. Ma, egli osserva, il potere politico quasi non fa uso di questo diritto, sapendo bene che il suo esercizio può generare molto malcontento. Egli prosegue ricordando una caratteristica tipica del sistema universitario tedesco, legata all’ordinamento federale del territorio e al particolarismo dei numerosi Stati germanici, e spesso messo in evidenza dagli studiosi che si sono occupati di storia dell’Università tedesca: non di rado, scrive Treitschke, avviene che un Governo tratti ingiustamente un giovane libero docente, e fa l’esempio di se stesso, allorché era a Lipsia e fu osteggiato dal Governo sassone per le sue idee politiche filo-prussiane, difese pubblicamente dalla cattedra, e con molto successo presso gli studenti. Ma, continua, questo pericolo è neutralizzato dal grande numero delle nostre Università: un giovane studioso, costretto per motivi politici a lasciare un’Università, troverà facilmente accoglienza in un’altra, come avvenne allo stesso Treitschke, che dal Regno di Sassonia, da Lipsia, passò, nel 1863, nel Granducato del Baden, a Freiburg.
Ogni docente, prosegue Treitschke, consegna alla fine di un semestre l’elenco delle lezioni che intende tenere nel prossimo. Il Governo ha la facoltà di cancellarne qualcuna, ma egli assicura di non aver mai sperimentato una misura del genere. Rari sono i contrasti fra Governi e Università. Questi possono verificarsi alla chiamata di qualche professore. Treitschke spiega ad Artom che la regola è che la Facoltà, non appena si renda vacante un posto, propone al Governo una lista di tre nomi. Il Governo normalmente si attiene alla proposta della Facolta. Può, però, talvolta avvenire che esso nomini d’autorità un professore. Tale prassi, egli asserisce, non è condannabile, dato che, se si lascia sempre alle Facoltà la prerogativa di chiamare i professori, si possono verificare casi di nepotismo, di clientelismo, di eccessiva indulgenza allo spirito di casta.
Lo storico Treitschke, allora di accesi sentimenti nazional-liberali, ha qui probabilmente in mente i casi, verificatisi tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ’60, in cui il Governo liberale del Baden della cosiddetta “nuova èra” impose agli ambienti in prevalenza conservatori delle Facoltà universitarie di Heidelberg la chiamata di studiosi di inclinazioni liberali e pertanto loro non graditi41. Egli fa, comunque, un solo esempio concreto di un antico bibliotecario, valente studioso di botanica, chiamato dal Governo del Baden d’autorità ad una cattedra di quest’ultima disciplina. Menzionando brevemente questo caso, egli sfiora un problema reale, che fu molto sentito, allora e dopo, sia in Germania, sia in Italia, e che occorreva affrontare con un senso di equilibrato e misurato realismo. Anche su questo insieme di questioni attinenti al reclutamento dei professori in Germania Treitschke formula conclusioni acute ed esprime giudizi esatti sul carattere moderatamente liberale della politica universitaria nei territori tedeschi nei decenni centrali del secolo XIX, sui buoni rapporti in linea di massima vigenti tra Governo e Università in quegli anni, sulla quasi totale assenza di conflitti, quali, invece, si erano registrati all’inizio del secolo e si verificheranno alla sua fine, mediante pesanti interventi di censura e di persecuzione. Si tratta di conclusioni e giudizi che sono stati ripetuti dalla letteratura storica odierna42.
Come già si è detto, sei giorni prima della risposta dello storico tedesco, il 13 maggio 1869, il ministro Broglio fu estromesso dal Governo e sostituito con Angelo Bargoni dal presidente del Consiglio, Menabrea, e il progetto di riforma dell’Università non potè neanche arrivare alla discussione in Parlamento. Il 25 maggio, alla richiesta di alcuni deputati di presentare un progetto di riforma dell’istruzione superiore, Bargoni rispose di essere consapevole che il riordinamento degli studi superiori era necessario e urgente, «imperocché la Camera ha già precedentemente fatto solenne invito al Ministero di occuparsi di questa gravissima materia»; che il Governo aveva assunto l’incarico di procedere a quel riordinamento; infine, che era al corrente del fatto che il suo predecessore aveva «dato a studiare il difficile argomento al Consiglio superiore, e credo anzi che i lavori del Consiglio superiore sieno o compiuti, od almeno assai inoltrati»43. Tuttavia, egli dichiarava il giorno dopo di non volere impegnarsi ad accettare senza studiarli a fondo, e, magari, modificarli, i risultati dei lavori del Consiglio44.
Nel frattempo Artom onorò l’impegno preso con Broglio e redigette una relazione sull’Università di Heidelberg, basandosi sui dati ricevuti da Treitschke. Questa relazione egli inviò al segretario generale del Ministero degli Esteri, Alberto Blanc, affinché fosse trasmessa all’omologo di quest’ultimo alla Pubblica Istruzione, cioè a Pasquale Villari. Il 17 luglio 1869 quest’ultimo ringraziò il diplomatico per l’«importante Relazione intorno l’Università d’Heidelberg». Artom avrebbe in tal modo corrisposto «pienamente alla concepita aspettazione», tanto che egli, Villari, aveva già disposto «per la sua pronta pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno»45.
Poche furono le iniziative di rilievo adottate da Bargoni in relazione all’Università nei sette mesi del suo mandato (13 maggio-14 dicembre 1869). Il 26 maggio 1869, all’inizio di quest’ultimo, egli affermò alla Camera di non voler assolutamente prendere impegno di presentare una legge di riforma dell’istruzione superiore in quell’ultimo periodo della sessione del 1869:
I lavori che sono davanti alla Camera sono così importanti e così urgenti, che non mi darebbero affidamento che la Camera potesse prendere in considerazione un progetto di legge di questa natura. Orbene, di questa necessità di fatto io non ho che a compiacermi, perché essa mi lascia il tempo di potere più maturamente studiare l’argomento46.

La breve durata della sua permanenza al Ministero gli impedì, tuttavia, di dare seguito a questo impegno.



