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Dal clandestino (hrigue) alle catene transnazionali degli immigrati marocchini in Italia. Il caso di Torino
di Annamaria Fantauzzi
Troppo spesso, quando si parla di migrazione, si fa riferimento soltanto alla condizione dell’immigrato, non considerando che lo stesso, nel medesimo tempo, è anche un emigrato; l’una e l’altra situazione costituiscono le due facce di una stessa medaglia, che non possono essere disgiunte ma simultaneamente considerate.
Il racconto di un immigrato evoca, costantemente, questa ambiguità, che si traduce in un vissuto continuamente spezzato tra la società d’origine e quella d’approdo: doppia appartenenza, doppia assenza e presenza, simultaneità nell’essere sia là che qui, che rende il migrante “affascinante e temibile”, allo stesso tempo, incluso ed escluso da entrambi i contesti1.
E’ bene anticipare, tuttavia, che il concetto stesso di migrazione, come anche i suoi corrispettivi, immigrazione/emigrazione, sono stati recentemente discussi e messi in crisi, tanto dalla sociologia quanto dall’antropologia del settore2, a vantaggio delle categorie di transitività e transnazionalismo, le quali sembrano rispondere meglio alle caratteristiche dei nuovi flussi migratori, che richiamano idee quali diaspora, cosmopolitismo, ri-localizzazione e ri-appropriazione.
Si è di fronte, dunque, ad una nuova configurazione di spazi, dominata dalla mobilità non soltanto di persone ma anche di beni, di idee, di identità e di culture3, in base alla quale l’inserimento del migrante all’interno del sistema-mondo esorta a una ridefinizione della sua condizione e del fenomeno di cui è attore, come anche dei concetti di cittadinanza e di Stato-nazione messi in crisi dal fenomeno del transnazionalismo.
Il migrante, pur da emigrato, continua ad avere rapporti con la terra d’origine, vive in quella condizione diasporica per cui numerosi sono i rientri, non solo nel periodo estivo, altrettante le catene transnazionali che ne regolano i flussi economici (le cosiddette “rimesse”, ad esempio) e i legami familiari con coloro che sono rimasti al paese di origine. A questo proposito, Maurizio Ambrosini ha recentemente parlato di «globalizzazione dal basso», riferendosi alla necessità di considerare i migranti come attori sociali e non come agenti passivi4.
L’insieme di queste caratteristiche segna uno dei più vecchi processi migratori presenti in Italia, qual è quello marocchino che, anche solo numericamente, testimonia la sua storicità5.
S’intende qui ripercorrere brevemente la storia di questa presenza sul territorio nazionale, osservarne le dinamiche che coinvolsero, in particolar modo, la città di Torino, tracciare il cambiamento nella tipologia e nei progetti dei migranti, nell’immaginario legato all’immigrazione e nelle pratiche di integrazione con il tessuto sociale locale.
Le voci e le testimonianze degli immigrati qui riportate saranno un vivo documento per comprenderne il fenomeno6.

1. L’immigrazione marocchina in Italia
L’iniziale presenza degli immigrati marocchini sul territorio italiano coincise con il passaggio dall’immigrazione di tipo industriale a quella post-fordista o post-industriale, iniziata negli anni Settanta, e sviluppatasi soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, con l’incremento del settore terziario, della piccola industria e dei servizi, che tuttora caratterizza la dinamica migratoria internazionale in Italia.
Ciò è spiegabile anche per il fatto che, in molti Stati europei (come la Francia, il Belgio e la Germania, caratterizzati da una forte presenza di immigrati provenienti dal Maghreb), il mutamento dell’immigrazione da fordista a post-fordista determinò la crisi della manodopera non qualificata e la conseguente chiusura delle frontiere. Questa scelta rappresentò l’epilogo di una serie di strategie politiche che avevano visto, fin da allora, l’intervento dello Stato nel regolare i flussi migratori e l’inserimento della manodopera straniera, soprattutto nei contesti di forte industrializzazione7.
Di fronte a questa situazione, l’Italia divenne, dunque, un’alternativa «second best»8, meno prestigiosa ma più accessibile, in un periodo in cui si trasformò da paese di emigrazione a paese d’immigrazione, impreparata a gestire l’arrivo di forza-lavoro non direttamente impiegabile sul mercato del lavoro che, proprio in quel momento, risentiva di una forte disoccupazione. L’immigrazione internazionale nella penisola iniziò, dunque, esattamente allo scadere di quei flussi regolati e direzionati che erano il risultato di accordi più o meno espliciti tra paese d’immigrazione e quello di emigrazione: infatti, da sempre, il Marocco ha dovuto adeguarsi alle politiche migratorie dei Paesi europei (in particolare, Francia, Germania e Spagna), ai quali fornì forza lavoro a basso costo, anche prima dell’Indipendenza (1956).
Tutto ciò contrassegnò quella dimensione fortemente politica del fenomeno migratorio marocchino, che è tuttora riscontrabile, da un lato, in una rete di congiuntura tra un iper-controllo legislativo, economico e civile (di cui la concessione del permesso di soggiorno rappresentava il principale strumento) e il bisogno di forza-lavoro a basso costo nel paese di approdo e, dall’altro, in un sistema arretrato e privo di soluzioni del paese di origine, che spesso incentivava, invece di ostacolare, la clandestinità. Sebbene, a partire dal 1974, il governo marocchino abbia iniziato ad applicare una rigida politica di controllo sull’emigrazione, soprattutto clandestina (che non ha dato, finora, evidenti risultati di cambiamento o miglioramento), tuttavia ha continuato a mantenere e ad intensificare i rapporti con gli emigranti regolari e “storici”, i quali garantivano (e tuttora garantiscono) l’invio costante di rimesse, che giovano non soltanto alla famiglia destinataria ma all’economia di tutto il paese.
Testimonianza di questa dinamica politica sono le recenti istituzioni create all’occorrenza9, come il Ministero della Comunità Marocchina all’Estero e i R.E.M. - Ressortissants Marocains à l’Etranger -, la Fondation Hassan II, la Bank Amal, che provvede alla gestione delle rimesse transnazionali degli emigranti e alle agevolazioni offerte nelle “operations de transit” relative al rientro degli immigrati per i soggiorni estivi oppure durante le feste religiose. Ciò conferma come il processo migratorio abbia da sempre riflettuto la condizione e la struttura dello Stato, «il pensiero dello Stato», come lo definisce Abdelmalek Sayad10, nella bipolarità che esiste tra società d’immigrazione e società di emigrazione.
In una ricerca pubblicata nel 1994, Ottavia Schmidt di Friedberg11 riassume le principali tappe del processo migratorio dei marocchini in Italia, suddividendolo nei seguenti tre periodi, che mostrano bene come i progetti, la tipologia e la dinamica del migrante siano nel tempo cambiati:
1.    dal 1978 al 1986: “il periodo dell’invisibilità”, quando, per i motivi di cui si è appena parlato, l’Italia accolse presenze sporadiche e temporanee di migranti marocchini, venditori ambulanti e studenti, gli arobiin12, provenienti soprattutto dalla regione della Chaouia (dalle zone rurali di Bni Meskine e di Khouribga), che si stabilirono in gran parte nel Sud Italia. Essi erano lavoratori che, con il guadagno accumulato dai risparmi, tornavano a casa per acquistare terre più grandi o per trasferire la famiglia nucleare dalla campagna ai centri urbani, dopo aver instaurato una serie di rapporti e di circuiti relazionali nella città d’immigrazione, di cui i successivi migranti, normalmente parenti o provenienti dalla stessa città, si sarebbero serviti.
2.    dal 1987 al 1991: “il periodo dell’entrata nella legalità”, caratterizzato dalle due sanatorie dell’’86 e del ’90 e dalla concessione da parte del governo marocchino di un documento valido per l’espatrio, vide uscire dalla clandestinità numerosi primi-migranti e giungere altrettanti giovani della regione rurale della Tedla (in particolare da Beni Mellal) e dai quartieri periferici di Casablanca. Soprattutto i marocchini arrivati nella prima fase iniziarono a costruire un percorso migratorio più stabile e radicato sul territorio: in gran parte migrarono al Nord, alla ricerca di un’occupazione nella piccola e media industria, che impiegava manodopera non qualificata, oppure nei servizi e nel terziario, che tuttora costituiscono i settori di maggiore impiego della forza-lavoro marocchina. L’occupazione subordinata, rispetto a quella autonoma, che aveva dominato il primo periodo, pur se meno redditizia, tuttavia, richiedeva maggiore stabilità: da qui l’avvio di numerose pratiche di ricongiungimenti familiari, che permisero la costruzione e il consolidamento di quei social networks, che costituiscono oggi una delle maggiori giustificazioni dell’immigrazione marocchina verso l’Italia.
L’antropologa Ruba Salih fa risalire a questi anni di forte regolarizzazione degli immigrati clandestini l’inizio della dinamica transnazionale della migrazione marocchina, radicata e stanziata sul territorio italiano13.
3.    dal 1991 al 1993 (anno in cui l’analisi della Schmidt di Friedberg s’interrompe): “il periodo dell’installazione bloccata”, che vide la progressiva stabilizzazione della migrazione marocchina attraverso decreti legislativi che ne regolavano il flusso e l’impiego lavorativo.
Gli anni che vanno dal 1993 ad oggi sono segnati da due caratteristiche principali: in primo luogo, una nuova tipologia di migranti, distinta da un più alto livello di istruzione (giovani, provenienti soprattutto da Casablanca e dai principali centri urbani) e da una “femminilizzazione” del processo migratorio, determinata dalla partenza di ragazze, spesso laureate, o di mogli e madri che si “ricongiungono” a parenti presenti in Italia; in secondo luogo, un tipo di «integrazione subordinata», per la quale la presenza dell’immigrato dipende dalle quote d’ingresso (legge Turco-Napolitano) e il cui permesso di soggiorno è direttamente vincolato al contratto di lavoro (legge Bossi-Fini): ciò rende la cittadinanza economica la condizione necessaria per l’ottenimento di una cittadinanza sociale.

