Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 2 > Documenti > Pag. 149
 
 
Il bisogno di Storia e le sue nuove modalità
di Giuseppe Galasso
Giuseppe Laterza parlato ha portato a questo seminario sulle forme di storia un contributo non solo strettamente pertinente ai temi in discussione, ma anche molto concreto e, anche per questo, più che apprezzabile.
A mia volta, pongo anch’io una domanda iniziale: che cos’è la storia? Domanda antichissima, che, però, è sempre bene porsi e riproporre. A parere di Leopold von Ranke, il grande innovatore della storia moderna a metà dell’Ottocento, la storia consiste nel cercare di sapere che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco), che cosa realmente sia accaduto nel passato, come veramente siano andate le cose. La definizione di Ranke implica due punti. Implica, prima di tutto, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi, e che per accedere a questa realtà e conoscerla occorre seguire un itinerario logico-critico, per cui, a seconda dei punti di vista, o ci trasferiamo noi nel passato o trasferiamo il passato nel presente. Implica pure, però, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, in quella che al Ranke appariva l’oggettiva alterità del passato, appunto perché passato, e diventato, così, immutabile.
È una elementare, quasi banale, lezione di storia, ma è sempre fondamentale, e sempre va ricordata. Per stare al problema sollevato da Tortarolo, direi che i due punti impliciti nella definizione del Ranke – e, cioè, che il passato è un’alterità e che esso è, però, accessibile – sanano anche il rapporto tra metonimia e metafora. La metonimia è lo scambio, è vero, di significati; la metafora il trasporto di un significato, o del significato, da una cosa a un’altra. E, appunto, ci si offrono così due procedimenti che sono correlativi sia all’alterità che alla conoscibilità del passato. Per la verità, nel dire questo, io considero la metonimia e la metafora soltanto dal punto di vista retorico. Lascio impregiudicato il problema se dal punto di vista filosofico queste due figure retoriche abbiano la stessa incidenza e lo stesso valore.
In ogni caso, una volta definito così il passato, qual è la ragione per cui lo dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato? La verità è che noi abbiamo un bisogno innato di storia, un bisogno che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento noi possiamo essere noi stessi come singoli, come individui, né possiamo essere noi stessi come collettività, come comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. È questa visione storica del nostro essere, di quello che siamo, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità. Ed è nella soddisfazione di questo bisogno primario, essenziale, congenito che consiste quella che nel mio libro, cortesemente ricordato da Tortarolo, Nient’ altro che storia, io ho qualificato come funzione storiografica, connaturata, appunto, tanto alla dimensione sociale quanto alla dimensione individuale dell’esperienza umana, dalla quale, quindi, funzione storiografica, individuale e collettiva, è ineliminabile.
Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludible è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un forte senso storico della propria identità, ed esse sentono fortemente il bisogno di conoscere la propria storia e quella di altre comunità o di altri tempi o altri momenti delle stessa comunità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. Nessun iato sussiste, quindi, tra coscienza comunitaria e coscienza individuale, almeno sul piano del sentire e vivere la propria identità personale, anche se su un piano puramente psicologico il senso dell’individualità non manca in nessun individuo (né potrebbe, a pena, altrimenti, di rendere insussistente l’individuo). In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall’altro lato, il senso dell’individuo e dell’individualità è molto più forte. In tali casi l’esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti dalla pratica comunitaria, collettiva della funzione storiografica. I due casi – prevalenza e sufficienza della soddisfazione collettiva o comunitaria del bisogno di storia, e prevalenza di questa esigenza storica sulla scala dell’individuo – indicano, invero, anche un percorso storico, in quanto il primo caso appare più o meno chiaramente legato a uno stadio antropologico, mentre i secondo appare altrettanto legato al maturare di condizioni socio-antropologiche più complesse, più articolate, più differenziate e disaggregate (che non è la stessa cosa che disgregate).
È utile, quindi, chiedersi se vi siano oggi condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia. Con relativa sicurezza, e per molte ragioni, è da credere che alla domanda, almeno per qualche verso, sia possibile rispondere di si. E di tali ragioni se ne possono ricordare qui almeno due: il mercato e i media. Elementi che certo non sono nati nel secolo XX o nel XXI, poiché in forma molto diversa da tempo a tempo, in forme elementarissime o in forme anche molto complesse, sempre, in qualche modo, sussistono. Ne fornisce un buon esempio la stampa. All’atto della sua invenzione il mercato dei libri era esiguo. Nessuno stampatore del Cinquecento avrebbe stampato 500.000 copie di un libro, come oggi avviene non di rado per qualche romanzo di grandissimo successo o per best-sellers di altro genere, e neppure nessuno stampatore del Seicento. Ma, se si pensa – mettiamo – ai foglietti di devozione, di notizie sparse, di polemica politica etc., che sono circolati in Europa in decine di miglia di copie, dobbiamo concluderne che, considerata l’altissima incidenza dell’analfabetismo, fatta la proporzione della popolazione, e fatta la proporzione della forza propulsiva del mercato sollecitata da parte di chi lo promuove, pure concluderne che si tratta disono cifre ragguardevolissime. La stampa è stata senza dubbio il primo dei media, e resta a tutt’oggi anche quello che ha cambiato più radicalmente gli atteggiamenti e i comportamenti individuali e le prassi sociali e collettive. Oggi, peraltro, il computer è venuto a significare come l’invenzione di una nuova stampa, trasformando, se non nell’essenza, certo nelle modalità, la funzione della stampa stessa,a tal lunto che molti, non senza ragione parlano di un analfabetismo di nuovo tipo in rapporto alla conoscenza o ignoranza dlela scrittura elettronica. Quel che, però, appare più importante non è tanto che vi sono condizioni nuove, come il mercato e i media, che rendono oggi diverso il modo di comunicare e l’ampiezza di cui la comunicazione è suscettibile, quanto, invece, che appare diversamente indirizzata anche la soddisfazione dell’esigenza storiografica, del bisogno di storia.