Isacco Artom a Heinrich von Treitschke47

Carlsruhe 23 Avril 1869

Monsieur le Professeur
Profitant de votre aimable permission, je prends la liberté de vous demander quelques renseignements sur l’Université de Heidelberg.
Je connais en général l’organisation de l’Université, et je me suis procuré le budget, ainsi que le tableau des Professeurs et des Privat-Docent. Mais pour pouvoir donner des informations pratiques à mon Gouvernement et le mettre à même d’introduire autant que possible en Italie des institutions analogues, je desire savoir encore:

1. Quelle la taxe que les étudiants doivent payer pour l’immatriculation, chaque semestre ou chaque année?

2. Quelle est en general la retribution que chaque étudiant paye pour les leçons des Professeurs et des Privat-Docent? Quelle est à peu près la somme à payer pour ce titre chaque année, pour un Etudiant de chacune des quatre facultés?

3. Y-a-t-il des droits particuliers à payer pour être reçu Docteur? Faut-il faire constater qu’on a suivi un cours d’études regulier? Ou bien suffit-il de subir un ou plusieurs examens? Quelles sont les conditions de ces examens, et comment sont composées les Commissions des Examinateurs?

4. Parmi les etudiants qui se presentent à ces éxamens, quelle est en general la proportion entre ceux qui sont reçus docteurs et ceux qui sont refusés?

5. La liberté laissée aux Etudiants de se faire à eux-même leur plan d’études et de choisir non seulement les Professeurs ou les Privat-Docent, mais encore le matières qu’ils veulent étudier n’offre-t-elle pas dans la pratique quelques inconvenients? Ne peut-il pas quelquefois arriver que des Etudiants negligent des parties essentielles de la science?

6. On me dit que les anciennes associations politiques des etudiants ont disparu, et qu’on s’occupe moins de politique dans les Universités. Cela est-il vrai? En general quelle est la tendance qui prévaut parmi la jeunesse universitaire du midi de l’Allemagne, est-ce l’amour de l’unité, ou l’esprit particulariste?

7. La jurisdiction universitarie a cessé. Est-ce un bien, est-ce un mal? Quelles sont les fonctions du Disciplinarbeamte, qui est en même temps officier de police? Y-a-t-il des peines disciplinaires particulières aux étudiants, en quoi consistent-elles?

8. Y-a-t-il des internats, soit publics, soit privés, à Heidelberg? Les privat-docent, ou les professeurs doivent-ils etre munis d’une autorisation speciale pour ouvrir ou pour tenir un internat?

9. Parmi les institutions universitaires je vois indiqué, outré le Seminarium filologicum, das Sprächcollegium [sic]. Quel est le but de cette institution et quel est le mot italien ou français qui peut en donner une idée exacte?

10. Le laboratoire de chimie, le cabinet de physique et celui d’histoire naturelle, ainsi que l’institut de physiologie et le jardin botanique, sont-ils malgré la modicité des allocations qui leur sont accordées, à la hauteur de la science actuelle? La Bibliotheque est elle bien fournie et au courant de toutes les publications scientifiques et litteraires de quelque importance? A-t-elle des manuscrits et de quelle époque?

11. Pour etre admis comme Privat-Docent il faut se soumettre à un Colloquium, faire une Dissertation, et subir une sorte d’examen sous forme de dissertation devant les Professeurs de la faculté. Ces formalités ne sont-elles pas quelques fois un obstacle à la liberté de l’enseignement superieur?

12. Les Professeurs et Privat-Docent sont ils obliges de presenter un programme de leurs leçons au commencement de chaque semestre? Ce programme doit-il recevoir l’approbation du Curatorium?

13. N’y-a-t-il jamais conflit entre les autorités universitaires et le Gouv.t soit pour la nomination des Professeurs, soit pour d’autres causes?

14. Pouvez-vous m’indiquer une bonne et courte histoire de l’Université de Heidelberg?

Je vous demande bien pardon, Monsieur le Professeur, d’abuser ainsi de votre bonté et de vous faire perdre un temps precieux pour repondre à toutes ces questions.
Si ma connaissance imparfaite de l’Allemand ne me l’empêchait, je viendrai volontiers passer un semestre à Heidelberg et m’instruire pratiquement de toutes ces choses, tout en profitant de vos leçons et de celles de vos éminents collègues. Ne pouvant me servir de ce moyen, qui aurait été le plus profitable pour moi, j’ai recours à votre amabilité bien connue, et je vous prie de m’indiquer en quelques mots ce que je dois penser et écrire à mon Gouvernement sur ces differents points.
Veuillez recevoir dès-à present mes remerciements bien sincères, et agréer l’assurance de ma haute consideration.

Artom




Heinrich von Treitschke a Isacco Artom48

Heidelberg 19. Mai 1869

Ew. Excellenz
bitte ich lebhaft um Entschuldigung wegen der Verzögerung meiner Antwort. Der Anfang des Semesters, der immer viele Arbeit bringt, und einige schriftstellerische Aufgaben, die mir obliegen, nahmen mich in den letzten Wochen gänzlich in Anspruch. Erst während der Festtage fand ich Zeit, auf den beiliegenden Blättern Ihre 14 Fragen nach der Reihe zu beantworten, so gut das auf engem Raume möglich ist. Ich habe mir erlaubt deutsch zu schreiben, da Sie unsere Sprache geläufig lesen und ich fürchten müßte, in italienischer oder französischer Sprache nicht Alles genau auszudrücken. Es ist eine traurige Folge meiner Taubheit, daß ich meine Kenntniß fremder Sprachen allein aus Büchern schöpfen mußte; das geläufige Sprechen und Schreiben wird aber nur durch häufiges Hören möglich.
Dem Inhalt der beiliegenden Blätter habe ich nur hinzuzufügen, daß die Kraft der deutschen Universitäten in dem Institut der Privat-Docenten und in der Lernfreihet der Studenten liegt. Beide Einrichtungen sind freilich durchaus national und darum schwer nachzuahmen; ich glaube aber, daß ein freier Wetteifer unter den Lehrern und eine größere (wenn auch nicht ganz vollständige) Freiheit für die Studenten auch in Italien möglich ist. Das bewunderungswürdige Talent der Italiener wird unzweifelhaft diese freie Bewegung zu benutzen verstehen. Sollte Ihnen, geehrter Herr Minister, irgend eine weitere Auskunft erwünscht sein, so werde ich mich freuen, sie zu geben.
Genehmigen Ew. Excellenz die Versicherung meines aufrichtigen Dankes für die Ehre Ihres Besuchs, die Sie mir neulich schenkten.
Mit ausgezeichneter Hochachtung