2. Torino alla marocchina: lavoro duale e «bazardizzazione»

Agli inizi degli anni Novanta, tra le città italiane che divennero mèta dell’immigrazione internazionale, Torino accolse un cospicuo numero di presenze marocchine, dopo aver definito e solidificato al suo interno la presenza di migranti provenienti dal Sud Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, richiamati dall’attrattiva FIAT e dal boom della fabbrica di tipo fordista.
Quella marocchina si conferma, tuttora, come la prima e la più vecchia tra le comunità di stranieri extracomunitari presenti a Torino14, a partire dalla prima e seconda ondata migratoria proveniente dal Marocco.
Dal loro arrivo nel capoluogo piemontese, gli immigrati marocchini, in prevalenza casauiyin e khouribguiin15, hanno seguito quel percorso di incorporazione subordinata nelle fasce più basse della società, già tracciato dalla precedente immigrazione interna, sia nell’insediamento e nella gestione dello spazio urbano sia nell’inclusione nel mercato del lavoro.
Gli immigrati marocchini, infatti, si sono concentrati essenzialmente in quei quartieri di Porta Palazzo, Borgo Dora, Corso Giulio Cesare e Barriera di Milano, prima popolati da pugliesi, calabresi e siciliani (si pensi che una delle piazze di maggiore insediamento è stata recentemente ribattezzata “Piazza Cerignola”, in onore del consistente gruppo di immigrati pugliesi provenienti da questa città e qui stanziatisi).
Per quanto riguarda l’aspetto lavorativo, sin dall’inizio del processo migratorio, la fabbrica è stata la principale occupazione per i marocchini giunti a Torino, benché recentemente si assista ad un graduale impiego nel settore terziario e nei servizi alla persona soprattutto dei “nuovi arrivati”: operatori socio-sanitari, mediatori culturali, interpreti, funzionari di enti pubblici rivolti agli stranieri. L’occupazione subordinata (in fabbrica e nel terziario) si caratterizza abitualmente come un lavoro “duale” (forte incertezza e bassi salari), favorendo quel processo di incorporazione subalterna di cui si è parlato.
Tale dinamica crea un’ulteriore instabilità nella condizione dell’immigrato (il cosiddetto temporaneo), che si trova a vivere soltanto brevi soggiorni in Italia ed è poi costretto a rimpatriare o a vivere da clandestino. Il lavoro diventa, pertanto, l’elemento fondante il processo migratorio, in quanto permette al migrante di riscattare la sua condizione di incertezza iniziale (motivo stesso della partenza) e di trovare una fonte e forma di stabilità nel paese di accoglienza: in questo senso, Sayad ha parlato del lavoro come della «ragion d’essere dell’emigrazione e, in ultima istanza, la ragione ultima del male e del malessere che si prova immigrando»16.
Inoltre, accanto all’occupazione subordinata e ad un’endemica disoccupazione, tra gli immigrati marocchini di Torino, si sono sviluppate anche forme di lavoro autonomo, rappresentato soprattutto dal commercio di capi di abbigliamento o di servizi per la ristorazione, dove emerge quella competenza tecnico-etnica che permette al migrante di dominare, in maniera per così dire non del tutto condizionata, la domanda e l’offerta del lavoro e di intensificare i rapporti con la madrepatria.
La «mercificazione della diversità etnica»17, nel nostro caso, si traduce nei numerosi blays dial el hwayj maghribia (banchi di vestiti marocchini), che gremiscono il mercato di Porta Palazzo, nel quale è stato riprodotto il prototipo del suq: esso rappresenta il cuore dell’attività lavorativa e sociale delle medine e dei drouba (quartieri) popolari della città marocchina, intorno al quale si è creato quel fenomeno detto di «bazardizzazione». Questo termine, coniato dal geografo Mohamed Berriane18, indica la sostituzione di negozi tradizionali e laboratori con magazzini di vendita di articoli per stranieri in una parte della città vecchia marocchina: la stessa parola, nella forma sostantivata di bazar o magasins (alla francese), è spesso impiegata dagli immigrati torinesi per indicare quelle attività commerciali finalizzate alla vendita di prodotti etnici, rivolte essenzialmente a connazionali e impiantate nella zona di loro maggiore concentrazione19.
Si pensi alla majazara al Iman (macelleria “Il Credente”) o alla majazara al Masjid (macelleria della “Moschea”) che domina Corso Giulio Cesare e che, conosciuta anche come “Standa marocchina”, fornisce i più disparati alimenti: salsicce kasher, polpettine di carne obbligatoriamente halal (kofta), bottiglie di latte fermentato (leben), pane marocchino (khobz el maghribi) e italiano; alle piccole attività, che sono anche centro di ritrovo tra connazionali, dopo il lavoro: hallaq maghrebi (barbiere marocchino), lhatif al ‘omoumi (telefoni pubblici, chiamati anche téléboutique) e mataim maghribia (ristoranti marocchini) dei quartieri di Borgo Dora e di San Salvario.
Accanto alle forme descritte di lavoro autonomo, tuttavia, si registrano anche quelle occupazioni illegali, come la rivendita di oggetti rubati o lo spaccio di droga, che costituiscono un importante e ancora critico frammento del variegato mosaico delle presenze marocchine a Torino. Esse costituiscono le espressioni più estreme della vita del migrante clandestino, la “non-persona”, priva di ogni diritto e riconoscimento sociale, che traduce la sua vita nel paese ospitante in un lavoro illegale e irregolare. Esso sfocia spesso nella microcriminalità e nella devianza che, soprattutto oggi, vedono coinvolti minori non accompagnati e migranti sans-papiers20.