Il punto essenziale da considerare è che nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie, sia della presenza dell’individuo, del conto che si fa dell’individuo, della forza di presenza dell’individuo. E questo significa che, essendo la funzione storiografica concettualmente e costitutivamente sempre la stessa, essa esige di soddisfare il bisogno di storia anche in relazione alla circostanze per cui le esigenze storiografiche sia individuali che collettive e sociali sono di tanto cresciute e la domanda storiografica si è di tanto moltiplicata.
Mutamento soltanto di ordine quantitativo? Intanto, constatiamo che la sempre frequente e spesso deplorata qualificazione della società moderna come pura e semplice società di massa, condannata a un processo fatale di massificazione, ossia di annichilimento o impoverimento o riduzione ai minimi termini della personalità e della coscienza individuale, è fondata per qualche verso e per certi aspetti. Per altri aspetti, però, per altri versi, la società moderna è una società che ha liberato potentemente le espressioni e la capacità di espressione individuale, la proiezione delle individualità in ogni campo o settore della vita sociale, la possibilità di accentuare fortemente il modo e la misura soggettiva del vivere sociale. E, quel che risulta ancor più rilevante è che i due aspetti, l’individuale e il collettivo, che appaiono opposti e contrastanti sul piano della logica e sul piano dei fatti, nella realtà dell’esperienza nella quale li rileviamo appaiono, invece, strettamente interconnessi e, addirittura, interdipendenti. Lo sono, anzi, a tal punto che nel sistema, nelle tecniche e, soprattutto, nella prassi dei mezzi di comunicazione di massa è intervenuto un modulo nuovo che si va sempre più diffondendo e che esprime il bisogno di coprire in modo organico e funzionale l’interrelazione delle due dimensioni – massificazione e personalizzazione, massa e individualità – in cui sembra tradursi con maggiore evidenza il genio proprio dell’età moderna: il modulo, cioè, per cui si chiede che la comunicazione e i suoi mezzi diano luogo a un rapporto interattivo tra il fruitore e il fornitore della comunicazione, tra la fonte e la foce dei grandi canali e strumenti della comunicazione.
Senza, comunque, addentrarci più oltre nel richiamarci a queste problematiche fondamentali nella vita di relazione della modernità più avanzata, vorremmo qui sottolineare soltanto che queste problematiche investono, pari pari, in tutte le sue ramificazioni e in tutte le sue manifestazioni, anche la vita culturale. Si pensi, ad esempio, all’impatto che nel campo storiografico ha avuto la cosiddetta “scoperta” che il racconto è una modalità connaturale, originaria e imprescindibile della storiografia. Come “scoperta” non è un gran che, sia lecito affermarlo senza perifrasi e giri di parole. Solo a una storiografia che perda i riferimenti essenziali del suo statuto logico-critico e della sua più propria metodologia può accadere di smarrire il senso dell’essenzialità, per essa, del racconto. E questo, per la verità, è ciò che fin troppo spesso è accaduto alla storiografia della seconda metà del secolo XX, indubbiamente sotto la sollecitazione di elementi e fattori degni della più attenta considerazione e non senza aperture e guadagni sul piano del metodo e del merito della ricerca storica. La riscoperta del racconto è, perciò, anche un segnale tra i più importanti di un ripensamento molto promettente di teoria e di metodo storiografico, e questo, a sua volta, è certamente della massima importanza anche al di fuori dell’ambito disciplinare della storiografia.