H. v. Treitschke



1. Die Inscriptionsgebühr beträgt in Heidelberg etwa 25 fr., für diejenigen Studenten, welche schon eine andere Universität besucht haben, nur 15 fr. Die Gebühr wird nur einmal, bei der Immatrikulation, entrichtet.

2. Das Honorar für die Vorlesungen beträgt hier in der theologischen, der juristischen und der philosophischen Facultät etwa 4 fr. für jede Stunde in der Woche. Für eine Vorlesung von 4 bis 6 Stunden wöchentlich zahlt also der Student etwa 21 fr. Die Honorare in der medicinischen Facultät, sowie für die mit praktischen Uebungen verbundenen naturwissenschaftlichen Vorträge (in dem chemischen Laboratorium, dem botanischen Garten u.s.w.) sind weit höher, sie erreichen das Doppelte, ja das Dreifache des obigen Satzes.
Ein Student der philosophischen oder der juristischen Facultät bezahlt hier durchschnittlich 60 fr. Honorar im Semester – eine Summe, welche für die Vermögensverhältnisse der hiesigen Studenten nicht zu hoch ist. Ein Mediciner dagegen zahlt etwa 150 fr. im Semester – eine Summe, welche mir zu hoch scheint und zur Folge hat, daß unbemittelte junge Leute sich nur selten dem medicinischen Studium widmen können.
Heidelberg und Bonn am Rhein sind die beiden Universitäten, welche am häufigsten von wohlhabenden Studenten besucht werden. Die oben angegebenen Durchschnittssätze sind also höher als der Durchschnitt auf den meisten anderen Universitäten; denn
a. auf vielen norddeutschen Universitäten wird ein Theil der Vorlesungen unentgeltlich (publice) gehalten;
b. für die unbemittelten Studenten ist durch zahlreiche Stipendien und durch die Befreiung von der Honorarzahlung gesorgt. Diese Befreiung ist von dem akademischen Senat sehr leicht zu erlangen, wenn der Student seine Armuth nachweist. In Heidelberg sind in der Regel nur 5% der Studenten von der Honorarzahlung befreit (meist Theologen); an anderen Universitäten weit mehr (in Kiel gegen 60%, in Leipzig wohl 40%). Die zahlreichsten Stipendien und Freitische befinden sich in den alten Universitäten, welche bedeutendes eigenes Vermögen besitzen (so in Leipzig und Greifswald).
Diese Einrichtung der Honorare hat unleugbar einige Schattenseiten. Es ist hart, daß die Professoren der orientalischen Sprachen, der höheren Mathematik und ähnlicher nur von wenigen Studenten besuchten Fächer in ihrem Einkommen weit schlechter gestellt sind als die Professoren der Pandekten und der neueren Geschichte. Auch suchen einzelne eigennützige Professoren durch rhetorische Reizmittel und ähnliche schlechte Künste Zuhörer anzulocken, um ein hohes Honorar zu erlangen.
Dennoch glaube ich, daß die bestehende Einrichtung überwiegend Vorzüge bietet. Denn auf ihr ruht zum Theil das Institut der Privat-Docenten. Schafft man die Honorare ab, so werden nur wenige junge Gelehrte im Stande sein, als Privat-Docenten zu leben; dann wäre die Pflanzschule der deutschen Professoren zerstört.

3. Das Doctorexamen ist ein schlimmer Mißbrauch, der Nachahmung keineswegs würdig. Alle tüchtigen und uneigennützigen Professoren sehen längst ein, daß hier eine Reform nothwendig ist. Denn
a. Die wissenschaftlichen Anforderungen, welche an einen Doctor gestellt werden, sind viel zu bescheiden. Man verlangt nur, daß der Candidat 3 Jahre lang studiert habe; was er gehört hat, ist gleichgiltig. Sodann muß er an den meisten Universitäten eine, lateinisch oder deutsch geschriebene, Abhandlung über ein von ihm selbst gewähltes Thema einreichen. (In Heidelberg wird auch diese Dissertation nicht verlangt). Endlich muß er vor sämtlichen Professoren seiner Facultät ein Examen bestehen, das 2 bis 3 Stunden dauert. Er bezeichnet selbst drei Wissenschaften, worin er geprüft werden will. Das Examen ist so leicht, daß ein talentvoller und nicht sehr schüchterner junger Mann sich durch ein Jahr fleißiger Arbeit sehr wohl darauf vorbereiten kann. Der Doctortitel ist heute nicht viel mehr als ein Titel. Viele junge Männer, welche einen praktischen Beruf treiben wollen (namentlich Chemiker, die als Apotheker oder in großen Fabriken thätig sein wollen), bewerben sich um diesen Titel, weil er im geselligen Leben ein gewisses bescheidenes Ansehen gewährt.
b. Ganz verwerflich sind die hohen Gebühren für das Doctorexamen. Sie betragen gegen 500 fr. für den Dr. phil., für den Dr. juris an manchen Universitäten sogar 1000 fr. Verschärfung der wissenschaftlichen Anforderungen und Herabsetzung oder gänzliche Beseitigung der Gebühren ist dringend nöthig.

