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Strabismo meridionalista*
di Giuseppe Galasso
Quando parliamo di Mezzogiorno, uno dei rischi più ricorrenti, più devianti, più ingannatori è di credere che il Mezzogiorno non solo sia arretrato ma sia anche immobile nella sua arretratezza. Ebbene – ed è questo un punto sostanziale dal quale non si può in nessun modo prescindere – non è così: il Mezzogiorno è arretrato nel senso di avere un minor grado di sviluppo rispetto ad altre parti d’Italia e d’Europa, ma non è affatto una realtà statica. Chi pronuncia su di esso il giudizio che lo rappresenta come una realtà immobile cade in un errore dei più clamorosi. Ho avuto già modo più volte, e sento sempre opportuno ripetere, che chi guarda al Mezzogiorno dev’essere fortemente strabico. Lo sguardo strabico di chi con un occhio guarda da un lato e con l’altro occhio dall’altro lato è, infatti, l’unico conveniente a chi voglia cogliere la realtà di ieri e la realtà attuale di quel mondo complesso che il Mezzogiorno è sempre stato, e tuttora è. E in questo caso sguardo strabico significa che un occhio deve constatare e considerare il permanente grado di sottosviluppo dello stesso Mezzogiorno rispetto al resto del paese, mentre l’altro occhio deve constatare e considerare il cammino che intanto ha fatto del Mezzogiorno qualcosa di molto diverso da quel che esso era cento o centocinquant’anni fa.
Per quanto riguarda il perdurante divario tra il livello di sviluppo del Mezzogiorno rispetto a quello della restante Italia, molti sembrano dissentire o avanzare riserve, ma che nella realtà nazionale italiana permanga una condizione di dualismo strutturale è fuori di ogni dubbio.
Come è mai possibile negare questo dato di fatto? Quali che siano le statistiche a cui ci si rivolge, sempre si ritrovano collocate fino al 50°/60° posto le province dell’Italia centro-settentrionale, mentre nelle posizioni successive fino all’ultima si ritrovano collocate le province dell’Italia meridionale e quelle delle isole. Alla coda delle province centro-settentrionali si collocano, per lo più, le province dell’Umbria e delle Marche, che fanno registrare una media di 5 o 6 punti percentuali in meno rispetto alle altre province del Centro-Nord in meno felici condizioni. Poi si scende di altri 5 o 6 punti percentuali, e si arriva agli Abruzzi. Questa è la struttura dominante, con molto poche eccezioni, in tutte le statistiche economiche e sociali dell’Italia ancora all’inizio del XXI secolo; e non vi potrebbe essere indicazione statistica più eloquente perché si parli di dualismo italiano.
Della posizione, relativamente più felice, in media, delle province abruzzesi nelle statistiche nazionali molti si riempiono, come suol dirsi, la bocca, rilevando che gli Abruzzi sono molto vicini alla condizione delle province dell’Italia centrale, quasi che si fornisse, così, un’indicazione atta a vanificare le linee caratterizzanti del dualismo italiano. Trascurano, però, in tal modo, il tutt’altro che trascurabile distacco, che pure c’è tra le ultime province dell’Italia centro-settentrionale e quelle abruzzesi in quanto prime dell’Italia meridionale. E trascurano pure un altro dato, di carattere storico. È vero che negli Abruzzi si è creato uno standard di equilibrio economico e sociale più elevato rispetto alle altre province del Mezzogiorno. Non si tiene conto, però, del fatto che i risultati raggiunti dagli Abruzzi dipendono dall’aver essi subìto un processo migratorio alquanto maggiore di quello di quasi tutte le altre parti del Mezzogiorno. È certo che, se da Napoli se ne andassero tre o quattrocentomila persone, il problema napoletano sarebbe sempre difficile da risolvere (se non altro, perché ci sono di mezzo …. i napoletani), ma entrerebbe in un ambito, ben diverso da quello reale e attuale, di non ardua realizzabilità.
Inoltre, il dualismo italiano permane anche in altro senso: nel senso, cioè, che i motori, le chiavi, gli effettivi centri di potere e di decisione economica sono concentrati tutti, con assolutamente poche eccezioni, nell’altra parte del paese. Così, ad esempio, il sistema creditizio dell’Italia centro-settentrionale ha ingoiato quello meridionale e insulare, costituendo un episodio alquanto significativo degli squilibrati rapporti di forza e di potere economico e finanziario tra le due parti del paese.
Il dualismo italiano è, anzi, ancor più preoccupante proprio per questa ragione. Realtà civili omogeneamente sviluppate sul territorio di un paese non si conoscono in nessuna parte del mondo, né le ricorda la storia. In ogni paese c’è una parte più sviluppata e un’altra meno, c’è il più e c’è il meno, molto spesso a brevissima distanza di luogo, e a volte la diversità di gradi e di forme di sviluppo non è meno importante e negativa del dualismo italiano. In Italia, però, il dualismo delle condizioni economiche e sociali e la diversità di ritmo dello sviluppo coincidono con un dualismo territoriale molto netto; colorano una parte del paese tutta in nero e l’altra tutta in bianco; ed è per questa ragione che il dualismo deve essere considerato in Italia un elemento micidiale della struttura del paese.