Sul piano delle cose di cui oggi discutiamo – ossia delle forme di storia in rapporto ai problemi della comunicazione – la riscoperta del racconto come modalità storiografica presenta, comunque, un interesse particolare. Il racconto è, infatti, veramente il luogo di incontro, lo spazio più ampio e più variegato in cui si possono incontrare le esigenze collettive e quelle individuali della funzione storiografica e del bisogno di storia. Già, in sé e per sé, il racconto rappresenta il modo di essere della storiografia che risponde più immediatamente a quella fattualità del passato, alla quale si riferiva il Ranke con la sua richiesta di accertamento di quel che nel passato è realmente, wirchlich, accaduto. Tuttavia, nel racconto non sono affatto assenti i problemi. Non è vero che trasformare tutto nella narrazione dei fatti significa eliminare dalla scena storiografica il momento della riflessione, della problematizzazione, della concettualizzaizone. A parte che la nozione di fatto è una delle questioni più controverse, uno dei punti più problematici e più discussi non solo della teoria storiografica, bensì di tutto l’arco delle questioni logiche, epistemologiche, gnoseologiche, anche nel senso più elementare, più convenuto e più corrente del termine, i fatti presentano strutture costitutive complesse e problematiche, che non li rendono affatto una comoda scorciatoia per un lavoro storiografico più semplice, se non più facile.
A mio avviso sono da riferire anche a considerazioni di questo tipo i problemi della cosiddetta divulgazione, di quali ha parlato Laterza. Problemi che non sembrano, invero, da drammatizzare, ma che ritengo tali da porre questioni di primaria importanza anche sul piano didattico non solo per quanto riguarda le forme e i linguaggi della storia, ma anche per la definizione dei contenuti (se posso dire così) e del metodo dell’insegnamento. Sappiamo tutti che c’è una didattica generale, ma in concreto sono poi le didattiche dei singoli settori e discipline a occupare giustamente il proscenio e l’attenzione massima degli interessati. A insegnare si impara sul campo, e mai come in questo caso è pertinente il detto che Hegel amava, per cui, se si vuole imparare a nuotare occorre tuffarsi in acqua. Ma la riflessione e lo studio aiutano anche per la didattica, a patto, naturalmente, che, come in ogni altro caso, la teoria sia e si senta al servizio della pratica e non accada il contrario. Aggiungo solo che, proprio per le relative implicazioni didattiche, è importante tenere presente la sociologia del nostro tempo, la conformazione sociale effettiva della società con cui mettersi in rapporto. E questo in doppio senso: nel senso di conoscere, magari con qualche approssimazione, ma in misura sufficiente, la composizione sociale di quella che molti definiscono come platea scolastica a cui è destinato l’insegnamento; e nel senso di procurarsi una buona conoscenza delle condizioni sociologiche della comunicazione del nostro tempo.
Sulla base di quanto ho detto finora, mi è accaduto, mentre qui si parlava di crisi, di trovarmi d’accordo sia con Vittoria Fiorelli, che vede senz’altro in atto una crisi della storiografia, sia con Mastrogregori, che a questa crisi non crede. E questo non perché sia comodo essere d’accordo con l’uno e con l’altro ma perché ritengo che la crisi sia una crisi di identità e di funzione della storiografia, ma non sia una crisi del bisogno storiografico nella nostra società. Bisogna assolutamente distinguere questi due aspetti del problema, e ciò vale anche ai fini di una migliore valutazione dei problemi della cosiddetta divulgazione. Non sembra, infatti, difficile riconoscere che possano esservi forme di testualità molto differenziate nella realtà sia del mercato che degli studi. Nella ricchezza, molto maggiore di un tempo, dei tipi di testualità che oggi possiamo registrare, non va vista una decadenza verso la divulgazione o la banalizzazione dei testi storiografici. Va visto, invece, un grande allargamento di possibilità di comunicazione e di scambi interattivi, che risponde, o può rispondere, nel modo migliore anche a quella moltiplicazione del bisogno storiografico di cui si detto.
Si rifletta, d’altronde, sul fatto che ciò che noi diciamo per la storiografia, lo dicono gli scienziati per le scienze. Il bisogno di divulgazione scientifica e di conoscenza scientifica è forse oggi minore del bisogno di conoscenza storiografia? No, perché la conoscenza storiografica è una nostra condizione esistenziale, e una nostra condizione esistenziale è anche la scienza. Ecco perché, a mio avviso, noi non abbiamo il problema di controllare, irrigidire, impoverire la ricchezza dei possibili tipi di testi in una società ormai, in tutti i sensi, globale. Abbiamo, piuttosto, un problema di governo delle possibili testualità sia per quanto riguarda i fruitori che per quanto riguarda i produttori del libro di storia: governo e controllo – è appena il caso di dirlo – assolutamente non ideologico, bensì di funzionalità e di finalità, di chiarezza nel volere e vedere dove vogliamo andare con il libro di storia, e con quale libro di storia vogliamo andarvi. Il problema, in ogni caso, è sempre quello di rispondere nel modo insieme più alto e più ampio a bisogni profondi della condizione umana individuale e collettiva, tra i quali la storia è certamente uno di quelli più essenziali e fondanti,in un’epoca come quella dell’inizio del terzo millennio dell’era cristiana così sconvolgente per i mutamenti che sta introducendo nella realtà del mondo e dell’uomo e per i ritmi con cui il mutamento procede.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft