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Tra riformismo e riflusso: prospettive del Partito Democratico
di Adolfo Battaglia
1 – Con l’arrivo del nuovo anno è sparita nel Partito Democratico l’illusione di cui si era nutrito per qualche mese: che cioè le difficoltà della crisi finanziaria mondiale, trasformandosi in crisi economica e sommandosi ai problemi interni del Governo Berlusconi, lo avrebbero indebolito al punto da profilarne la crisi. Ciò che oggi si profila non è una crisi della maggioranza ma la crisi dell’opposizione, in particolare del Partito Democratico.
Questa crisi presenta evidenti aspetti personalistici che non possono essere ignorati. La rendono plateale alcuni sconcertanti interventi della magistratura che risollevano sotto il profilo “morale” una questione di natura ben diversa. Ma è naturale che, come tutte le crisi durevoli e serie, le sue ragioni profonde siano di natura essenzialmente politica. E le principali fra esse sembrano le tre che conviene subito annotare in riassunto. La prima è la carenza di indirizzi sui grandi problemi dell’epoca presente, alla quale si accompagna una troppo lenta revisione degli indirizzi sui grandi problemi dell’epoca passata. La seconda fa corpo con la prima e in parte la spiega: è la carenza di una forma-partito adeguata alla condizione della modernità, e resa manifesta sia dal rifluire nel Pd delle strutture residuate dai partiti del secolo scorso sia dalla lotta di tali strutture contro ogni tentativo di innovazione. La terza ragione, infine, non è che la somma delle prime due. È costituita, infatti, dagli errori di presenza politica che il partito ha compiuto dopo le elezioni, malgrado il felice inizio costituito dalle primarie e la decisione di rafforzare il bipartitismo, chiudendo la stagione dell’embrassons-nous a sinistra che generò la crisi del Governo Prodi.

2 – In ordine alla prima ragione l’osservatore distaccato è colpito anzitutto dal fatto che nel Pd non si siano espresse chiaramente linee politiche alternative ma si profilino piuttosto divisioni che investono le ragioni stesse dell’esistenza del nuovo partito. Sembra in effetti esistere in esso, sotto il velame “de li versi strani”, una questione irrisolta e cruciale: se il Pd debba mirare all’assunzione della modernità politica affermatasi in Occidente, o se debba invece puntare ad un riflusso sugli schemi tradizionali della politica italiana – il cui superamento, appunto, rappresentava la ragione prima di costituzione del partito. Se debba dunque mirare all’assunzione della logica e degli assetti istituzionali coerenti all’ordinamento maggioritario sul quale si reggono le democrazie contemporanee più efficienti; o se invece debba puntare al riflusso sulla logica proporzionalista della prima Repubblica e all’aggiornamento degli assetti connessi all’ordine proporzionale. Pare profilarsi, in altre parole, un contrasto tra una visione politica imbevuta di democrazia occidentale e una visione fondata sui caratteri portanti del nostro “laboratorio italiano” – come appunto lo definiva Ingrao per lodarne la originalità, invero fallimentare. Il fatto certo è che il Partito Democratico, complessivamente, non sembra aver ancora maturato l’idea che un partito di sinistra il quale operi in Occidente o esprime una posizione di sinistra di tipo “occidentale” o semplicemente non è: non ha reali prospettive di governo del paese, non può riuscire ad essere forza maggioritaria, non può contribuire a fondare un sistema istituzionale funzionante né tanto meno un bipolarismo ben temperato. Un punto che è certo difficile accettare da parte di militanti appassionati: ma che, nondimeno, è esatto.
Sotto questi profili non può meravigliare che molti quotidiani abbiano sottolineato come nella critica riunione della Direzione del Pd, alla fine di dicembre, circolasse un certo rimpianto per gli antichi dinosauri da cui il Pd è infine derivato, cioè il Pci e la Dc. Il riflusso di un settore del partito si è espresso anche in questi modi. Che hanno avuta poi una sorta di teorizzazione storico- politica quando un autorevolissimo esponente, già Pci, ha sostenuto che «il riformismo è davanti a noi, ma noi veniamo da cinquant’anni di riformismo». Un’affermazione, come dire, gagliarda; e dipendente probabilmente da una troppo rapida occhiata sia alla storia politica del paese sia alla cultura del riformismo. Sarebbe forse utile al suo autore una riflessione attenta, più ancora che sul togliattismo, sulla circostanza che per circa un secolo la volontà della sinistra italiana di restare ideologicamente estranea alla civiltà politica occidentale è stata pagata con una ininterrotta serie di sonore sconfitte strategiche, appena mitigate da modesti successi sociali e limitati insediamenti di potere.
