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La lunga età della destra
di Sandro Bonella
Sarà vero che la lunga transizione italiana si è conclusa con le elezioni politiche del 2008? Biagio De Giovanni ne è convinto e nel suo bel libro (“A destra tutta. Dove si è persa la sinistra”, Marsilio editore) cerca di spiegare il perché. Primo: Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni con un margine senza precedenti. Una vittoria probabilmente strategica, destinata a fare del suo “partito del predellino”, il Popolo delle libertà, l’asse portante della politica italiana negli anni avvenire, superando le alterne vicende del pendolo elettorale fra il 1994 e il 2006.
Secondo: le forze della coalizione di governo (pdl e Lega) sono “nuove”, mentre tutte le forze della cosiddetta prima repubblica sono all’opposizione. Terzo: per la prima volta nella storia repubblicana una coalizione dichiaratamente di centrodestra, o più semplicemente di destra, è saldamente al governo del Paese.
La sinistra, al contrario, non riesce ad essere al governo nemmeno dell’opposizione. L’operazione riuscita a Berlusconi con il pdl non è riuscita a Veltroni con il suo partito democratico, nonostante la forte carica innovativa degli schieramenti politici avviata dalla sinistra, il percorso parallelo in campagna elettorale e - perché non ricordarlo? – il risultato elettorale relativamente buono (34 per cento).
Per la verità, non sembra che queste considerazioni bastino a sostenere la tesi del compimento della lunga transizione. Certo, il risultato del 2008 dice con chiarezza chi ha vinto e chi ha perso, molto più di altri esiti che hanno caratterizzato le inutili alternanze del quindicennio che è alle nostre spalle. Chi non ricorda il “quasi pareggio” del 2006 e i guai che ne sono derivati? Ma per definire conclusa la transizione italiana, e cominciata una seconda repubblica, occorrerebbe che fossero realizzate riforme significative, che fosse disegnato un nuovo quadro della vita pubblica del Paese, sul piano istituzionale, sociale, economico. O almeno che fosse definito un percorso certo riformatore e condiviso.
Niente di tutto ciò. Tutti dicono che le riforme servono, ma allo stato neanche un piccolo passo in avanti è stato fatto, siamo sempre agli annunci e alle smentite, alle minacce ( “se non fate come diciamo noi faremo da soli”) e agli strumentalismi, ai condizionamenti che le vicende giudiziarie di Berlusconi, comunque le si giudichi, esercitano sulla stessa possibilità di governare. Un anno e mezzo dopo la vittoria elettorale, non sembra che il governo possa vantare grandi risultati. Si procede in piena coerenza con i governi precedenti, e cioè parlando, litigando, manovrando: ma non si governa, e il Paese è sempre più abbandonato a se stesso. Si può cominciare a parlare di fallimento del ceto politico e più in generale dell’intera classe dirigente italiana.
Del resto, guardando a questi quindici anni forse l’unico successo rilevante è stato l’ingresso nell’euro, merito del non politico Carlo Azeglio Ciampi e della sua cultura – si può dire? - azionista. Un successo, peraltro, mal gestito da chi è venuto dopo.
Ma se la fine della transizione italiana sembra una forzatura, su un punto De Giovanni ha certamente ragione. La lunga egemonia culturale che la sinistra e quella parte del centro che guardava a sinistra ha esercitato per cinquant’anni sulla società italiana si sta sgretolando. La sinistra non capisce i cambiamenti di fondo avvenuti nel mondo e nel Paese, ne diffida e non sa parlare ai ceti emergenti e ai nuovi bisogni. La destra sì, anche se quasi sempre le parole restano tali e non riescono a tradursi in proposte credibili e in riforme concrete. Se ne ricava che la destra appare moderna, efficiente, decisionista anche quando non lo è, mentre la sinistra sembra sempre arroccata in difesa, capace al più di giocare di rimessa. Una sinistra “antipatica”? Qualcuno lo ha sostenuto, e l’aggettivo sembra avere senso in un periodo in cui si può parlare di un presunto partito dell’amore contrapposto ad un altrettanto presunto partito dell’odio senza sprofondare nel ridicolo. La destra si trova a suo agio nella civiltà dell’immagine, la sinistra no, nonostante tutti gli sforzi.
Del resto, quale prospettiva offre all’opinione pubblica una politica fatta di demonizzazioni, di denunce dell’ anomalia della destra italiana, di speranza in soluzioni giudiziarie di questioni che si è incapaci di risolvere con la politica? E’ fuor di dubbio che ci siano molti aspetti anomali e preoccupanti nel populismo della destra italiana, nel suo stesso leader, nel peso sproporzionato della Lega sulla coalizione di governo. E allora? Si grida allo scandalo, qualcuno arriva ad agitare a vuoto lo spettro di un rischio fascismo, ma l’indignazione permanente non produce consenso e non aiuta a pensare una politica. Può riempire le piazze, come è accaduto in passato (oggi sempre meno), ma non riempie le urne elettorali. Quando è riuscita a farlo, ha prodotto coalizioni eterogenee e rissose, incapaci di coerenza e men che meno di capacità riformatrice. E’andata così con la cosiddetta Unione e, prima, con il cosiddetto Ulivo.
Piaccia o no, la destra oggi è una forza che ha saputo radicarsi e parlare al Paese, una realtà politica in espansione. Non è più il partito di plastica, l’invenzione truffaldina di un manager della comunicazione portatore sano di un conflitto di interessi che, peraltro, nessuno ha mai dimostrato di voler davvero risolvere. L’unica via per battere la forza della destra, che si avvia a diventare non solo vincente ma egemone, è quella della politica. Prima la sinistra ne prenderà atto e meglio sarà. Del resto, si tratta di una considerazione elementare.
Ma la sinistra è in grado di pensare e di proporre una politica? L’esperienza degli ultimi anni è desolante. Il governo dell’Unione uscito dalle elezioni del 2006 resterà nella storia della sinistra come sublimazione della confusione al potere. Da Turigliatto [il senatore della sinistra di Rifondazione la cui astensione fu concausa della caduta del governo Prodi nel 2007 (N.d.R.)] a Mastella, passando per le tensioni permanenti all’interno dei ds, e sotto le forche caudine del duello infinito tra Veltroni e D’Alema e tra i loro sodali. Fallita quella esperienza si è tornati alle urne sapendo di andare incontro a una sconfitta annunciata, eppure con la promessa di un nuovo inizio, il partito democratico di Veltroni a vocazione maggioritaria, deciso cioè a liberarsi dai condizionamenti e dai ricatti di gruppi e gruppuscoli. Un partito dal profilo compiutamente riformista, aperto al reciproco riconoscimento fra gli schieramenti politici ( ma che c’entrava l’alleanza con Di Pietro?), inserito in una logica rigorosamente bipolare se non, in prospettiva, bipartitica.
Una proposta corposa, mentre sull’altro versante si dava vita al pdl come risposta speculare all’iniziativa della sinistra. Per la prima volta dopo tanto tempo sembrava avviata un’esperienza interessante, che poteva – questa sì – creare le condizioni per mettere fine alla lunga transizione italiana. Il risultato elettorale del Pd, ottenuto, lo ripetiamo, dopo il disastro del governo dell’Unione sembrò un buon risultato, per molti aspetti addirittura lusinghiero, una soglia sulla quale si poteva costruire. Bastarono poche settimane e l’esito disastroso delle comunali a Roma, provocato da una candidatura sbagliata vissuta dall’elettorato romano come arroganza partitocratica, perché tornassero lacerazioni e scontri, guerre intestine e polemiche personali e si disfacesse quel poco che si era costruito. La speranza si tramutò in delusione, tanto più grave quanto innovativa e coinvolgente era sembrata la scommessa del partito democratico. La sinistra non riesce a liberarsi dal peggio della prima repubblica e sembra aver dimenticato il meglio.
Se ne può uscire? Ed, eventualmente, come se ne esce? Certo non riprendendo i toni urlati contro Berlusconi e il suo governo o cercando, ancora una volta, scorciatoie scandalistiche o giudiziarie.
Insomma, non servono le Daddario e i processi Mills. Serve invece, come dice De Giovanni, riafferrare un senso di sé che solo la rilettura critica della storia può trasformare in una nuova identità politica. Una risposta, cioè, alla “sostanziale mancanza di un processo di liberazione dal passato attraverso il pensiero, uno sforzo critico e autocritico”. Altro che fine del Novecento e autopurificazioni sbrigative e a buon mercato. Nessuna delle componenti politico culturali confluite nel partito democratico lo ha fatto, i gruppi dirigenti sono sempre quelli e si propongono come homines novi. Eppure il passato non si cancella con colpo di spugna, se ne deve ragionare non solo per liberarsene ma per capire il presente e progettare un futuro che abbia, selettivamente, radici e fondamenta.
Esiste, insomma, una questione culturale che riguarda tutta la sinistra e ne corrode la credibilità. Sembra evidente, ma non se ne parla. E’ difficile pensare che senza un confronto con se stessi, con la propria storia, si possa davvero definire una politica “lunga”, che non sia apparentemente nuovista e sostanzialmente conservatrice. In anni ormai lontani, siamo stati afflitti da innumerevoli convegni sui rapporti fra cultura e politica. Oggi non se ne parla più perché i partiti non producono più cultura, non ne sono capaci o ritengono che la loro funzione sia un’altra. Invece, proliferano fondazioni “culturali” dedite a convegni sui più disparati argomenti, a supporto della linea politica, della visibilità e delle convenienze di questo o quel leader. A destra come a sinistra: ma dalla sinistra, francamente, ci si aspetterebbe qualcosa di più. Noblesse oblige, o almeno dovrebbe.
Perché non si cerca di riflettere seriamente sui cinquant’anni della prima repubblica?
Prevale un silenzio che non si spiega se non con la convinzione che conviene dissimulare le radici per non essere coinvolti in un giudizio genericamente negativo. Le accuse? La prima repubblica è stata caratterizzata dalla partitocrazia, ha prodotto, in un quadro di democrazia bloccata, instabilità dei governi, spartizioni del potere, consociativismi, invasioni di campo, dilatazione del debito pubblico, corruzione. Ma è stata davvero solo questo?
La prima repubblica ha prodotto democrazia dopo vent’anni di dittatura, una guerra disastrosa e in un quadro internazionale ad altissimo rischio; ha approvato una Carta costituzionale avanzata e    condivisa; ha portato l’Italia fra i Paesi fondatori della Comunità europea; l’ha legata all’Occidente con l’adesione al Patto atlantico; ha accompagnato uno sviluppo economico senza precedenti con una mutazione profonda dei costumi e delle leggi. Gli italiani di oggi sono infinitamente più ricchi, sicuri e liberi degli italiani di sessant’anni fa.
Con tutti i limiti, le magagne, le contraddizioni, i problemi irrisolti (prima fra tutte, la questione meridionale che oggi sembra scomparsa dal lessico politico), il Paese è cresciuto in una misura senza precedenti ed è inserito nel gruppo di testa dei paesi democratici. A chi lo deve? In primo luogo a se stesso, naturalmente. Ma non è stato anche merito della prima repubblica, di quei partiti e di quel sistema dei partiti, di quelle classi dirigenti?
Non si tratta di lodare il passato, si tratta di capirlo. Democrazia bloccata? C’era la guerra fredda, il mondo diviso, la sinistra egemonizzata dal più forte partito comunista dell’Occidente. Eppure, la scena politica poteva contare su un dinamismo che oggi sembra invidiabile. De Gasperi nel 1948 conquista la maggioranza assoluta e però forma un governo di coalizione con le forze laiche, per bilanciare la pressione del “partito romano” dell’oltretevere di papa Pacelli. E’ il centrismo che garantisce la democrazia, la ricostruzione e l’avvio del “miracolo economico”. Poi vengono gli anni del centro – sinistra, con i socialisti per la prima volta inseriti nelle coalizioni di governo, fra speranze e delusioni. Infine, la fase della solidarietà nazionale, la via difficile e con la morte di Moro tragica, del tentativo di coinvolgimento del Pci nel governo del Paese, e del faticoso e contraddittorio avvio di revisione culturale e politica all’interno di quel partito.