4. Bei der hiesigen philosophischen Facultät bewerben sich jährlich 30 bis 40 Studenten um die Doctorwürde, wovon durchschnittlich 4 bis 5 wegen Unwissenheit zurückgewiesen werden. Die Note 1 und 2 wird nur tüchtigen jungen Männern gegeben, aber die Noten 3, 4, 5 kann auch ein sehr wenig unterrichteter Mensch erlangen. Strenger verfahren die preußischen Universitätetn, namentlich Berlin. Doch ist auch dort größere Strenge sehr wünschenswerth. Nur der Titel Dr. theol. ist noch eine werthvolle Auszeichnung. Dieser wird nicht durch ein Examen erworben, sondern nur honoris causa einzelnen ausgezeichneten Gelehrten unentgeltlich von den theologischen Facultäten verliehen.

5. Die Lernfreiheit besteht vollständig nur in Preußen und einigen kleinen Staaten des Nordens, nicht in Süddeutschland. Der badische Jurist, der ein Staatsexamen bestehen und Beamter oder Rechtsanwalt werden will, muß nachweisen, daß er eine bestimmte Anzahl von Vorlesungen gehört hat. Nur die Wahl der Lehrer und die Reihenfolge der Vorlesungen ist ihm freigestellt. Der preußische Jurist dagegen ist nur gezwungen, in jedem Semester eine Vorlesung, welche er will, zu hören.
Vergleicht man die Ergebnisse, so ist ganz unzweifelhaft, daß die preußische Einrichtung für Deutschland den Vorzug verdient. Seit in Preußen vollständige Lernfreiheit besteht, werden weniger Vorlesungen als sonst bezahlt, aber der Fleiß der Studenten, der wirkliche Besuch der Vorlesungen hat sich eher vermehrt als vermindert. Hier in H(eidelberg) sind die preußischen Studenten in der Regel weit fleißiger als die badischen; sie besitzen freilich zumeist eine bessere Schulbildung als die süddeutschen Studenten. Der badische Student schreibt leider oft nur seinen Namen in die Liste des Professors ein, weil er muß, und besucht dann die Vorlesung nicht. Der norddeutsche Student schreibt sich, da ihn Niemand zwingt, gewöhnlich nur dann in die Liste ein, wenn er die Vorlesung wirklich hören will.
Allerdings verderben sich manche Studenten ihre Bildung durch ein einseitiges oder planloses Studium. Aber diese Fälle sind nicht sehr häufig. In jeder Facultät bestehen alte gute Gewohnheiten, welche den Studiengang regeln. Es ist alte Sitte, daß der Jurist im ersten Jahr römisches Recht, im zweiten Jahr deutsches Recht, im dritten praktische Uebungen treibt; und die Mehrzahl der Studenten bindet sich freiwillig an dieses Herkommen.
Auch giebt es, da unsere Studenten ganz unabhängig leben, gar kein Mittel um sie zum Fleiße zu zwingen. Jeder Zwang kann nur bewirken, daß der Student gewisse Vorlesungen bezahlt, seinen Namen in die Listen einschreibt, aber nicht, daß er die Vorlesungen wirklich besucht. Ich lese in diesem Sommer vor 150-200 Zuhörern, ich kann also den Fleiß der einzelnen gar nicht beurtheilen. Die preußische Einrichtung der unbedingten Lernfreiheit wird sicherlich bald auch in Süddeutschland eingeführt werden, da die gegenwärtige Einrichtung nur dem Geldbeutel einzelner Professoren, aber nicht der Wissenschaft Vortheil bringt.
Die obigen Bemerkungen passen nur auf ein Land, wo die Studenten seit Jahrhunderten an ungebundener Bewegung gewöhnt sind. Wo dies nicht der Fall ist, da kann die sofortige Einführung der gänzlich unbeschränkten Lernfreiheit sehr leicht Unfleiß und Verwirrung unter den Studenten hervorrufen. Es wäre dort vielleicht zweckmäßig, zuerst nur eine beschränkte Lernfreiheit einzuführen, so daß jeder Student einige (aber nur wenige) Vorlesungen seiner Facultät hören muß, aber die Lehrer und die Reihenfolge der Vorlesungen frei wählen darf. Man müßte abwarten, wie dies System sich bewährt, und könnte später zur unbeschränkten Lernfreiheit übergehen.

6. Die alten politischen Geheimbünde der Studenten sind gänzlich verschwunden, seit im Jahr 1848 die polizeiliche Verfolgung derselben aufhörte. Es bestehen noch einige Verbindungen (“Burschenschaften”), welche von ihren Mitgliedern verlangen, daß sie die Einheit Deutschlands als nothwendig anerkennen; doch das ist nur ein wohlgemeintes patriotisches Glaubensbekenntniß ohne praktischen Werth. Alle anderen Verbindungen verfolgen nur wissenschaftliche oder gesellige Zwecke; unter den Theologen bestehen auch einzelne religiöse Genossenschaften. Die Stimmung in der norddeutschen Jugend ist ganz und gar national; die zahlreichen freiwillgen Soldaten unter den Studenten sind fast sämmtlich gute Preußen. Unter der süddeutschen Jugend herrscht leider die politische Gleichgiltigkeit vor; aber die denkenden jungen Leute sind ebenfalls national gesinnt. Eine traurige Ausnahme bilden die katholischen Theologen, welche – im Süden wie im Norden – fast immer Feinde Preußens und der nationalen Einheit sind.

7. Die Aufhebung der akademischen Gerichtsbarkeit hat sich hier sehr gut bewährt. Die Freiheit der Studenten ist dadurch nicht geschmälert worden, aber die Zahl der Excesse und Roheiten hat sich verringert; auch ist es heilsam, daß die jungen Männer nicht mehr in dem Wahn leben: “wir stehen außerhalb des bürgerlichen Gesetzes”.
Da die Studenten meist minderjährig sind und die Ehre der Corporation gewahrt werden muß, so kann die Universität einer Disciplinargewalt nicht entbehren. Ein Student kann durch den akademischen Senat bestraft werden, wenn er sein Ehrenwort gebrochen hat, einen unsittlichen Lebenswandel führt u. dgl. – kurz, wegen sittlicher Vergehen, die das bürgerliche Gesetz nicht bestraft. Der Disciplinarbeamte leitet dann die Untersuchung. Wird ein Student von dem bürgerlichen Gerichte bestraft, so kann der Senat nachher die Acten des Professors einsehen und nach seinem Ermessen auch eine akademische Strafe verhängen. Die akademischen Strafen sind:
Verweis und Ermahnung;
Carcerstrafe, eine leichte Haft in dem Gefängnis der Universität, die selten länger als 8 Tage währt49;
Consilium abeundi, Ausschließung von der hiesigen Universität;
Relegation, Ausschließung von allen deutschen Universitäten für mehrere Jahre oder auch für immer – eine harte aber in gewissen Fällen nothwendige Strafe. Alle deutsche Universitäten stehen unter sich in Verbindung und nehmen einen relegierten Studenten nicht auf.

8. Internate, Pensionen u. dgl. kann jeder akademische Lehrer nach Belieben einrichten; aber Niemand thut es, da die Studenten sich in ihrer Freiheit wohler fühlen. Nur ein hiesiger Lehrer (Privatdocent der englischen Sprache) hält eine Pension für Studenten aus England und America. An einigen alten und reichen Universitäten (namentlich Leipzig) besteht ein Convict, d.h. eine akademische Speise-Anstalt, worin die armen Studenten zu mäßigen Preisen oder auch ganz unentgeltlich zu Mittag und zu Abend speisen. Aber auch hier ist volle Freiheit: man kommt zur bestimmten Stunde oder schickt einen Freund, wenn man verhindert ist. Eine Ausnahme bilden auch hierin die katholischen Theologen, welche in Bonn, Freiburg, München u.a.O. in geschlossenen Anstalten (meist auch Convicta genannt) unter geistlicher Aufsicht leben. Die Folgen dieser Absperrung sind sehr unerfreulich: die katholischen Theologen leben unter uns wie ein Staat im Staate, sie beschäftigen sich fast gar nicht mit Philosophie, Geschichte u. dgl. und zeigen überall weit weniger wissenschaftlichen Eifer als die evangelischen Theologen, welche in unbeschränkter Freiheit leben.

9. Jede deutsche Juristen-Facultät ist zugleich ein Spruch-Collegium (ein in fremden Sprachen schwer wiederzugebendes Wort; etwa conseil d’avis judiciaires oder foro dei consigli giudiciali oder curia d’arbitro). Sie giebt Gutachten über schwierige Rechtsfälle des öffentlichen und des Privatrechts. Oft (namentlich im Jahre 1839, als die Verfassung von Hannover aufgehoben wurde) sind diese Gutachten deutscher Spruchcollegien von großer politischer Bedeutung gewesen; sie haben sich immer durch Freimuth und Gerechtigkeit ausgezeichnet. Vor der Zeit Friedrichs des Großen waren diese Spruchcollegien sogar Gerichte; sie erhielten von den Landesgerichten die Acten schwieriger Civilprocesse zugeschickt und entschieden in letzter Instanz. Dieser Gebrauch ist jetzt, nach Preußens Vorgang, überall abgeschafft und besteht nur noch in einzelnen kleinen Staaten Thüringens, wo er ebenfalls mit der Einführung des neuen mündlichen Processes bald verschwinden wird.
Jetzt geben die Spruchcollegien nur noch Gutachten (avis), wenn sie von Privatleuten oder Behörden dazu aufgefordert werden.

10. Die naturwissenschaftlichen Sammlungen, Gärten u.s.w. sind in gutem, genügendem Zustande, was freilich nur durch die ängstlichste Sparsamkeit möglich wird.
Der Stamm unserer Bibliothek ist die berühmte Bibliotheca Palatina, welche Tilly i.J. 1622 unserer ketzerischen Universität raubte und dem Papste schenkte. Napoleon I führte sie später von Rom nach Paris, wo sie i.J. 1815 durch Preußen’s Waffen wieder erobert und dem rechtmäßigen Eigenthümer zurückgegeben wurde. Die Bibliothek besitzt, obgleich auf diesen Reisen Vieles verloren ging, noch eine große Zahl von werthvollen Manuscripten, namentlich mehrere der ältesten deutschen Gedichte aus den Anfängen des Mittelalters. Die zur Anschaffung neuer Werke ausgesetzten Summen sind sehr gering, das Budget bedarf der Erhöhung. Indeß werden die vorhandenen Mittel mit Umsicht angewendet; jeder Professor schlägt alljährlich die Bücher vor, deren Anschaffung ihm wünschenswerth scheint. Das Unentberhliche ist vorhanden; zeigt sich eine bedenkliche Lücke, so werden auch außerordentliche Anschaffungen vorgenommen. Absolute Vollständigkeit ist schwer zu erreichen, da die Zahl der jährlich erscheinenden Bücher ungeheuer schnell steigt und eine ganz vollständige Bibliothek mindestens 100.000 fr. jährlich verzehren würde. Deutschland besitzt nur drei den höchsten Anforderungen entsprechende Bibliotheken: in Berlin, Göttingen und München – welche sämmtlich ihre Bücher bereitwillig an auswärtige Gelehrte verleihen.