Peraltro, sul filo delle audaci inclinazioni che serpeggiano, sembrano già delinearsi non meno audaci disegni politici. Da tempo si intravede il proposito di sostituire il segretario del Pd, troppo “bipartitizzante”, o troppo filo-americano. Più di recente sembra sia stata ripresa l’idea di una grande coalizione di tipo, diciamo così, autoctono: tra il Partito Democratico, la Lega Nord e l’Unione di centro democratico-cristiana. I contenuti della quale non sarebbero peraltro meno stupefacenti della formula. Si tratterebbe di metter fine allo sforzo di impiantare anche in Italia il sistema bipolare. Ritornare ad una legge elettorale proporzionale, alla frammentazione della rappresentanza politica e al turbinio delle alleanze parlamentari. Favorire un federalismo capace di soddisfare le esigenze del leghismo nordista. Aiutare la ricostituzione in posizione centrale di una forza cattolica, capace di attrarre una consistente parte del Pdl e di isolare su posizione di destra le forze residue. Disegni napoleonici, come si vede. Che peraltro, come altri grandi disegni pensati dall’on. D’Alema, è probabile siano destinati al fallimento lasciando rovine. Ci si può domandare se non sarebbe più ragionevole, rispetto a questo fantastico cataclisma, concentrarsi sul rafforzamento della sinistra democratica di tipo europeo che in Italia è sempre mancata.

3 – Il problema cruciale che la sinistra riformista europea ha dovuto affrontare, sia pure con gradualità e in differenti modi, è stato quello di fare i conti con gli elementi di estremismo, di anti-occidentalismo, di cultura economica anti-capitalistica, di spirito anti-moderno, che erano rimasti nel suo corpo storico. In Italia il cammino su questa strada è stato iniziato: ma come il vecchio Pci, il Pd è sempre nel guado. È diffusa la percezione della sua difficoltà di completare il traghettamento che lo conduce a riva. Mentre le sinistre europee rompono anche simbolicamente con il loro passato, mentre avanzano oltre la socialdemocrazia perché sono obbligate a considerare nuovi problemi e nuovi traguardi, il rischio della sinistra italiana è di morire di nostalgia: di non trovare il coraggio di rinnovarsi fino in fondo.
Nel suo primo anno di vita il partito è sembrato essere condizionato – non politicamente, si noti, come in certa misura sarebbe stato anche comprensibile, ma sotto il profilo culturale – da jacqueries del più diverso tipo: operaie, pensionistiche, aeree, lattiere, intellettuali (sopratutto intellettuali). Da grida scomposte e pensieri confusi. Il senso storico, la cultura analitica e il metodo gradualista che ispirano il riformismo occidentale non sono ancora riusciti ad impregnarlo.
Suona negativamente la sua difficoltà di assumere su di sé l’intera storia della nazione, in tutti i suoi aspetti. Stupisce che un partito d’orientamento democratico non solo resti freddo nella difesa delle autorità tecniche indipendenti ma sia stato senza parole di fronte all’alterazione dell’equilibrio dei poteri dello Stato. Alimentano dubbi i suoi indirizzi di politica estera, percepiti come incerti rispetto alla condizione storica dell’Italia. Rende perplessi che la retorica europeista impedisca di vedere come il ciclo dell’unità federale sia ormai caduto sotto le vicende della storia, e che dunque si aprono soltanto due tragitti: il ritorno al nazionalismo o una maggiore integrazione dell’Occidente, con assai differenti ricadute sulle grandi questioni “globali” dell’energia, del clima e dell’ambiente.