Il discorso è complesso, pieno di sfumature. Ma non c’è dubbio che l’allargamento di quel che si chiamava l’area democratica è stato uno dei grandi risultati del gioco interno del sistema di partiti. Poi venne la stagnazione degli anni Ottanta e l’incapacità del sistema di riformarsi anche davanti ad eventi di portata planetaria come la crisi e il crollo dell’URSS. E’ per questo che cadde la prima repubblica, molto più che per quel fenomeno che si chiamò mani pulite, pieno di qualche luce e di molte ombre. I partiti non capirono, non seppero e forse non vollero capire quel che stava succedendo e un sistema durato mezzo secolo crollò su se stesso. Quindici anni dopo, le macerie sono ancora lì e la politica italiana – a destra e soprattutto a sinistra – stenta ancora a ridefinirsi.
Non sarebbe il caso di prenderne atto e provare a ripartire da lontano? C’è un altro modo di superare l’”amalgama mal riuscito” fra le diverse tradizioni politico–culturali all’interno del partito democratico? Gli eredi del Pci, Pds, Ds non farebbero bene ad affrontare una lettura critica della loro vicenda nella storia repubblicana, quella lettura critica a cui non seppero disporsi prima negli anni settanta e poi nemmeno quando l’urgenza della grande crisi del comunismo internazionale apparve evidente?
E lo stesso non vale per i cattolici democratici, cambiati tutti i termini che vanno cambiati?
Francamente, non è lecito definirsi nuovi e poi citare Togliatti come esempio di saggezza politica contrapposto ad un presunto giacobinismo azionista: è autolesionismo arrogante. Così il passato resta un fardello indefinito e non una ricchezza in cui distinguere fra ciò che è vivo e ciò che è morto.
Torniamo a De Giovanni. Il catalogo ragionato di temi che egli propone alla sinistra a conclusione del suo libro ci sembra ineccepibile e perciò lo riassumiamo. 1) Valutazione positiva della globalizzazione, che “ha consentito l’entrata nel mercato mondiale di centinaia di milioni di persone”. 2) Celebrazione dell’Europa laica e costituzionale, cristiana e illuministica insieme ad una riconquista del rapporto con l’America per la sintesi di un nuovo Occidente. 3) Riforma profonda delle istituzioni politiche italiane e dello stato sociale senza timori reverenziali verso l’esistente (soprattutto senza timori reverenziali verso il sindacato, arroccato su posizioni conservatrici e perdenti). 4) Posizione umana e rigorosa davanti al problema dell’immigrazione, capace di “sguardo lungo” e non subordinato all’emergenza. 5) In sintesi, impegno “ a rappresentare una visione liberal e democratica, cristiana e socialdemocratica, con i tratti specifici della storia italiana” del futuro del paese.
Per chiudere, due notazioni. La prima riguarda il Mezzogiorno e le proposte in campo: francamente appare nebuloso che la chiave giusta per riordinare la questione meridionale sia il federalismo. Servono chiarimenti.
La seconda è più “partigiana”: non servirebbe al partito democratico un’attenzione maggiore all’eredità della cultura laica, azionista e repubblicana, alla vitalità di una tradizione da sempre legata alle esperienze più avanzate della sinistra in Occidente? C’erano due sinistre nella prima repubblica, una largamente maggioritaria rappresentata dai partiti di ispirazione marxista, e una orgogliosamente di minoranza, aperta alle esperienze dei democratici americani, dei partiti laburisti e liberal europei, incarnata da uomini come Ugo la Malfa, Bruno Visentini, Giovanni Spadolini. Fra queste due culture c’è chi ha perso e chi ha vinto, non c’è discussione. E dunque? Si tratta di non disperdere una risorsa nella ricerca di parametri di sinistra moderna per costruire il futuro del Paese.
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