3. Bled-al-fluss, Bled-l-huquq: lo sguardo del marocchino migrante

D. è un marocchino giunto a Torino da Khouribga negli anni Novanta. Davanti a un bicchiere di tè alla menta (atay bi na'na) e a gustosi dolci tipici (m’hancha, ka’b al-ghazal), mi racconta la sua storia d’immigrazione che sembra ripercorrere quella di molti altri suoi connazionali. Questa “diapositiva etnografica” permette di illustrare i caratteri principali del fenomeno migratorio marocchino a Torino, la sua evoluzione e le sue peculiarità, da un punto di vista «emico», vissuto e auto-interpretato: per questo, ne riporto parti considerevoli.
D.: Quando sono partito, là non c’era niente, soltanto il sogno di qualcosa di più bello e questo non era là. Volevo aiutare la mia famiglia, vivevamo in tanti in una stessa casa mentre vedevo che quelli che erano partiti qualche anno prima, forse era l’Ottanta, tornavano a casa con qualcosa di più, più soldi, fluss, per esempio, gli occhiali da sole firmati… quelli veri, dico! quelle cose che non sono necessarie, ma che tutti vogliamo, perché fanno stare bene e ti fanno vedere dagli altri meglio.
Annamaria: C’è un termine particolare che utilizzate per definire “queste cose che fanno stare bene”? Mi interessa conoscere il vostro dialetto, anche se so che è molto difficile!
D.: [sorridendo] Sì, si dice al-kamaliat, sono le cose che ti danno onore, che ti fanno guardare da tutti gli altri come qualcuno di importante! Infatti quelli là che tornavano poi si sono fatti la casa, una bella casa là al paese…
A: E dunque, quando sei partito…
D.: Si, insomma, sono partito quando non sapevo più che fare, ero uno come tanti, uno chumur, cioè disoccupato e proprio questo è il guaio del Marocco! Che non ti dà proprio niente, e te ne stai lì, a guardare il sole e le strade, a bere il caffé, .... per ore, qualcuno… anzi fa anche altro. Era l’unica soluzione e questo anche i miei [genitori] lo sapevano… infatti, ero l’unico che stava bene, cioè che non aveva acciacchi o che era vecchio come i miei e quindi io ero quello che potevo andare e lasciare tutto al paese. Allora ho sentito che c’era un tipo, un harraga come si dice in dialetto marocchino (so che ti interessano le parole come noi le diciamo, quindi te le dico, ok?), forse non conosci questa parola che si dice anche passeur in francese…
A: Sì, uno che organizza viaggi clandestini e richiede soldi, anche molti per questo?
D.: E’, sì, proprio proprio quello. Insomma… mio cugino mi ha detto che c’era uno così e allora mi sono informato. Mi hanno detto che si partiva l’8 agosto dentro un camion e che bisognava portare il fluss -eh quello sì che era importante-, 15000 dirham e che lui spiegava tutto. indicare
A: Avevi allora la disponibilità di quei soldi?
D: No, Certo che no! Allora mi sono informato e ho visto che potevo prendere un po’ di qua e un po’ di là… attenta, no a rubare o a fare certe cose ma da altri parenti, i cugini, gli zii, i fratelli che mi hanno detto che mi aiutavano.
A: E allora come hai organizzato il viaggio?
D: Lì il viaggio è sempre tutto bene organizzato, ci sono persone che si preparano per anni, che studiano i mille modi per farlo! Tu pensa che ora si mettono anche dei cd qua [indica il petto] perché dicono che non ti beccano i laser della dogana… oggi poi gli hargin le sanno tutte, che ti credi21. Insomma, per fartela breve, quell’8 agosto sono partito e dopo un viaggio faticoso, chiuso dentro un camion per quattro, cinque giorni… boh non mi ricordo di preciso ora ma mi ricordo che non potevamo uscire fino alla frontiera neanche per la pipì. Eravamo un gruppo, non mi ricordo quanti; io stavo sempre con due miei amici, Abdel e Yassin, che volevamo andare in Italia, mentre certi altri si fermavano anche in Spagna.
A. Perché proprio in Italia?
D. Perché l’Italia era, come dicevano a Khouribga, bled-al-fluss, bled-l-huquq, capito?
A. No, cosa significa e chi lo diceva?
D. Era la terra del denaro, della ricchezza e dei diritti, quelli che a Marocco non esistevano e neppure ora. Se sei povero, lì niente, non hai niente, anzi, ti fanno morire. Se non c’hai qualcuno al.... insomma c’è la corruzione, potevi pure studiare ma tanto non facevi niente. Questo lo sentivo proprio da quei zmagria che tornavano a casa ogni tanto, erano pochi, oggi siamo di più. E quelli ci facevano vedere tante cose, che uno non si sognava solo. Poi sentivamo che era facile entrare, no come en France o da qualche altra parte dove ti trattano ancora più male.
A.: E quando sei venuto in Italia, cosa hai fatto, hai trovato lavoro? Dove ti sei sistemato?
D.: Siamo arrivati col camion in Sicilia e quello ci ha scaricato a Mazara [del Vallo], sai quella città dove ci sono tutti tunisini?
A.: Si, la conosco
D.: Lì non ci siamo trovati male. Per esempio qui a Torino, all’inizio è stato difficile, ti guardavano tutti male, sembrava che facevi paura, perché eri diverso da loro. Giù respiravi la stessa aria del paese, c’era il sole, il mare… insomma, come se eri a casa. Per esempio, il mio amico Abdel, che lui è di Casa, e abita proprio vicino alla Corniche, la zona del mare, si sentiva a casa sua. Poi le persone fanno da mangiare quasi come noi… insomma, siamo stati bene ma…