Nello stesso senso, una buona parte del paese esita a riconoscere quale fratello della sinistra occidentale un partito ancora incerto nel considerare l’economia capitalistica il solo strumento utile per realizzare il suo progetto sociale. Che per uscire dalla profonda crisi economico-finanziaria attuale non riesce a legare i necessari provvedimenti d’ordine congiunturale con le grandi questioni da cui dipende il futuro dell’Italia e dell’Europa. Che non fissa perciò come capisaldi dell’indirizzo economico lo spostamento di risorse sulla ricerca e la scuola, la mobilità sociale, l’efficienza dei servizi pubblici, la collaborazione pubblico-privato. Che non vede il pericolo del cumulo delle domande sociali per un’opera di governo ordinata. Che non si dà un programma di interventi graduato nel tempo non per ragioni di bilancio ma per non indebolire il sistema economico sotto continui stress e non alimentare nel corpo sociale ansie e preoccupazioni di sempre oscuro esito finale.
Se si conviene di utilizzare il termine “occidentale” come termine riassuntivo e comprensibile, si può poi notare che certo non è “occidentale” il fastidio verso il più determinante fenomeno dei nostri tempi, la globalizzazione integrale, straordinaria opportunità mondiale di crescita economica e civile. Né è utile il pessimismo sociologico che descrive una condizione planetaria caratterizzata dai rischi della modernità, quando invece il mondo è pieno delle speranze di miliardi di persone all’alba di un nuovo giorno. Né è occidentale l’esitazione del Pd, ancora frenato dall’approccio che fu dei partiti ideologici del Novecento, a cogliere ed integrare organicamente nell’opera politica gli sviluppi della scienza e della tecnologia, potente contributo alla saldezza di ogni iniziativa riformatrice. Né è occidentale l’incertezza sulla funzione assunta dalla borghesia produttiva, che nelle aree sviluppate ad economia terziaria è divenuta non solo maggioritaria ma anche “classe generale”. Non è occidentale, in breve, una cultura politica poco capace di leggere le possibilità di trasformazione, i nuovi processi, le modificazioni in corso.
Complessivamente, dunque, è offuscata, diciamolo con chiarezza, la fisionomia ideale culturale e politica della sinistra riformatrice. E se è così, e ci si domanda perché tutto ciò sia avvenuto e avvenga, malgrado le felici prospettive inizialmente apertesi al partito, occorre allora addentrarsi nel secondo cruciale problema. Quanto pesi sulla identità e la politica del Pd la sua struttura, il suo concreto e solidificato assetto.

4 – Preliminare, in proposito, è l’osservazione che una visione politica non può dispiegarsi se non sono risolti insieme i nodi della leadership e della struttura del partito. La leadership è tale se oltre un elemento di fascino è l’espressione di una visione. E per converso una visione difficilmente può affermarsi, politicamente, se non è impersonata da un leader. Ma un leader può convincere e vincere se è sorretto da un partito organizzato secondo regole effettivamente democratiche: cioè capaci, in concreto, di garantire partecipazione, rappresentanza e ricambio della classe dirigente. Il problema del Pd è la carenza di queste regole, in luogo delle quali stanno norme democraticistiche di tipo sostanzialmente burocratico. Il Pd risulta in effetti il conglomerato delle strutture delle due forze maggiori in esso confluite (con sostanziale emarginazione di ogni diversa forza giunta allo stesso appuntamento). E il suo appesantimento è completato dall’assenza di idee-forza sui due problemi cruciali del partito politico contemporaneo: cioè il suo rapporto non casuale ma organico con la cultura scientifica e tecnica, e il suo democratico utilizzo delle crescenti forme di comunicazione create dallo sviluppo delle tecnologie.
Il risultato è di tutto ciò è un partito debole. Da una parte, esso è assente dal territorio: perché quando si afferma che vi è fisicamente insediato attraverso sezioni e apparati, si trascura di osservare che quasi sempre essi sono chiusi in logiche di potere, e perciò politicamente assenti dalla vita e dai problemi reali dell’area. Dall’altra parte, sul piano nazionale, il partito è frammentato, diviso in gruppi, fondazioni, associazioni, strumenti di comunicazione. Vere e proprie correnti organizzate, che hanno bisogno, oltre tutto, di finanziamenti adeguati. Completano il quadro le divergenze di indirizzo, gli attacchi personali, il rapporto con mondi pericolosi. In breve, abbiamo insieme tutte le principali caratteristiche che nel Novecento avevano già sfinito i partiti del nostro arco costituzionale malgrado il grande contributo da essi dato alla creazione e al consolidamento della democrazia.

5 – L’osservatore distaccato non può non rilevare che se il Partito Democratico deve riprendersi occorre qualche segno di discontinuità rispetto a tutto ciò. E ci si può domandare, anzitutto, se un indirizzo adeguato possa essere non diciamo neppure opposto ma lontano da quello della democrazia vincente che meglio di tutti Obama oggi rappresenta. Ci si può chiedere in questo senso se sul problema fondamentale della democrazia contemporanea – il finanziamento della politica, che dovunque ha alienato i partiti dall’opinione pubblica – il Pd possa muoversi su un terreno diverso da quello percorso con limpidezza dal nuovo presidente degli Stati Uniti. Il quale attraverso l’utilizzo di massa delle forme moderne di comunicazione e il coinvolgimento di milioni di cittadini nel finanziamento della sua campagna, ha creato un fatto realmente rivoluzionario nella costituzione materiale della democrazia americana.
Ma Obama – occorre anche domandarsi – ha davvero potuto risolvere un problema tanto cruciale solo perché ha usato computer e cellulari? Sono state le sue tecniche a determinare i contributi finanziari grandi e piccoli di tanti cittadini? O non è stato invece il carisma, l’immagine, il progetto, il senso del nuovo espressi dalla sua candidatura? La lotta stessa, aspra e accanita, intervenuta in un sistema pienamente bipartitico scosso dall’entità della crisi da affrontare?
È lecito chiedersi se il Partito Democratico italiano, utilizzando le stesse tecniche di Obama, potrebbe davvero riuscire a finanziarsi mostrando la sua immagine odierna. Ancora più singolare sembra l’idea di tornare al tipo di partito di cui l’intera comunità italiana è stanca da gran tempo. Può mai, il comune cittadino, ritenere che i pasticci dei congressi di partito costituiscano un sistema più “democratico” dei processi di partecipazione popolare alle primarie? Potrebbe il “maso chiuso” di un’assemblea di iscritti dare alla dirigenza politica più autorità della procedura trasparente costituita dalla presentazione di candidati e programmi di fronte a tutti gli elettori? Non c’è bisogno di andare a Ostrogorski e Michels per affermare che le macchine politiche del Novecento, create per società industriali pregne di riferimenti ideologici e di classi definite, hanno nelle società del Duemila uno spazio di esistenza sostanzialmente parassitario.

6 – É singolare che in Italia lo abbia politicamente intuito per primo Silvio Berlusconi, traendone motivo quindicennale di successo; e che nel Partito Democratico, invece, circolino in materia molte seriose banalità. Si ammonisce severamente sui rischi che nascerebbero per la democrazia (nell’Italia di oggi!) da partiti di tipo “americano”. E si nota con molta sagacia che ogni paese ha la sua storia. Ne dovrebbe allora conseguire, almeno, l’esigenza di creare qualcosa di valido e originale, abbandonando alla sua sorte chi pensa ad un “laboratorio italiano” di qualità superiore. A quell’esigenza si risponde spesso, invece, con l’idea di modificare marginalmente ciò che da tempo ha smesso di funzionare e che appunto Berlusconi ha già politicamente sotterrato. È una proposta che sembra corrispondere più ad un impulso masochistico che a un pensiero politico. Il partito “personale” di cui parlano i politologi, certo no. Ma considerare le esperienze democratiche americane di oggi e quelle laburiste inglesi di ieri, confrontare gli insegnamenti della leadership moderata assicurata dalla Merkel con quelli offerti da leader carismatici come Zapatero e Sarkozy, questo significherebbe andare nella direzione in cui va l’intera democrazia occidentale. Significherebbe mirare ad una esperienza viva, fondata meno sulle tessere e più su una molteplicità di associazioni culturali, di movimenti politici, di competenze organizzate, di gruppi monotematici, di forze non corporative. Un partito aperto alla loro rappresentanza. In grado di utilizzare procedure più democratiche attraverso le molteplici forme di comunicazione e di nomina oggi possibili. Dotato di strutture capaci di tradurre in analisi e politiche concrete, con continuità, quanto di nuovo e più efficace continua a produrre il sapere tecnico e scientifico.
