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I fantasmi della sinistra
di Maurizio Ambrogi
C’è un nuovo fantasma che si aggira nel dibattito della sinistra: l’idea che la crisi finanziaria ed economica che ha colpito gli Stati Uniti e di conseguenza il resto del mondo abbia archiviato la stagione del neo-liberismo e cambiato il terreno di confronto politico. E rimesso in gioco le ricette socialdemocratiche che la sinistra avrebbe troppo presto abbandonato alla fine del secolo scorso per inseguire la destra sul suo terreno. A parlarne in modo esplicito fu Prodi nell’agosto scorso: l’Ulivo mondiale era una sciocchezza, scriveva in sostanza Prodi, la terza via una presa in giro, una imitazione del reaganismo-thatcherismo mascherato da un linguaggio diverso.
Una premessa analoga (con conclusioni, vedremo, diverse) sottende il ragionamento di Aldo Schiavone nel suo libro L’Italia contesa (ed. Laterza, 2009): il berlusconismo è al tramonto. «Il leader della transizione italiana è diventato oggi il solo ostacolo al suo definitivo compimento» (pag. 61). In effetti, è un giudizio comune che la democrazia italiana sia da tempo bloccata sui problemi di Berlusconi e che nessuna questione possa essere affrontata se non si libera il campo dall’ingombro dei problemi del premier. Schiavone allarga però il campo. E al capolinea ci sono tutte le convinzioni che hanno reso possibile il fenomeno Berlusconi: «l’esaltazione dell’anomia capitalistica, l’apologia incondizionata del mercato, la vocazione antistatalista, l’idea di un popolo decostruito fino alla completa frantumazione, l’attualità del richiamo anticomunista». La crisi sta cominciando a ridisegnare il “profilo mentale” di un paese che è invaso da sentimenti di paura, disillusione, che vive con ansia e affanno il proprio futuro e non si accontenta più di un ottimismo di maniera.
La straordinaria dinamicità imposta al sistema dal rapporto fra tecnica e mercato ha relegato la politica in un ruolo subalterno, scrive Schiavone, «di puro assecondamento rispetto a scelte e decisioni prese altrove, sulla base di criteri senza trasparenza, dominati dalla opacità di poteri che non avrebbero mai dovuto rispondere alla collettività del proprio operato» (pag. 68). Ma proprio la crisi dimostra la fragilità su cui poggia questo sviluppo: e dell’ideologia liberista «capace di far da volano al cambiamento, ma non poi di elaborare gli strumenti istituzionali e culturali per gestirne in modo adeguato le risorse» (pag. 70).
È la storia di questi mesi. La conclusione è che «questo mutamento di scenario rimette obiettivamente in gioco la sinistra, o quantomeno aiuta a creare premesse più favorevoli». Schiavone però non arriva alle stesse conclusioni di Prodi ed evita con decisione la trappola della nostalgia: «guai a pensare che quello di cui si ha adesso bisogno è semplicemente un “ritorno” alle vecchie ricette custodite dalla memoria socialdemocratica […] non è un “neosocialismo” quello che dobbiamo cercare. Guai se si restasse prigionieri della nostalgia per un mondo che abbiamo perduto e che di sicuro non avremo mai più» (pag. 73).
La domanda a questo punto è: perché la sinistra italiana dovrebbe riuscire a giovarsi di queste condizioni apparentemente favorevoli? Siamo sicuri che possa riuscire nel nuovo secolo a cogliere le occasioni che avrebbe più facilmente potuto immagazzinare nei cinquant’anni del dopoguerra? E a quali condizioni un simile miracolo potrebbe avvenire?
Come impedire insomma che, con queste premesse, la sinistra si avvii verso un nuovo viaggio nel paese dei balocchi?

La doppia rimozione

La condizione principale è che si cominci a ragionare su certi meccanismi di rimozione. Il primo e più importante riguarda la narrazione che spesso – e da ultimo dallo stesso Schiavone – viene riproposta sulla storia del paese. Il cosiddetto “eccezionalismo” italiano: il riproporsi della grande spaccatura ideologica, comunisti e democristiani, Peppone e Don Camillo, forze che si oppongono e si tengono come in una casereccia “guerra fredda”. L’Italia insomma paese di confine nella grande spartizione del mondo, diviso peraltro al suo interno fra il partito “americano” e quello “sovietico” in una condizione, osserva Schiavone, «di sovranità limitata e di vera e propria minorità repubblicana» (p. 18). La storia naturalmente è assai più complessa, e rappresentarla in modo così schematico non aiuta né a capire quello che è accaduto né a superare i ritardi che rimangono. L’idea dell’ineluttabilità del fattore K – pur con tutto il rispetto per la storia peculiare del comunismo italiano e il suo percorso di autonomia dal blocco di riferimento – ha sempre funzionato come uno straordinario alibi, da entrambe le parti, per le scelte non fatte, le occasioni perdute, le aperture rinviate. Ma soprattutto appare oggi, a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, come una grandiosa autoassoluzione rispetto ai giganteschi errori di valutazione che la sinistra italiana ha compiuto per cinquant’anni. E al tempo stesso perpetua quella narrazione di comodo che descrive i cinquant’anni del dopoguerra come un’epoca sospesa, paralizzata, immobile, culla di tutti i vizi. La narrazione, ancora, di una democrazia senza alternanza, di una democrazia incompiuta, di una esclusione inammissibile (del Pci dal governo) in modo tale, conclude Schiavone, che «l’intera forma repubblicana finiva in tal modo con il perpetuare le contraddizioni, i conflitti e i drammatici esperimenti della prima metà del secolo» (p. 18).
Si tratta di una storia, dicevamo, più complessa se si considera l’azione non secondaria di una parte della classe politica del paese, che pure esisteva e agiva fuori dal territorio del Pci e della Dc (e avrebbe tratto più forza nella sua azione da sponde più consapevoli a sinistra). Ed è una storia che appare assai meno consolatoria se si considerano gli sforzi di rinnovamento compiuti dalle sinistre in altri paesi europei, in condizioni non meno difficili: si pensi solo alla socialdemocrazia inglese, a quella tedesca e a quella spagnola.
In realtà il paese ha saputo compiere, nonostante la sua “guerra fredda”, e grazie soprattutto alla classe dirigente che non faceva capo ai due grandi partiti, scelte che l’hanno collocato saldamente nel blocco occidentale (operazione per anni duramente contestata ma che oggi nessuno sognerebbe di mettere in discussione) e ne hanno avviato una straordinaria e non scontata crescita economica. Dalla liberalizzazione degli scambi al riordinamento della partecipazioni industriali dello Stato, dalla riforma agraria alla programmazione economica e alla politica dei redditi si è dispiegato un pensiero lucido sullo sviluppo del paese, anche quando gli esiti sono stati assai inferiori alle attese. L’adesione al mercato comune e poi al sistema monetario sono state scelte che hanno messo in sicurezza il sistema finanziario dello Stato che le grandi forze “popolari” contribuivano – in questo sempre unite – ad appesantire. Frutto di quella cultura è stata anche – nella temperie di tangentopoli – la tenuta del sistema politico del paese e l’ingresso nell’euro. E quella cultura di origine democratica e azionista (che rivalutando Togliatti, “voce dal sen fuggita”, viene niente meno accusato di aver creato solo danni al paese), ha avuto anche la lucidità e la tenacia di tenere aperto il dialogo con il Pci, per tentare di accelerarne la modernizzazione e il pieno distacco dalla sfera di attrazione sovietica.
È giusto rilevare il ritardo che il Pci, dopo Berlinguer, ha accumulato nella sua “obbligata metamorfosi” (p. 22) e come questo ritardo abbia finito per «accrescere ancor più le dimensioni della voragine che stava ingoiando il vecchio sistema dei partiti». Ma bisogna chiedersi il perché di questo ritardo, riconoscere quanto esso fosse la conseguenza di una impostazione di diversità troppo a lungo coltivata. Per quarant’anni, prima dell’89, la cultura di sinistra, osserva Schiavone, «era stata capace di orientare la vita intellettuale del paese […] molto più di quanto non fosse in grado di decidere sui suoi destini politici» (p. 36). Il punto è proprio qui: orientava, influiva, ma senza capacità di incidere sulle scelte politiche proprio perché legata a schemi sempre arretrati rispetto ai tempi. La sinistra italiana era rimasta indietro già negli anni ’60 quando si cominciava a discutere della fine del modello fordista, e negli anni ’70, quando si discuteva della disarticolazione della società, del tramonto delle ideologie, della fine della centralità della classe operaia e dei problemi legati invece all’enorme crescita del ceto medio. Non c’era bisogno di aspettare il trauma dell’89 per capire le trasformazioni imposte dalla società post-industriale.
È sbagliato dunque mettere sullo stesso piano la crisi del Pci-Pds (dopo l’89) con quella – molto successiva – delle socialdemocrazie europee. È vero che «dovunque i partiti di sinistra si trovarono da allora in continuo deficit di strategie, di progetti di investimenti simbolici» (p. 37) e che in Italia «lo spiazzamento raggiunse ben presto punte di vera e propria afasia». Ma non si trattò solo di una carenza di argomenti, fu proprio la resa di fronte ad una carenza di elaborazione. Mentre in altri paesi la sinistra tentava di rispondere alla sfida della modernizzazione e della globalizzazione, in Italia ci si attardava sugli schemi antichi della contrapposizione di classe (dichiarata) e della consociazione sulle riforme (praticata).
E qui veniamo alla seconda grande rimozione: quella da cui siamo partiti. Il disconoscimento dell’esperienza dell’“Ulivo mondiale”: formula enfatica, certo, ma che indicava lo sforzo di mettersi al passo della elaborazione allora più avanzata della sinistra, quella del cantiere inglese, in primo luogo. La sinistra italiana non ha mai amato Tony Blair, per ragioni evidenti: troppo netta la cesura con la tradizione, troppo in anticipo l’intuizione di porre al centro la questione della sicurezza, troppo urticante l’idealistica visione di una democrazia che si difende anche con le armi. Ma bisogna avere l’onestà intellettuale di capire il senso profondo, e non solo “linguistico”, della rivoluzione blairista, che non è stata semplicemente la prosecuzione del thatcherismo con altri mezzi, ma il tentativo di riformare il welfare nell’unico modo possibile per salvarlo: trasformando lo stato sociale da meccanismo di protezione in occasione per creare nuove opportunità. Uno sforzo che non si può negare sia stato coronato da successo, nel periodo d’oro del governo Blair: se solo si considera la costante crescita dal Pil del paese; l’aumento (nel quadro di una forte disciplina di bilancio) della spesa pubblica nei settori della sanità, dei trasporti e dell’istruzione; la crescita del tasso di occupazione di molto superiore alla media europea. Si deve a quella stagione l’elaborazione del cosiddetto “welfare to work” adottato poi dall’Europa (grazie anche al governo D’Alema), come indirizzo, nell’agenda di Lisbona: con l’obiettivo di rimettere la gente al lavoro, soprattutto i giovani e far crescere l’economia, creando così un circolo virtuoso: più facile licenziare, più facile ritrovare un posto di lavoro.

Nuotare dove?

C’è un altro grande equivoco che ha condizionato la sinistra in questi quindici anni: quello che l’ha portata a sottovalutare il deficit dimostrato nella conduzione dei governi, e a sopravvalutare il peso del conflitto di interessi (che è stato ed è enorme, naturalmente) nelle proprie sconfitte, e della capacità di Berlusconi di indurre per via mediatica una sorta di “mutazione” dei comportamenti della popolazione e delle sue scelte politiche, abbassandone le difese contro la deriva populista. Su questo punto Schiavone dice parole di grande chiarezza: ribaltando completamente l’alibi dell’Italia “berlusconizzata”. Perché «non è stato Berlusconi a ridurre l’Italia a misura dei suoi format televisivi […] è stata piuttosto l’Italia decostruita socialmente e politicamente dalla trasformazione economica e dalla crisi del vecchio sistema dei partiti, che ha identificato nel berlusconismo e nel movimento che vi si ispirava il suo nuovo riferimento» (pag. 35).
Da qui bisognerebbe ripartire, dunque, per ricostruire una identità e una funzione della sinistra nel terzo millennio. Bisogna tuffarsi e nuotare molto, scrive Schiavone: che non indica, tuttavia, la direzione. L’impressione è che la sinistra italiana sia ancora molto concentrata nell’elaborazione della sua progressiva emarginazione (con indulgenze e rimozioni, come abbiamo visto), e spesso tentata dall’idea di tornare al buon tempo antico: le ricette rassicuranti della socialdemocrazia, l’organizzazione “sul territorio”, le sezioni, i circoli, le tessere. Come se quel tempo e quei contenuti non fossero ormai archeologia nell’era della produzione e della comunicazione che stiamo vivendo. Lo dimostra l’esaurimento della spinta propulsiva della sinistra (socialista, socialdemocratica, laburista) in tutta Europa. Lo dimostra a contrario la rivoluzione di Obama che ha saputo rispondere, con forme di comunicazione moderne e con una piattaforma politica nuova nel linguaggio e nei contenuti, allo sbandamento della società americana di fronte alla crisi economica.
La crisi può far ri-vincere la sinistra, dunque: è successo negli Stati Uniti. Può succedere da noi a condizione che non si interrompa il lavoro di rinnovamento nell’organizzazione e nei contenuti che era alla base del progetto del Partito Democratico. Un partito che costruisca una identità di tipo moderno senza perdere la propria forza: una identità che non parta dall’ideologia, ma da una visione del futuro sviluppo della propria comunità. Che non sia di lotta e di difesa, ma di governo nel senso ampio del termine. Che recuperi quel senso del rigore nei comportamenti pubblici e di rispetto dello Stato e delle istituzioni senza i quali la vita democratica rischia di deperire e di essere sostituita da forme sempre più devastanti di populismo e di leaderismo senza principi. Che assuma il principio secondo il quale i problemi si affrontano partendo dalla realtà e dagli interessi concreti, non da una visione del mondo. E i problemi oggi sono: come conciliare competitività e tutela delle opportunità per tutti i soggetti; come puntare sull’innovazione e la formazione; come sviluppare la concorrenza; come ridistribuire il reddito in modo da tutelare le fasce più deboli, senza appesantire il meccanismo produttivo; come alleggerire le strutture statali e il loro costo, aumentandone l’efficienza. E naturalmente come affrontare i problemi etici con procedure che non escludano nessuno e non impongano soluzioni “di maggioranza”.
Un partito che inserisca tutto questo, infine, nello schema politico bipolare che caratterizza tutte le democrazie occidentali avanzate. L’ultima tentazione da evitare, infatti, è il ritorno a quella “vocazione proporzionalista” che l’Italia ha tanto faticosamente abbandonato e che l’Unione e il triste declino dell’ultimo governo Prodi dovrebbe consigliare di archiviare definitivamente, per quel che riguarda il centrosinistra. Il Partito Democratico era nato anche per questo.
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