Da questa testimonianza appare chiaro come la cultura dell’emigrazione sia radicata e incastonata nel tessuto sociale di alcuni centri marocchini, come Khouribga, ne definisca la quotidianità, l’immaginario collettivo, il vissuto personale e familiare, l’evoluzione dell’habitat culturale e urbano. L’emigrazione costituisce la scelta della quotidianità e una pratica che diventa sempre più pervasiva nella storia e nell’evoluzione della città stessa e dei suoi abitanti.
Khouribga, insieme a Beni Mellal e Beni Meskine, nella regione della Tedla, forma quello che gli stessi abitanti definiscono «il triangolo infernale», indicando le tre località da cui si registra la più alta percentuale di emigrazione, soprattutto clandestina, verso l’Europa e, in particolar modo, verso l’Italia, che è descritta da D. come bled-al-fluss, bled-l-huquq, l’altrove felice, «l’eterotopia», parafrasando Foucault22.
Il termine bled indica una regione, una località, generalmente un paese concreto o simbolico, spesso immaginato nei sogni e nelle aspettative dei migranti marocchini, che rappresentano l’Italia come il paese del benessere, del denaro (fluss) -il primo motivo che generalmente gli immigrati marocchini segnalano come giustificazione alla loro scelta di emigrare- e dei diritti (huquq), intesi come diritti civili e politici, visti spesso negati o inesistenti nel paese di origine.
La ricchezza e i diritti acquisiti dal migrante “che ce l’ha fatta” nel paese d’immigrazione diventano motivo di onore e di invidia da parte dei connazionali rimasti nella terra d’origine, spesso colpiti da quella «deprivazione relativa»23 che porta a valutare la propria condizione come peggiore rispetto agli individui del gruppo di riferimento. L’onore conferito dalla comunità rinfranca il migrante e riscatta le sofferenze, i pericoli e i dolori che, ad ogni modo, sono consustanziali allo status del migrante.
Dalla descrizione di D., come di altri suoi connazionali, l’Italia riflette non tanto una condizione reale, di cui l’immigrato prende coscienza soltanto una volta arrivato, ma un’idea e un’immagine, che si celano dietro i racconti selezionati degli immigrati che tornano a casa (i vacanciers) e che accrescono, per questo, la visione positiva dell’emigrazione, concepita come possibile (se non unica) soluzione di vita.
Se l’esilio (al-ghorba) che vivono nella società d’origine, i diritti negati, l’inefficiente se non inesistente quadro istituzionale e politico, lo scarso riconoscimento delle libertà civili e politiche del paese d’origine costituiscono i principali push factors che motivano l’emigrazione marocchina, la «menzogna collettiva» della buona e ricca Italia, rappresenta uno dei principali pull factors che determinano l’immigrazione verso la Penisola.
L’Italia sembra essere mèta preferita per almeno quattro ordini di ragioni. La posizione geograficamente favorevole della penisola, come crocevia tra diversi Paesi. L’arrivo in Italia, dunque, soprattutto per i primi-migranti, era visto come punto di passaggio per giungere in Francia, in Belgio o in Germania o, al contrario, come luogo dove poter trascorrere un periodo di vacanza, dopo un anno di lavoro negli altri Paesi europei.
E’ questo il caso di K., giovane di Casablanca, che, studente in Francia, decise con un connazionale, compagno di studi, di venire in Italia per trascorrere qualche mese durante l’estate. Alla fine, vi è rimasto, lasciando gli studi e dedicandosi a diversi lavori, che gli hanno consentito di ottenere il permesso di soggiorno e di sposarsi.
Un contesto d’immigrazione non focalizzato sulle ex-colonie né determinato da una prevalenza etnica particolare, in cui l’immigrato si sente libero di esprimere la propria cultura e appartenenza (anche religiosa), senza restrizioni né condizionamenti, come quelli imposti dalle politiche migratorie dei Paesi nordeuropei.
Questo “sentimento di libertà” è percepibile, tuttora, soprattutto nelle testimonianze delle donne e delle ragazze marocchine che decidono di riproporre, per tradizione, appartenenza identitaria o semplicemente per scelta personale, un habitus proprio del paese di origine e visibilmente differente dal contesto d’immigrazione: si pensi ai capi d’abbigliamento, come lo hijab o la gellaba24; al sapere e alle pratiche culinarie tipiche del bled; alla frequentazione e promozione di luoghi “etnicamente” in-formati quali l’hammam, la moschea o i centri di preghiera e alla ri-formulazione di performance rituali (l’uso dell’henné in occasioni cerimoniali ne è un esempio) che pervadono la cultura marocchina anche nel contesto migratorio25.
La ri-localizzazione del sapere tradizionale, che costituisce “l’habitus di significato” in cui l’attore sociale si colloca, sul territorio italiano, sembra avvenire in modo meno problematico rispetto ad altri contesti, evocati dalle interlocutrici.
W., una donna casablanchese, giunta in Italia per ricongiungersi al marito, a Torino già dagli anni Novanta, nonostante la difficoltà comunicativa -data la sua scarsa conoscenza dell’italiano e l’incertezza nel parlare francese- difende fortemente la sua scelta di indossare lo hijab soprattutto in un paese straniero: è un modo per sentirsi marocchina e, più ancora, musulmana: «On ne peut faire moins, maintenant, è qui, di noi, sulla testa et aussi dans le coeur, compris? Ici ce n’est pas comme en France où c’est interdit!»26.
Un’analoga testimonianza è quella di H., un’adolescente diciassettenne, al tempo della ricerca, arrivata da Agadir con la sua famiglia quando aveva tredici anni. Parlando della sua storia di immigrazione, lei definisce «brusco» il passaggio dal Marocco all’Italia in piena adolescenza, «ambiguo» il sentirsi parte dell’una e dell’altra cultura, pur «senza problemi». Riflettendo sulla scelta di indossare lo hijab, presa con altre coetanee, sue connazionali, con cui è solita uscire dopo la scuola, commenta:
quello che voi chiamate il velo o foulard. Perché? Semplicemente perché un giorno sono uscita, ho incontrato alcune mie amiche che lo portavano e ho deciso di metterlo. Sì, ci sono anche dei significati religiosi dietro, come anche propri della mia tradizione. Ma qui non ho problemi, anche perché siamo in molte a portarlo; il problema è spesso dell’ignoranza della gente, che ha paura di questo velo o che non sa quello che significa. Così come non capisco la legge francese che lo vieta. E’ vero che io non potrei andare a scuola con il velo come invece vado qui, al Regina Margherita, dove frequento il “sociale”?

Il “sentimento di libertà”, al contrario, sembra essere percepito e applicato anche in un consapevole distaccamento dalle pratiche rituali e dal sapere tradizionale, in una volontaria ricerca di conformità con l’apparato culturale del paese d’immigrazione.
N., mediatrice culturale presso alcuni servizi sanitari di Torino, giunta da sola da Khouribga alla fine degli anni Novanta, dice di vestire all’«occidentale, come voi e come tante altre ragazze che abitano pure in Marocco. Se vai a Casablanca, trovi anche quelle con i top e con i jeans strettissimi! E’ una mia scelta che sono così, così altre donne decidono di mettere lo hijab qui in Italia e nessuno gli dice niente!».
Questo “sentimento di libertà” è maggiormente percepibile dall’esperienza di B., presidente dell’Associazione Islamica delle Alpi di Torino. Arrivato da Casablanca a Biella, dove c’erano dei cugini che lo hanno aiutato a trovare un primo lavoro e un alloggio, in seguito, si è spostato a Cuneo e, infine, a Torino:
Laggiù [in Marocco] ho fatto due anni di formazione da metalmeccanico, tutti i tipi di ferro, lavoravo a Casablanca. Poi lo stipendio lì non è tanto alto, cioè io ci vivo, ma è poco. Nell’89 ho preparato passaporto, la dichiarazione di… ho preso le mie cose e sono andato a Biella da mio zio e mio cugino prendendo delle ferie, poi ho preferito restare qui…sono venuto qui, poi ho lavorato a Cuneo, non ho mai rimasto senza lavoro, vado in Marocco, tornavo e subito mi chiamavano per lavoro. Ora la cosa è un po’ diversa… per la Fiat, quello è un altro casino. Però nel ’96, ho iniziato a lavorare tornitore all’ENI, poi a San Maurizio, nel ’98 ho deciso di fare artigianale a un macelleria di Aosta, poi l’abbiamo venduta e poi ho fatto una società qui con altri 3 e ora lavoriamo insieme. La mia famiglia è venuta nel ’93; mi ricordo che era una delle prime donne a venire qui, mi ricordo che c’erano pochissime. Non ci sono state difficoltà di integrazione, no, veramente, qui in Italia non senti…magari in Francia non mi trovo tanto bene, in Germania… dicono che sono più ricchi però, però quello non basta. Qui non abbiamo mai sentito razzismo, anche se non sono bene organizzati per la cultura, documenti, burocrazia, come in Francia e in Germania, sono ancora un po’ indietro. Però tutto bene, anche a livello umano. Abbia trovato solo difficoltà a trovare le abitazioni: se sentono marocchino, non ti affittano. Meno male a Cuneo io giocavo a calcio, loro mi hanno aiutato a trovare un alloggio. Ma adesso no, adesso non è più come una volta, una volta non trovi mai qua a Torino.

La percezione di una vicinanza tra Marocco e Italia (soprattutto del Mezzogiorno), scaturita dal sentimento di appartenenza a una più ampia area geografica e culturale, qual è il Mediterraneo, che giustifica la preferenza del nostro paese come una delle prime mète dei progetti migratori27.

Il cosiddetto lassismo istituzionale e il permissivismo, per certi versi comune alla Spagna, grazie al quale, almeno fino agli anni Novanta, l’immigrato poteva entrare più facilmente nel territorio italiano e impiegarsi spontaneamente in occupazioni spesso illegali e precarie.

Dalle testimonianze, è emersa sovente l’idea che fosse destinato ad emigrare il membro della famiglia che godesse di un buono stato di salute, che fosse in forze per affrontare il viaggio e per costruire una nuova realtà nel paese di immigrazione. Il cosiddetto “effetto migrante sano” consiste, infatti, in un’auto-selezione operata prima della partenza tra i possibili candidati a emigrare, come spiega Salvatore Geraci:
risulta d'altronde estremamente logico che il tentativo migratorio, soprattutto in una fase iniziale, venga messo in atto da quei soggetti che, per caratteristiche socio-economiche individuali e per attitudini caratteriali, massimizzano le possibilità di portare a buon fine il progetto migratorio: sono i 'pionieri' della migrazione della propria famiglia, gruppo, paese. Questo esclude in partenza individui che non godano di apparenti buone condizioni di salute: non è certo casuale che chi emigra abbia in genere un'età giovane adulta; che appartenga, nel proprio Paese, alle classi sociali meno svantaggiate (quelle più povere non potrebbero sostenere neppure le spese di viaggio); che abbia per lo più un grado di istruzione medio28.


Anche per questi motivi, la pionieristica dinamica migratoria dal Marocco è stata caratterizzata da presenze prevalentemente maschili, per lo più giovani in età adolescenziale o da lavoro, che, attraverso un processo di regolarizzazione, sono diventati i costruttori di quelle «catene transnazionali» che si collocano alla base soprattutto della recente immigrazione.
Questi elementi emergono con forza dalla testimonianza di D., che è riuscito a trovare in quel ghorba (esilio) una condizione di vita stabile, regolare e dignitosa.
A.: E … dimmi, quindi stavi bene a Mazara, avevi un lavoro?
D.: Eh, no, era proprio quello il problema! Io e i miei amici abbiamo iniziato a cercare ma niente, proprio niente, eravamo sans papiers, capisci?
A.: Si, senza documenti!
D.: Eh, auraq29, tanto sognati da tutti! E quindi … insomma abbiamo fatto prima i muratori da uno che ha conosciuto Abdel, poi abbiamo aiutato certi contadini durante i raccolti dell’estate quando andavamo sulla spiaggia a vendere certe cose che … è da lì che viene il nome di marocchino che conoscono tutti, quello che vende l’accendino, il braccialetto, ….quanta strada mi sono fatto su quella spiaggia… vendendo… poi per due lire, altro che fluss!
A.: Fino a quando sei rimasto lì per poi venire a Torino?
D.: Ho saputo da mio padre, che era rimasto al paese, che una zia era andata a Torino perché là stava suo marito, c’era andata con il ricongiungimento, era il ’96, mi pare. Molti di noi hanno approfittato di quei tempi, delle sanatorie (che brutta parola …), per far venire i parenti in Italia o per cercare qualcosa di meglio.
A.: Sei andato a Torino, quindi, per trovare tua zia, il lavoro o…
D.: Diciamo tutte e due le cose! cioè la zia era una scusa, volevo un posto, qualcosa di fisso… e poi non tornavo a casa da tanto tempo, perché non c’avevo i soldi!

D. sottolinea l’importanza per un immigrato dei documenti, di un lavoro (stabile), delle sanatorie e dei ricongiungimenti familiari, elementi che denotano quel passaggio dall’irregolarità alla legalità che segnò, come visto, un cambiamento peculiare delle dinamiche migratorie dal Marocco all’Italia.
Il concetto di legalità, oggetto di uno dei più accesi dibattiti politici attuali, diventa un elemento sempre presente nelle testimonianze e nelle biografie dei migranti.
M. vive con sua moglie, i suoi due figli A. e I., sua madre e suo padre che, «bread-winner»30, è arrivato a Torino nel 1988 e ha permesso poi a tutta la sua famiglia di raggiungerlo tramite pratiche di ricongiungimento. M. lavora come educatore in una comunità di recupero di ragazzi minorenni immigrati clandestinamente, senza famiglia, sulla cui scelta afferma:
quando vai in Marocco, lo vedi anche tu, non c’è rispetto per nessuno, c’è miseria, la gente non sa che fare. Non è la gente che è cattiva ma è proprio così, è lo Stato! Per esempio, se hai una malattia, se non hai i soldi, muori, anche negli ospedali! Non ti curano…macchè! Allora uno va alla ricerca di qualcosa e poi manda i bambini soli, alla ricerca di fortuna qui in Italia. Lo sai! Nel mio lavoro, passo più tempo all’ufficio minori, al consolato, alla polizia e lungo il Valentino a prendere questi [minori tossicodipendenti] che non sono delinquenti… lo fanno perché non hanno altro, neanche qui in Italia; vengono così, illegali, magari solo perché c’è uno zio o un conoscente della famiglia che dice di fargli le carte ma poi lo lascia per strada; altri vengono anche regolari, cioè si comprano il permesso e passano alla frontiera, poi ci sono anche quelli che si mettono d’accordo con qualcuno qui, si prendono un lavoro e con quel contratto, con un padrone che non hai mai visto, entrano regolari.

Il discorso di M. porta a due riflessioni: in primo luogo, il Marocco è descritto, ancora una volta, come nelle precedenti testimonianze, come una terra senza diritti né legalità: «se non hai i soldi, muori, anche negli ospedali!»; in secondo luogo, torna l’idea dell’emigrazione come unica soluzione di vita e dell’Italia come possibile fonte di ricchezza e di diritti, cui si giunge spesso grazie a quei social networks che reggono le fila di tutta l’immigrazione transnazionale e che condizionano fortemente la vita tanto di coloro che sono emigrati quanto dei parenti rimasti nel bled. Le “reti” costituiscono i punti di approdo del progetto migratorio pensato nel paese d’origine, hanno una funzione adattativa, in quanto agevolano il nuovo arrivato nel processo di adattamento e di integrazione nella società ospitante, e una funzione selettiva, che determina la scelta e, appunto, la selezione di coloro che sono destinanti a partire. La teoria dei networks permette anche di ri-definire il processo migratorio, allocando le decisioni individuali all’interno di gruppi sociali che ne condizionano e ne regolano i comportamenti.
Le “catene migratorie”, inoltre, nella maggior parte dei casi, incentivano l’entrata in Italia attraverso le “tre vie della legalità”: un contratto di lavoro, di cui si occupano solitamente i familiari che si trovano già nel paese d’immigrazione, nella speranza che venga approvata, al momento opportuno, la loro richiesta tra le quote d’ingresso stanziate dal governo locale; la pratica dei ricongiungimenti familiari31 che ha segnato, sin dal suo avvio, la mobilità di migranti donne, fortemente condizionate dalla presenza di una parte della famiglia all’estero e, per questo, più degli uomini, incentivate a partire; l’acquisto di un visto turistico (a cifre che toccano anche i settemila euro) per passare tranquillamente la frontiera e arrivare nel paese desiderato32. Per questo tipo di soluzione, normalmente, è tutta la famiglia a contribuire con i guadagni, anche di molti anni, di tutti i componenti, perché almeno uno di loro parta per l’Italia.
E’ arrivata in Italia grazie a un permesso acquistato, N., che, come visto in precedenza, “veste all’occidentale”, pur mantenendo sempre quel pudore che caratterizza la maggior parte delle donne marocchine. N. è arrivata da sola da Khouribga nel 1998, giungendo prima in Sicilia (dove c’era un parente che le aveva assicurato il lavoro nei primi tempi del suo soggiorno) e, in seguito, a Torino, dove uno zio, il fratello di sua madre, l’aveva accolta e sostenuta nell’adattamento alla nuova città.
N. rappresenta, come anche M., l’immagine dell’immigrato buono, visto e percepito dalla società come risorsa: conosce due lingue, è giovane, non ha legami familiari che la vincolino nei ruoli di moglie o madre, si sente a metà tra due culture, «marocchina quando sto con i marocchini, italiana quando sto con gli italiani», senza percepire questo né come una non-appartenenza né come uno smarrimento identitario.
Accompagnandola al centro “Spazio al femminile”, dove, al tempo della ricerca, andava regolarmente ogni sabato pomeriggio, libera dal lavoro, per insegnare italiano a donne marocchine analfabete o esclusivamente arabofone, le chiesi come si trovasse a Torino, dopo tanti anni, e che cosa pensasse della città. Con serenità mi ha risposto:
N: Anna, io amo Torino, perché m’ha dato tanto. Anche se all’inizio ho fatto fatica, come tutti cioè, lavoravo infatti come cameriera ai piani di un hotel, poi ho studiato al CPT33 e, come mi vedi adesso, sono diventata mediatrice. E quando il giorno lavoro con i minori che sono soli oppure con le donne arabe, cioè con quelle che parlano solo arabo, perché io l’aiuto in questo, e dunque, ogni giorno, mi accorgo che ‘sta città m’ha dato proprio tanto. Come ti ho detto altre volte, ho iniziato anche all’università giù, al Marocco, ma poi, ho detto basta, perché tanto non si faceva niente, anche con l’università. M’accorgo invece che qui c’è tanto bisogno di noi, cioè di giovani che sanno sia l’italiano sia l’arabo o il francese per aiutare quelli che sono venuti prima.
A.: Dimmi, senti la mancanza di casa ogni tanto, anche se qui ti trovi così bene?
N.: Si certo, quella è sempre la mia terra e qui, comunque, uno non si sente mai a casa sua. Ma sai come dice un detto nostro, proprio arabo?
A.: No, dimmi! Quale?
N: “Chi convive con un gruppo per 40 giorni diventa uno di loro!” E io mi sento, quindi, una anche di qua. Poi con la mia famiglia – a proposito, ti saluta tanto mia mamma- ci sentiamo quasi tutti i giorni. Al phone center, sulla Wind (sai che c’è una tariffa molto buona per l’estero) oppure quando vado alla téléboutique anche su Messenger! Eh… per questo la distanza non la sento, anzi… ora, non ti ho detto, Anna, che sto cercando per far venire mia sorella L.; serve un contratto, sia uno tipo quello che m’ha fatto venire!

Anche se “non si sente a casa sua”, N. vive il tessuto sociale, la cultura e la quotidianità della città in cui è immigrata, testimoniando la gratitudine e la riconoscenza verso ciò che le ha permesso di realizzare il sogno migratorio e di avere successo (njeh fi hyatu). Questo stesso successo la pone in una condizione antinomica rispetto agli altri khouribguiin, rimasti al paese. Da un lato, è oggetto di invidia e di fastidio: la «vacancière» (così la chiamano a Khouribga) che torna per un solo mese, additata come una “turista illegittima”; dall’altro, è punto di attrazione e di onore per coloro che, a loro volta, vivono “nell’illusoria menzogna” dell’emigrazione.
Ogni volta che N. torna a Kouribga durante le vacanze estive, gran parte dei suoi familiari vanno a salutarla, anche per ricevere uno dei doni che lei abitualmente porta dall’Italia; le chiedono cosa pensino gli Italiani di lei, se abbia problemi e di quale tipo, se il lavoro ci sia e … el- fluss.
La famiglia continua a essere centrale nella vita di N., la quale, oltre a rappresentare l’agente di cambiamento di una situazione stagnante e degradante (non solo come sostegno economico), si rende artefice di una forma di “immigrazione contagiosa” e provvede all’emigrazione di altri membri della sua famiglia.
Anche il sistema di informazione e di comunicazione che i migranti creano intorno a loro è funzionale al mantenimento di un legame “viscerale” con la famiglia lontana, alla riuscita del progetto migratorio e al tentativo di superare quell’«ubiquità impossibile» per cui «la sorte dell’emigrato è di continuare a essere presente sebbene assente e là dove si è assenti; al tempo stesso il paradosso dell’immigrato è di non essere totalmente presente là dove si è presenti, il che significa essere parzialmente assenti»34.
L’apparato tecnologico, cui si fa abitualmente ricorso, agevola i contatti con i familiari e i parenti rimasti al bled, i quali entrano, a loro volta, nel circuito degli stessi mezzi di comunicazione. Se il telefono può essere ancora considerato un “cordone ombelicale”, in riferimento al sistema di comunicazione degli immigrati marocchini a Parigi con i loro familiari, i nuovi media (e-mail, chat, messaggerie) cambiano il senso della comunità e la percezione che essa ha di se stessa, tramite un marcato investimento nell’immaginazione, che consente di costruire un senso di familiarità pur virtuale35.
Alla luce di queste testimonianze, appare chiaro che l’emigrazione è anche (e, per qualcuno, soprattutto) sacrificio, impegno, continua incertezza e instabilità, specialmente di fronte alle politiche migratorie italiane degli ultimi anni. Per un giovane, tuttavia, l’Italia rappresenta una forma di riscatto alla perversione e alla delinquenza.
N., come anche M. e D., collocandosi a metà tra l’Italia e il Marocco, vive questa liminalità come possibilità di spendere e impiegare la doppia ricchezza culturale che incarna.
Loro, figli della migrazione di quel terzo periodo analizzato da Ottavia Schmidt di Friedberg, arrivati da soli in Italia o con ricongiungimento familiare, non vivono la loro ibrida condizione come una “doppia presenza”, che impiegano a favore di entrambe le società, spesso come appoggio per i connazionali nel paese d’accoglienza e come sostegno e risorsa in quello d’origine.
La lunga dinamica migratoria dal Marocco verso l’Italia ha favorito, dunque, un processo di stabilizzazione e regolarizzazione soprattutto dei primi-migranti e ha definito il carattere transnazionale delle catene migratorie. Inoltre, accanto all’usuale e, a volte, abusato dibattito sulla legalità, si assiste progressivamente all’inserimento di giovani immigrati, la cui presenza sul territorio italiano si pone più come ricchezza sociale e culturale che come problematica intrusione36.



NOTE
1Abdelmalek Sayad parla, a questo proposito, della “doppia assenza” del migrante, sia dal contesto di origine sia in quello di arrivo, come già Georg Simmel aveva proposto, mettendone in luce la duplice natura di persona accolta e accettata ma, allo stesso tempo, temuta e respinta.: A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, trad. it., Milano, Cortina, 2002 e G. Simmel, Lo straniero, in S. Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano, Angeli, 1986.^
2Si veda, al proposito, P. Werbner, Global Pathways. Working class cosmopolitans and the creation of the Transnational ethnic world, in «Social Anthropology», 7 (1999), pp.17-35; E. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna, Il Mulino, 2002; S. Castles e M.J. Miller, The Age of Migration, Basingstoke/New York, Palgrave Mcmillan, 2003; H. De Haas, Morocco’s Migration Experience: a transitional perspective, in «International Migration», 45 (2007), pp.39-70 ; L.Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Bari-Roma, Laterza, 2007.^
3Si rinvia a U. Hannerz, La complessità culturale, L’organizzazione sociale del significato, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998; A. Appadurai, Modernità in polvere, trad. it., Roma, Meltemi, 2001.^
4M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2005.^
5Secondo i dati del Dossier Migrantes 2007, aggiornati al 31 dicembre 2006, i marocchini in Italia costituiscono la seconda comunità straniera più numerosa, dopo quella rumena, e quindi la principale tra le extracomunitarie, con 387.031 unità (il 10% del totale degli stranieri presenti in Italia), senza contare i non regolari. La stessa situazione si verifica a Torino, dove, nella stessa data, si contavano 15.503 marocchini (Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino 2007), che, secondo gli ultimi aggiornamenti del 3 giugno 2008, forniti dall’Ufficio Stranieri del Comune di Torino, arrivano a 16.968.^
6Le testimonianze qui riportate sono state raccolte, attraverso il metodo dell’intervista individuale e del focus group, durante le ricerche etnografiche condotte a Torino, tra settembre 2005 e gennaio 2007, per la tesi di dottorato riguardante la donazione del sangue della comunità marocchina di Torino in rapporto alla cultura di origine: cfr. A. Fantauzzi, “Un problematico inter-esse”. Etno-antropologia della donazione del sangue tra gli immigrati marocchini di Torino, tesi di dottorato, Università di Roma “La Sapienza”-EHESS di Parigi, a.a.2007-08. I nomi degli interlocutori vengono indicati con la lettera iniziale del nome e viene segnalata la regione o la città marocchina di provenienza. Tutte le interviste sono trascritte verbatim.^
7A questo proposito, vd. R. van der Erf R. et L.Heering, Moroccan migration dynamics: prospects for the future, MRS, 10, Ginevra, IOM, 2002 e H. De Haas, Morocco’s Migration Experience, cit..^
8G. Bolaffi, Una politica per gli immigrati, Bologna, Il Mulino, p.31.^
9Questo fenomeno rientra in quella teoria istituzionalista per cui l’immigrazione è stata letta come un fenomeno che determina e favorisce la nascita di nuove istituzioni e figure “istituzionali” (i passeurs, gli harraga ne sono un esempio), tramite i quali si svolge l’intero processo migratorio (L.Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit., p.105).^
10A. Sayad, La doppia assenza, cit., p. 367.^
11O. Schmidt di Friedberg O., Histoire de l’immigration en Italie, in K. Basfao e H. Taarji (sous la dir.), Annuaire de l’émigration – Maroc, Casablanca, Fondation Hassan II, 1994, pp.406-408.^
12L’appellativo arob (pl. arobiin) ha acquistato l’accezione negativa di “zotico, rozzo”, con la quale i cittadini di Casablanca o di Rabat (madaniin, sing. madani, “colui che abita nel contesto urbano”, el hadara) definiscono i contadini della regione rurale Chouia o della Tedla; in realtà, il termine si richiama, etimologicamente, all’appartenenza araba e all’idea di un nazionalismo arabo (vd. A. Persichetti, Tra Marocco e Italia. Solidarietà agnatica e emigrazione, Roma, CISU, 2003).^
13R. Salih, Gender in transnationalism: home, longing and belonging among Moroccan migrant women, London, Routledge, 2003.^
14Si tenga presente che, con la sanatoria del 2003, a Torino è stato registrato un aumento di quasi 15.000 presenze rispetto all’anno precedente, sebbene abbiano usufruito della regolarizzazione soprattutto i “nuovi” europei provenienti dalla Romania e dalla Bulgaria. Il termine “extracomunitario”, qui impiegato con l’accezione di “al di fuori della comunità europea”, per distinguere i marocchini dagli stranieri che ne sono entrati a far parte, è foriero di un’ambiguità intrinseca di cui è necessario tener conto, come avverte Laura Zanfrini: «Da un punto di vista giuridico, infatti, sono extracomunitari (ammesso che l'espressione sia ancora adeguata dopo che il termine "Unione" è subentrato a quello di "Comunità") anche i cittadini svizzeri, giapponesi e nord-americani, laddove nel significato corrente tale appellativo vorrebbe definire unicamente gli immigrati provenienti dai paesi del Sud del mondo e dell'Est europeo: [...] esso è venuto a significare una condizione di presunta emarginazione sociale» (L.Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit.,p.15).^
15Questo aggettivo, chiamato nell’onomastica araba nisba, indica la città o la regione di provenienza del soggetto cui si riferisce. Vd. C. Geertz, H. Geertz e L. Rosen, Meaning and Order in Moroccan society. Three essays in cultural analysis, Cambridge, Cambridge University Press, 1979. I khouribguiin sono gli abitanti di Khouribga o della provincia, i casauiyin coloro che vengono da Casablanca (dai marocchini chiamata Casa) o anche bidauiyin, “quelli originari della città”.^
16A. Sayad, La doppia assenza, cit., p.193.^
17L.Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit.,p.173.^
18M. Berriane, L’espace touristique marocain, Tours, Era 706-Urbama, 1980.^
19Laura Zanfrini definisce questo sistema un’ “enclave etnica” in L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit., p.170.^
20Roberto Beneduce utilizza la significativa espressione di «aggressiva infelicità» per indicare la condizione di “impurezza” e di trasgressione –verso la legge, la tradizione, l’identità nazionale- dei ragazzi che vivono nell’illegalità, R. Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Roma, Carocci, 2007, p.288. Sulle problematiche legate alla clandestinità, devianza e microcriminalità, relative soprattutto a minori non accompagnati, vd. M. Barbagli Immigrazione e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998; D. McMurray, In and out of Morocco. Smuggling and Migration in a Frontier Boom-Town, Minneapolis, Minnesota University Press. 2001; A. Dal Lago e E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003; S. Taliani e F. Vacchiano, Altri corpi. Antropologia e etnopsicologia della migrazione, Milano, Unicopli, 2006.^
21David McMurray parla di strategie sovversive che la maggior parte dei migranti elabora, quando si trova a dover affrontare il viaggio della speranza, ereditando una serie di tecniche e di abilità che costituiscono una cultura condivisa. Anche per la clandestinità è necessario, tuttavia, predisporre di una certa somma di denaro (spesso anche 1500, 2000 euro a persona) per pagare i passeurs, che organizzano viaggi in barca o in camion. Vd. D. McMurray, In and out of Morocco, cit..^
22M. Foucault M., Archivio Foucault, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1997.^
23Il termine, mutuato dalla psicologia sociale, viene impiegato nell’ambito dell’antropologia e sociologia delle migrazioni, per spiegare uno dei pull factors che alimentano il desiderio di emigrare, cfr. L.Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, cit., p. 86.^
24Per una spiegazione dettagliata su questi termini, che rappresentano simboli tanto della cultura quanto della religione islamica, vd. M. Benkheira, Le visage de la femme entre Shari’a et costume, in «Anthropologie et Sociétés», 20 (1996), pp.15-36; A. M. Rivera, La guerra dei simboli: veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Bari, Dedalo, 2005; F. Giacalone, Bismillah. Saperi e pratiche del corpo nella tradizione marocchina, Perugia, Gramma Edizioni, 2007, pp.45-62.^
25Nell’economia del presente lavoro non è possibile soffermarsi su queste tematiche, che definiscono dettagliatamente i mutamenti subiti dal sapere tradizionale della cultura marocchina in un contesto migratorio. Si rinvia, dunque, ad alcuni dei numerosi lavori che ne hanno trattato: R. Salih, Identità, modelli di consumo e costruzione di sé tra il Marocco e l’Italia, in «Afriche e Orienti», 3-4 (2000), pp. 26-32; G. Dore, L’organizzazione pubblica del sacrificio dell’“Id al kabir”, in «La Ricerca Folklorica», 22 (2001), pp.85-94; F. Giacalone Marocchini tra due culture: un'indagine etnografica sull'immigrazione, Milano, Angeli; A. Persichetti, Tra Marocco e Italia, cit.; A. Fantauzzi “E’ ancora festa?” L’Ayd al - kabir (festa del sacrificio) dal Marocco a Torino e…ritorno, in P. Trombetta e S. Scotti (a cura di), L'albero della vita. Feste religiose e ritualità profane nel mondo globalizzato, Firenze University Press, Firenze, 2007, pp. 219-231.^
26«Non se ne può fare a meno, ora, è qui, di noi, sulla testa e anche nel cuore, capito? Qui non è come in Francia dove è vietato!»^
27A tal proposito, si vedano le riflessioni sull’antropologia del Mediterraneo di J. Davis, People of the Mediterranean. An Essay in Comparative Social Anthropology, London, Routledge & Kegan Paul, 1977; J. N. Ferrié, La naissance de l’aire culturelle méditerranéenne dans l’anthropologie physique de l’Afrique du Nord, in «Cahiers d’études africaines», 129 (1993), pp.139-151.^
28S. Geraci, La Medicina delle Migrazioni in Italia, in A. Fantauzzi (a cura di), L’altro in me. Dono del sangue e immigrazione fra culture, pratiche e identità, Milano, AVIS Nazionale, 2008, p.85.^
29Il termine significa “carte”, sebbene, con esso, si indichino i documenti, come il permesso di soggiorno e il visto per entrare in un Paese straniero.^
30«Padri di famiglia che avvertivano la responsabilità di provvedere con il loro lavoro a quanti dipendevano da loro», M. Ambrosini, La fatica di integrarsi, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 47.^
31Secondo la legge del 2003, sui ricongiungimenti familiari dei cittadini stranieri in Italia, i figli emigrati possono richiedere il ricongiungimento dei genitori, qualora si dimostri che questi dipendano del tutto dalle rimesse dell’immigrato; i genitori possono chiedere il ricongiungimento soltanto per i figli minorenni, vd. Caritas/Migrantes, Immigrazione: dossier statistico 2007, Roma, IDOS, 2007.^
32Sul ruolo della famiglia marocchina, nella dinamica migratoria, vd. L. Heering, R. van der Erf e L. van Wissen, The role of family networks and migration culture in the continuation of Moroccan emigration: a gender perspective, in «Journal of Ethnic and Migration Studies», 30 (2004), pp.323-338.^
33Centro di Permanenza Temporanei offrono sostegno agli immigrati nella ricerca di alloggi, di lavoro e, soprattutto, nell’apprendimento della lingua italiana, che, nella maggior parte dei casi, si pone come primo problema per l’inserimento nella società ospitante: F. Olivero (a cura di), Migranti in Piemonte, Torino, PAS, 2005; Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino, Rapporto 2006, Torino, Città di Torino, 2007.^
34A. Sayad, La doppia assenza, cit., pp.104-105.^
35Non sono poche, infatti, le famiglie degli immigrati marocchini oggi dotate di un computer con collegamento ADSL, soprattutto in città come Casablanca e Rabat. Spesso, i più giovani trascorrono intere giornate su chat e Skype, permettendo anche ai propri genitori di parlare con i figli o con il coniuge emigrato. Si va affermando il ricorso a reti multimediali anche per la ricerca di conoscenze amicali o sentimentali che, nella maggior parte dei casi, restano rapporti virtuali alimentati da un forte senso di immaginazione e di evasione dalla realtà. Vd. D. Eickelman e J. W. Anderson, New Media in The Muslim World. The Emerging Public Sphere, Bloomington, Indiana University Press, 2003.^
36A questo proposito, si veda il rapporto tra immigrazione e dono del sangue in Italia, esempio di partecipazione attiva ai valori civici e alle pratiche di volontariato sanitario, comuni agli autoctoni F. Dei, (a cura di), Il sangue degli altri: culture della donazione tra gli immigrati stranieri in Italia, Firenze, AVIS Book Toscana, 2007; A. Fantauzzi, (a cura di), L’altro in me, cit.^
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