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Durban II: ma chi ha fatto la figura peggiore?
di Maurizio Ambrogi
La conferenza di Ginevra sul razzismo, cosiddetta Durban II, ha smosso un po’ le acque della politica internazionale: in un colpo solo, ha procurato l’ennesimo danno d’immagine all’Onu, ha messo a dura prova “l’identità” europea, ha messo in una posizione difficile il Vaticano. Stupisce perciò che un autorevole analista come Lucio Caracciolo su «la Repubblica» (21 aprile 2009) ne ricavi l’impressione che ad uscire con le ossa rotte dalla conferenza sia uno che non c’era, cioè il presidente degli Stati Uniti, come conseguenza del trionfo del presidente iraniano. «Ahmadinejad ha ottenuto ciò che desiderava – scrive Caracciolo – il consenso di buona parte dei delegati […] la divisione del campo occidentale» E ancora: «Con la sua provocazione Ahmadinejad ha messo Obama con le spalle al muro. E noi europei con lui, per quel poco che contiamo». Secondo il direttore di Limes c’è ormai poco da fare, Obama deve scegliere: «o persiste nel cercare il dialogo, malgrado tutto […] o smentisce se stesso, dimostrando di non avere una rotta, per evitare una gravissima crisi con Israele». Sergio Romano, un analista affezionato allo schema dell’Europa “terza forza” sul «Corriere della sera» (22 aprile) critica a sua volta la scelta italiana (e indirettamente quella americana) di non partecipare alla conferenza: avremmo dovuto andare e difendere le nostre buone ragioni. Disertando, questa la tesi di Romano, abbiamo dato «la sensazione di non tollerare la sconfitta».
In meno di cento giorni, insomma – secondo due autorevoli analisti, sui due principali quotidiani italiani – la nuova amministrazione americana si troverebbe già in affanno, o in un vicolo cieco.
Ma siamo sicuri che sia così? La conferenza di Durban è andata come era nelle previsioni: ha offerto una impropria tribuna elettorale al leader iraniano, che si è esibito fra gli applausi nell’ennesimo attacco a Israele. Ha visto l’Europa divisa sulla opportunità di partecipare e costretta all’umiliante rito di uscire dalla sala per dimostrare platealmente il proprio dissenso da Ahmadinejad (e bene ha fatto il governo italiano a dare forfait, insieme a tedeschi, olandesi e polacchi). Ha approvato un documento finale che ammorbidisce i contrasti e le ambiguità della prima stesura (soprattutto l’accenno all’islamofobia e al reato di vilipendio delle religioni) ma lascia intatta la sostanza: con l’esplicito richiamo al contestato testo di Durban 2001. Di fatto, come osserva con ben maggiore equilibrio Gian Enrico Rusconi sulla «La Stampa» (21 aprile) la Conferenza sul razzismo non è più «il luogo del dibattito etico», ma «il posto dove si esibiscono i muscoli della nuova ideologia anti-occidentale, prendendo come pretesto il caso di Israele».
In sostanza, l’Europa esce con le ossa rotte, Ahmadinejad guadagna (forse) qualche punto nella partita interna che si giocherà nelle elezioni di giugno. La diplomazia vaticana si trova ancora una volta nell’imbarazzante posizione di coprire con la propria presenza una conferenza dove le pulsioni antisemite sono prevalenti. E dove il gioco è condotto da paesi che vorrebbero imporre all’Occidente le regole – democrazia, tolleranza, rispetto per razze, etnie e religioni – che loro stessi non applicano al loro interno. Errori indubbiamente gravi: ma per fortuna le nuove linee guida della politica internazionale non passano per Durban né per Ginevra.
Gli Stati Uniti (assenti) stanno giocando ben altra partita, più rischiosa, forse, ma certamente di portata assai più ampia. Apertura al mondo islamico in generale e all’Iran in particolare. Sostegno alla stabilizzazione di Afghanistan e Pakistan in funzione anti-qaedista. Disgelo con la Russia e rassicurazione a Mosca su temi cruciali come l’allargamento della Nato e lo scudo spaziale. Sostegno all’ingresso della Turchia nell’Unione europea (nonostante le molte resistenze europee, Francia in testa). Apertura al dialogo, nell’aerea continentale, persino con nemici storici come Cuba o più recenti, come il Venezuela. Riconoscimento della Cina come partner più importante in un assetto che, da un punto di vista economico, si muove verso un nuovo bipolarismo. Infine, e non da ultimo, un approccio unitario e globale alla soluzione della crisi economica.
Può darsi che la carne al fuoco sia troppa e che, come osserva Vittorio Emanuele Parsi sulla «La Stampa» (19 aprile), fino ad ora non siano arrivate «soddisfazioni paragonabili agli sforzi intrapresi e agli azzardi accettati». Può darsi che la politica sullo scacchiere mediorientale sia un po’ “spericolata”, come osserva sempre Parsi, e possa mettere in difficoltà da un lato Israele, dall’altro i tradizionali alleati arabi – dai sauditi ai giordani – che possono sentirsi tagliati fuori dalla partita, ma che Obama ha già convocato a Washington.
Il gioco che è appena cominciato, e che è destinato a ribaltare totalmente l’approccio di politica internazionale rispetto all’era Bush, richiederebbe massima prudenza nell’analisi, soprattutto dal punto di vista del vecchio continente che non ha dimostrato mai di avere qualche ricetta originale per la lotta al terrorismo. Che non ha la forza e l’autonomia militare per intervenire nella stabilizzazione delle aree a rischio. E che non ha la forza economica per fronteggiare e risolvere la crisi dell’economia globale. L’Europa oscilla fra una adesione acritica al nuovo approccio americano (magari da parte degli stessi paesi che sostenevano l’opposta politica di Bush) e tentativi velleitari di condizionarlo o di segnare momenti di autonomia (come ha tentato Sarkozy al G20 sulle regole finanziarie e al vertice Nato sulla Turchia).
L’impressione è che l’approccio di Obama e della sua amministrazione affronti i nodi principali – conflitto mediorientale, Iran, terrorismo, crisi economica – partendo non dal quadro ma dalla cornice. In altre parole provando a ridisegnare la cornice appunto di rapporti, influenze, alleanze, dentro il quale una questione può essere affrontata e risolta con qualche successo. È chiaro che la questione centrale, quella israelo-palestinese, non può essere affrontata senza aver prima diviso il fronte anti-israeliano, Siria e Iran, in primo luogo. E che la minaccia dell’Iran (peraltro già indebolita dalla caduta del prezzo del petrolio) può essere meglio contrastata se si comincia ad indebolire il sostegno russo al regime di Teheran. Ed entrambi i paesi, Russia e Iran, potranno attenuare le spinte aggressive e destabilizzanti quando riceveranno garanzie sul loro ruolo nelle rispettive aree di influenza. E la minaccia terrorista sarà assai meglio contenibile quando si abbandonerà lo schema ideologico dell’“asse del male”, evitando di favorire una saldatura fra stati canaglia e movimento terrorista. Cornice e disegno ambiziosi, che richiedono tempi lunghi, e che è da dubitare possano essere interpretati con i soliti schemi cari ai nostri analisti e ai nostri giornalisti: con le pagelle, come le partite di calcio.
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