La questione, dopo tutto, è in termini semplici. Se le forze politiche sono un prius, allora è essenziale la loro capacità inclusiva. Ed è cruciale, altresì, la loro prontezza nell’impegnarsi sui contenuti corrispondenti alle trasformazioni e alle preoccupazioni che un paese vive. È questo che alimenta il consenso di un partito e riduce le tossine di potere da cui sono stati annebbiati i partiti del Novecento. È questo il problema che si pone al Partito Democratico, il quale, se ha carattere e iniziativa, può risolverlo con una scelta o non risolverlo con un compromesso.

7 – Le difficoltà derivanti dal quadro sopra delineato stanno alla base di molti degli errori che hanno condotto alla crisi attuale del Partito Democratico. Su questioni sensibili come l’Alitalia, la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai, il federalismo, le lotte di potere entro la magistratura, gli episodi di malcostume o inefficienza intervenute in Regioni o Comuni a direzione dei Democratici, si è palesata una insufficienza non giustificabile soltanto con le divergenze interne. Tuttavia, è soprattutto un punto politico e insieme istituzionale che ha gettato un’ombra sull’orientamento del partito.
Nel suo discorso di candidatura alla segreteria, a Torino, Veltroni era partito da un’intuizione correttissima: che il bipolarismo cui il sistema politico italiano era ormai approdato richiedeva, prima che modifiche costituzionali, un cambiamento della prassi politica. Occorreva cominciare dalla reciproca legittimazione: da quel principio che in ogni paese europeo consente «si succedano forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza non frammentata». «Voltiamo pagina – diceva Veltroni – gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti fra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. La politica può essere diversa. Non c’è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente».
Le cose sono andate diversamente. E la frase chiave del discorso di Veltroni un anno dopo, nella manifestazione al Circo Massimo dell’ottobre scorso (“l’Italia è migliore di chi la governa”) misura la distanza percorsa a ritroso rispetto al discorso del Lingotto. Ma per individuarne una spiegazione occorre forse guardare, ancor più che al viso dell’armi, mostrato tatticamente da Berlusconi, alla vicenda interna del Pd. Da una parte è rinata la paura della scopertura a sinistra, alimentata dalle posizioni rissose dell’Italia dei Valori e dal timore di una conseguente caduta di consensi. Dall’altra parte, nella dirigenza del partito il dissenso partiva da un elemento serio – la contraddizione intrinseca tra il riformismo di Veltroni e l’estremismo dipietrista – per volgersi poi al disegno cui si è inizialmente accennato, del tutto alternativo a quello del segretario del partito. Una grande confusione, accentuata da urti sotterranei, ha così caratterizzato il Pd nella fase post-elettorale, solo temporaneamente avendo una sosta nella riunione della Direzione nazionale alla fine di dicembre. È riemersa in compenso la questione della collocazione internazionale del Partito Democratico, pronta a scattare tutte le volte che la temperatura interna sale e il ramo socialista e quello cattolico del partito mostrano le insegne di guerra.
    
8 – Non si è certo al crollo delle mura di Gerico. Al di là di vicende particolari il Partito Democratico può tornare a costruire il partito riformista di modello occidentale per il quale si è lavorato a partire dalla prima intuizione dell’Ulivo. Può farlo se torna ad avere la capacità e il coraggio di sostenere una visione di lungo periodo. Nessuna strategia può affermarsi se un partito si perde nella polemica quotidiana. Nessuna iniziativa politica può essere convincente se si fa condizionare dai possibili risultati di qualche elezione regionale o della prossima elezione europea – passaggi secondari rispetto al problema, dopo tutto. E nessuna prospettiva seria può consistere in tentativi di combinazioni parlamentari precarie e a corto raggio.
É giusto dunque attendere la ripresa di iniziativa della dirigenza del Pd. Ma essa non può che essere di grande vigore e spessore, e tanto più quanto è meno diffusa nel partito la cultura del riformismo moderno. Ma ancor più nella consapevolezza che soltanto la solitudine in una fase può portare il riformismo ad essere, in una fase successiva, l’elemento riconoscibile e dominante della coalizione che per la vittoria fosse necessaria. Peraltro, il tempo per operare si è fatto breve. È in questo tempo che si decide se il prossimo congresso nazionale del Pd sarà per la sinistra di governo italiana un congresso utile o un congresso drammatico.
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