11. Die Dissertation und das Colloquium des Privatdocenten sind keineswegs Formalitäten, sondern eine ernste Prüfung, ein Examen, das um so strenger sein muß, da das vorhergehende Doctorexamen allzu leicht ist. Man verlangt eine Abhandlung oder ein Buch, welche die selbständige Forschung des Candidaten beweisen müssen; eine Compilation, wenn auch geistreich und gewandt, wird niemals zugelassen. Das Colloquium wird nur mit den Candidaten gehalten, welche nicht in Heidelberg den Doctortitel erworben haben, und ist ein recht schweres mehrstündiges Examen.
Daß die Dissertation und das Colloquium mißbraucht würden um politische oder kirchliche Gegner zu beseitigen, habe ich niemals erlebt. Da jede Facultät Männer von verschiedenen Parteien enthält, so ist offenbar Parteilichkeit fast unmöglich. Nach bestandenem Colloquium wird noch eine Disputation gehalten zwischen dem neuen Privat-Docenten und einigen anderen Doctoren – eine werthlose, althergebrachte Förmlichkeit.
Die Regierung darf jedem Privatdocenten, auch wenn ihn die Facultät zugelassen hat, das Recht Vorlesungen zu halten versagen. Aber sie weiß, daß die Ausübung dieses Rechtes sehr leicht Unfrieden erregen kann, und wendet es darum fast niemals an – zumal da man über die politische Richtung eines Privatdocenten selten etwas Sicheres weiß.
Nicht selten geschieht es, daß eine parteiische Regierung einen jungen Privatdocenten, der ihr politischer Gegner ist, zurücksetzt und unfreundlich behandelt. Ich habe das an mir selbst erfahren, als ich Privatdocent in Leipzig war. Aber diese Gefahr wird ermäßigt durch die große Zahl unserer Universitäten; ein solcher Mann kann, wenn er sich auszeichnet, darauf rechnen, daß er bald an eine andere Universität berufen wird.

12. Jeder akademische Lehrer reicht am Ende des Semesters die Liste der Vorlesungen ein, welche er im folgenden Semester halten will. Die Regierung darf Einzelnes aus der Liste streichen, aber soweit meine Erinnerung reicht ist dies niemals geschehen. Ich habe erlebt, daß in Göttingen ein Mediciner, der nebenbei ein tüchtiger Lateiner war, über die Satiren des Juvenal las; Niemand hinderte ihn.

13. Streitigkeiten zwischen den Regierungen und den Universitäten kommen zuweilen, doch nicht oft vor. Die deutschen Gelehrten sind meist rechtschaffene, doch etwas eigensinnige und empfindliche Männer. Ein Unterrichtsminister muß viel Tact, Menschenkenntniß und Wohlwollen besitzen, um mit diesen gelehrten Republiken in Frieden zu leben. Daß das möglich ist, haben in Preußen W. v. Humboldt, Altenstein und Johannes Schultze gezeigt.
Namentlich die Berufungen eines Professoren geben zuweilen Anlaß zum Streite. Die Regel ist, daß die Facultät, sobald eine Stelle erledigt wird, eine Liste von drei Candidaten der Regierung vorschlägt; aber die Regierung bindet sich nicht immer daran, sie ernennt zuweilen eigenmächtig einen Professor – und ich kann das nicht mißbilligen. Ueberläßt man die Berufungen allein den Facultäten, so reißen leicht Nepotismus und Kastengeist ein. Unser Botaniker Hoffmeister, einer der ersten Männer seiner Wissenschaft, ist von der Regierung eigenmächtig ernannt worden – und mit vollem Recht, denn da er früher Buchhändler war51, so würde sich der Gelehrtenstolz einer Facultät wohl niemals entschlossen haben ihn für eine Professur vorzuschlagen.
Im Ganzen darf man behaupten, daß ein bedeutendes Talent in der akademischen Laufbahn schneller und sicherer vorwärst kommt als in der Beamtenlaufbahn. Neid, Parteihaß und Zufall spielen freilich auch hier ihre Rolle. Unter den hiesigen ordentlichen Professoren sind nur Wenige, welche ihr Amt nicht ausfüllen, und diese Wenigen sind zumeist alte Herren, welche in jungen Jahren tüchtiger waren.

14. Eine gute Geschichte unserer Universität ist noch nicht geschrieben. Das neueste , aber keineswegs geistreiche Werk ist Hautz, Geschichte der Universität Heidelberg, Mannheim 186251. Ueber die Gedanken, welche bei der Gründung neuer deutscher Universitäten geleitet haben, geben folgende kleine Schriften Auskunft: Köpke, Die Gründung der Universität Berlin, Berlin 186152, und Sybel, Die Gründung der Universität Bonn, Bonn 186853.


NOTE
1 Sull’Università italiana rinvio alla bibliografia cit. da M. Moretti, Università tedesche e università italiane, in «Società e storia», 12 (1989), n. 43, pp. 195-202: p. 200, nt. 18, cui occorre aggiungere, anche in relazione al periodo degli anni ’60, oggetto di questo saggio, alcuni importanti lavori successivi: S. Polenghi, La politica universitaria italiana nell’età della Destra storica 1848-1876, Brescia, La Scuola, 1993; L’Università tra Otto e Novecento. I modelli europei e il caso italiano, a cura di I. Porciani, Napoli, Jovene, 1994, e, ivi, in particolare il saggio di Porciani, Lo Stato unitario di fronte alla questione dell’università, pp. 133-184; F. Colao, La libertà d’insegnamento e l’autonomia dell’università liberale. Norme e progetti per l’istruzione superiore in Italia 1848-1923, Milano, Giuffrè, 1995; M. Moretti-I. Porciani, Il volto ambiguo di Minerva. Le origini del sistema universitario italiano, in Ricerca e istituzioni scientifiche in Italia, a cura di R. Simili, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 74-92; L’istruzione universitaria (1859-1915), a cura di G. Fioravanti, M. Moretti e I. Porciani, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2000; L’Università italiana. Repertorio di atti e provvedimenti ufficiali, a cura di I. Porciani, Firenze, Olschki, 2001; L’Università italiana. Bibliografia 1848-1914, a cura di M. Moretti e I. Porciani, Firenze, Olschki, 2002; Storia delle Università in Italia, a cura di G.P. Brizzi, P. del Negro, A. Romano, 3 voll., Messina, Sicania, 2007, in particolare i contributi di F. Colao, I. Porciani e M. Moretti, nel I vol., pp. 287-321 e 323-379.Top
2 G.B. Giorgini, La libertà d’insegnamento e la riforma universitaria, Torino, Tip. Cavour, 1863, p.7.Top
3 Così A. La Penna, Università e istruzione pubblica, in Storia d’Italia. vol. V I documenti, 2, Torino, Utet, 1973, pp. 1737-1779; p. 1749.Top
4 M. Moretti, Università tedesche e università italiane, cit., p. 197.Top
5 I. Porciani, Il volto ambiguo di Minerva, cit., p. 76. Cfr. anche S. Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., pp. 140-239.Top
6 Cfr. A. La Penna, Modello tedesco e modello francese nel dibattito sull’Università italiana nella seconda metà dell’Ottocento, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, vol. XXII/1 (1992), pp. 227-301, ripubbl. in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di S. Soldani e G. Turi, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1993: vol I, pp. 171-212; pp. 173-175 e p. 197. Sul “modello tedesco” rinvio inoltre al saggio in italiano di R. vom Bruch, Il modello tedesco: università e «Bildungsbürgertum», in L’Università tra Otto e Novecento, cit., pp., 35-59. Sulla storia, l’organizzazione degli studi universitari e la politica universitaria in Germania è stato scritto moltissimo. Oltre a rinviare ai lavori di tre studiosi, Rüdiger vom Bruch, Bernhard vom Brocke e Marita Baumgarten, mi limito a menzionare qui due opere d’insieme sulla storia tedesca, nelle quali si trova un ottimo quadro riassuntivo delle linee di sviluppo storico dell’Università tedesca nel secolo XIX, e delle questioni più rilevanti in relazione ad essa: T. Nipperdey, Deutsche Geschichte 1800-1866. Bürgerwelt und starker Staat, München, Beck, 1983, pp. 470-484; Idem, Deutsche Geschichte 1866-1918. Bd. 1. Arbeitswelt und Bürgergeist, München, Beck, 1990, pp. 568-691; H.U. Wehler, Deutsche Gesellschaftsgeschichte, 3 voll., München, Beck, 1987-1995: I, pp. 292-303 e 472-485; II, pp. 499-520; III, pp. 414-429. Rinvio infine al recente libro di H.C. Kraus, Kultur, Bildung und Wissenschaft im 19. Jahrhundert, München, Oldenbourg, 2008, pp. 22-40, e, soprattutto, alla bibliografia retrospettiva raccolta ivi alle pp. 119-130.Top
7 Parte delle riflessioni qui esposte si trovano, pur se inserite in un contesto diverso, in una fonte che mi è parsa molto istruttiva e acuta, il saggio di F. Paulsen, Die deutschen Universitäten und die Privatdozenten, in «Preußische Jahrbücher», 83 (1896), pp. 121-144: pp. 133 e sgg.Top
8 Su questa Legge rinvio al lavoro di G. Talamo, La scuola dalla legge Casati all’inchiesta del 1864, Milano, Giuffrè, 1960, pp. 14-22, e a quello di Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., pp. 57-68.Top
9 Sulla libera docenza in Italia rinvio al saggio di M. Moretti, I cadetti della scienza. Sul reclutamento dei docenti non ufficiali nell’Università postunitaria, in Università e scienza nazionale, a cura di I. Porciani, Napoli, Jovene, 2001, pp. 153-203, soprattutto pp. 163-168 e 185-203.Top
10 A questo riguardo rinvio al lavoro di Colao, La libertà di insegnamento, cit., pp. 72-86.Top
11 Ivi, pp. 83-85 e pp. 88-89.Top
12 Ivi, p. 85.Top
13 Così La Penna, Modello tedesco e modello francese, cit., p. 182.Top
14 Su questo punto informa bene il saggio di Porciani Lo Stato unitario di fronte alla questione dell’Università, cit., pp. 151-152.Top
15 Ivi, pp. 145-146. Cfr. anche ivi, p. 147, il brano della lettera di Matteucci a Guizot del 6 luglio 1861, dove l’italiano si dichiara convinto che un sistema di «liberté illimitée» sul modello tedesco o americano avrebbe rovinato del tutto l’Italia. Il saggio di Porciani è dedicato all’esame dei due provvedimenti di Matteucci. Sui proveddimenti del 1862 cfr. anche l’ampia ricostruzione di Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., pp. 240-289.Top
16 R. Bonghi, L’Università italiana. Studii, Firenze Tipografia Cavour, 1866, pp. 40-41, dove sono ripubbl. nove articoli comparsi ne La Nazione nell’agosto e settembre 1865. Anche per le voci critiche verso Matteucci rinvio all’articolata esposizione di Porciani, Lo Stato unitario di fronte alla questione dell’Università, cit., pp. 152-155.Top
17 Cfr. la nt. precedente.Top
18 La Penna, Modello tedesco e modello francese, cit., pp. 182-183, cita una lettera aperta di Settembrini a Matteucci del 24 giugno 1865, nonché lo scritto di Villari del quale si parla qui di seguito.Top
19 Pasquale Villari, L’insegnamento universitario e le sue riforme, in «La Nazione», Firenze 3,4,5,6 dicembre 1866, ripubbl. in Idem, Scritti pedagogici, Firenze-Torino-Milano, Paravia, 1868, pp. 373-398. Cfr. La Penna, Università e istruzione pubblica, cit., pp. 1739-1755.Top
20 Cfr. Colao, La libertà di insegnamento, cit., pp. 136-137.Top
21 Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., pp. 300-304.Top
22 Ivi, p. 306.Top
23 Ivi, pp. 315-316.Top
24 Ivi, p. 315.Top
25 Colao, La libertà di insegnamento, cit., p. 145.Top
26 Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., pp. 328-329.Top
27 Ivi, pp. 317-329.Top
28 Se ne accenna ivi, p. 322, ma senza indicazione delle fonti.Top
29 Ciò risulta con chiarezza da una lettera datata Firenze, 18 marzo 1869, scritta da Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, ad Artom, dove, tra l’altro, si dice: «Le Ministre de l’instruction publique vous a chargé d’une mission à Heidelberg; je désirerais bien que vos investigations s’étendent à tout le système d’enseignement, surtout primaire et professionnel; c’est surtout par là que manque l’Italie, tandis que elle a malheureusement un trop grand nombre d’Universités dont peu sont dignes de ce nom. Etudiez surtout le recrutement des professeurs» (Roma, Centro Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche, Archivio di Isacco Artom, busta 3, fasc. 123).Top
30 Su Treitschke mi limito a rinviare alla monografia di U. Langer, Heinrich von Treitschke. Politische Biographie eines deutschen Nationalisten, Düsseldorf, Droste, 1998. Dei suoi rapporti con Artom tratto in un mio lavoro sulla Germania e Cavour di prossima pubblicazione.Top
31 La breve corrispondenza fra Treitschke ed Artom, che va dal 1868 al 1876, verrà da me pubblicata nel volume La Germania e Cavour, di prossima pubblicazione.Top
32 H. von Treitschke, Briefe, hrsg. von Max Cornicelius, III, Leipzig, Hirzel, 1920, p. 272, nt. 1, dove si cita una lettera di Treitschke del 21 aprile 1869 al suo editore Hirzel, nella quale lo storico gli riferisce della visita di Artom.Top
33 Sull’Università di Heidelberg rinvio alla monografia di R. Riese, Die Hochschule auf dem Wege zum wissenschaftlichen Großbetrieb. Die Universität Heidelberg und das badische Hochschulwesen 1860-1914, Stuttgart, Klett, 1977; nonché alle diverse pubblicazioni uscite per il sesto centenario della sua fondazione, celebrato nel 1986, tra le quali segnalo la monografia di E. Wolgast, Die Universität Heidelberg 1386-1986, Heidelberg, Springer, 1986.Top
34 Mi limito a rinviare al contributo di S. Paletschek, Verbreitete sich ein ‘Humboldt’sches Modell’ an den deutschen Universitäten im 19. Jahrhundert?, in Humboldt International. Der Export des deutschen Universitätsmodells im 19. und 20. Jahrhundert, hrsg. von Christoph Schwinges, Basel, Schwabe, 2007, pp. 75-104: p. 98 e altrove.Top
35 Le cosiddette Pandektenprofessuren comprendevano l’insegnamento del diritto romano e del diritto civile tedesco: cfr. R. Riese, Die Hochschule, cit., p. 99.Top
36 Su questo rinvio alle mie osservazioni nel saggio Note su storicismo e liberalismo in Germania nei decenni centrali dell’’800, in A.M. Voci, Il Reich di Bismarck. Storia e storiografia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 1-27, passim.Top
37 J.D. Michaelis, Raisonnement über die protestantischen Universitäten in Deutschland, 2. Teil, Frankfurt-Leipzig, Andreae, 1770, p. 106.Top
38 Sul tema dell’esame e del titolo di dottore rinvio al recente volume: Examen, Titel, Promotionen. Akademisches und staatliches Qualifikationswesen vom 13. bis zum 21. Jahrhundert, hrsg. von Christoph Schwinges, Basel, Schwabe, 2007.Top
39 T. Mommsen, Die Pseudodoktoren, in «Preußische Jahrbücher», 37 (1876), pp. 17-23 e 335-352; 38 (1876), pp. 107-114. I due scritti erano rivolti soprattutto contro il malcostume della cosiddetta Promotion in absentia, il conferimento, cioè, del titolo di dottore dietro invio alla Facoltà di un lavoro scritto e pagamento delle tasse, senza che il candidato si presentasse e sostenesse un esame orale.Top
40 Sull’istituto della libera docenza in Germania cfr. A. Busch, Die Geschichte des Privatdozenten. Eine soziologische Studie zur großbetrieblichen Entwicklung der deutschen Universitäten, Stuttgart, Enke, 1959. Sui liberi docenti dell’Università di Heidelberg fino al periodo che qui interessa rinvio alla monografia di P. Edmundts-Trill, Die Privatdozenten und Extraordinarien der Universität Heidelberg 1803-1860, Frankfurt am Main, Lang, 1997.Top
41 Cfr. R. Riese, Die Hochschule, cit., pp. 97 e sgg.Top
42 Mi limito a rinviare a Nipperdey, Deutsche Geschichte 1800-1866, cit., pp. 472-473 e 478-479.Top
43 Tornata del 25 maggio 1869: Atti Parlamentari, X Legislatura, Discussioni, X, p. 10700. Cfr. anche Polenghi, La politica universitaria italiana, cit., p. 329.Top
44 Tornata del 26 maggio 1869: Atti Parlamentari, X Legislatura, Discussioni, X, p. 10714.Top
45 Roma, Ministero degli Affari Esteri, Archivio Storico, Fondo Isacco ed Ernesto Artom, busta 1.Top
46 Atti Parlamentari, X Legislatura, Discussioni, X, 26 maggio 1869, p. 10714.Top
47 Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, Nachlass Treitschke, K 5, Nr. 17: Artom, Isacco. Si riporta qui fedelmente la grafia di Artom, che talvolta non rispetta le regole dell’accentazione francese.Top
48 Roma, Centro Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Archivio di Isacco Artom, busta 4, fasc. 186.Top
49 Sul carcere degli studenti a Heidelberg è uscito recentemente il saggio di E. Oberdörfer, Der Heidelberger Karzer, Köln, SH-Verlag, 2005.Top
50 Probabilmente il botanico Wilhelm Hoffmeister, che, nel 1841, aveva aperto a Heidelberg la libreria universitaria (Universitätsbuchhandlung) al Ludwigsplatz.
51 J.F. Hautz, Geschichte der Universität Heidelberg nach handschriftlichne Quellen nebst den wichtigsten Urkunden. Erster Band, welcher die Einleitung und den scholastichen Zeitraum von 1386 bis 1556 enthält. Zweiter Band, welcher die evangelisch-protestantische Zeit (1556-1685), die vorherrschend katholische Periode bis zur Wiederherstellung der Universität (1685-1803) […] enthält, Mannheim, Schneider, 1862-1864.
52 R. Köpke, Die Gründung der Königlichen Friedrich-Wilhelms-Universität zu Berlin. Nebst Anhängen über die Geschichte der Institute und den Personalbestand, Berlin, Dümmler, 1860.
53 H. von Sybel, Die Gründung der Universität Bonn. Festrede zum fünfzigjährigen Jubiläum der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universität, Bonn, Cohen, 1868.Top
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