Sul peso di questo modulo dualistico c’è sempre da insistere, e, certo, non per un animus passatista o perché non si sappia distaccarsi da moduli culturali tradizionali, bensì perché la negazione del dualismo italiano e la negazione della struttura territoriale del dualismo italiano sono state tra gli inconvenienti maggiori e peggiori che si siano registrati nell’azione in sostegno del Mezzogiorno durante gli ultimi quindici o venti anni. E di questi inconvenienti almeno uno va ricordato subito, e cioè la critica che dall’interno stesso del Mezzogiorno è stata avanzata al meridionalismo, all’effettiva realtà della “questione meridionale”, al concetto stesso di Mezzogiorno come realtà storica delle regioni meridionali.
In base a questa critica si sono postulati, perciò, criteri di studio che negavano che si potesse guardare al Mezzogiorno alla luce del dualismo, sotto la suggestione del fantasma che sarebbe stato rappresentato dalla contestata “questione meridionale”. Il Mezzogiorno – è stato detto – va studiato al di fuori della suggestione di simili fantasmi; va studiato come ogni altro pezzo di mondo. Un errore, dal punto di vista concettuale e metodologico, gravissimo, perché nessun pezzo di mondo può essere studiato come qualsiasi altro pezzo del mondo. I pezzi del mondo hanno tutti una loro inconfondibile specificità, e non possono essere studiati alla stessa stregua.
Si prenda, ad esempio, proprio il caso del Mezzogiorno. Anche il Mezzogiorno denuncia problemi di arretratezza, di sottosviluppo, di subalternità, di dipendenza etc. sul piano della sua storia e delle sue strutture economiche e sociali; però, non è la stessa cosa di un qualsiasi paese africano, sudamericano o asiatico che abbia quegli stessi problemi. E questo, tra l’altro, e innanzitutto, per una ragione principalissima, ossia perché il Mezzogiorno è sempre vissuto nell’ambito della civiltà italiana, europea, occidentale. Ĕ, per usare una terminologia così poco elegante, un pezzo di mondo, ma è, in effetti, e più precisamente, un pezzo di quel particolare mondo italiano, europeo, mediterraneo che per noi è l’Occidente; e questo fa molta differenza. Oggi, che la metà orientale dell’Europa sta entrando o è entrata nell’appena nata Unione Europea, si vede ancora meglio quanto ciò faccia la differenza: quanto, cioè, significhi essere una periferia subalterna dell’Europa occidentale avanzata e che cosa, invece, significhi essere una periferia, sempre europea, ma al di fuori dell’ambito europeo occidentale. Si affluisce dall’Europa orientale, così come da altre aree del mondo, nel Mezzogiorno meno che in altre parti d’Italia e d’Europa, ma sempre in misura considerevole, mentre non si sa di meridionali che preferiscano lasciare il loro paese e andare a vivere in quelli dell’Europa orientale.
Alcuni anni fa si diffuse l’idea che il Mezzogiorno avesse raggiunto la meta dell’allineamento alla condizione italiana media. Si presentavano gli indici di un suo miglioramento a un ritmo statistico superiore, sia pure di poco, a quello delle regioni dell’Italia centro-settentrionale; e se ne deduceva la certezza di un sicuro ingresso dello stesso Mezzogiorno nella carriera di uno sviluppo già delineato. A me è sempre parso di dover essere al riguardo estremamente scettico. Poche variazioni percentuali, di frazioni di punto o di appena un punto percentuale in determinate statistiche, richiederebbero, data la portata del dualismo italiano, richiederebbe che il Mezzogiorno continuasse a svilupparsi allo stesso ritmo maggiore di quello del Centro-Nord per alcuni decennii, e solo permanendo per 30 o 40 anni un tale vantaggio statistico delle regioni meridionali si potrebbe parlare del dualismo italiano in tutt’altri termini.
Di una tale prospettiva è da ritenere, a mio avviso, che si debba fortemente dubitare anche alla luce della storia dell’economia. Mi pare, infatti, che la storia dell’economia dimostri ad abundantiam come nella stragrande maggioranza dei casi, per non dire sempre, nei processi di sviluppo non ci sia la gradualità del lento miglioramento, bensì una fase di big-bang iniziale, un big splash, un big spurt, come dicono gli storici dell’economia. Questa fase di scatto iniziale l’Italia la ebbe già, in una certa misura, tra il 1880 e il 1887, ma poi soprattutto tra il 1896 e il 1913. Tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50 o primi anni ’60 del secolo XX l’Italia ne ha poi avuto un altro, che è stato da solo molto più consistente di tutti gli altri due messi insieme. L’Italia è diventata quel che è diventata, cioè uno dei primi dieci o dodici paesi più sviluppati del mondo grazie a queste fasi di fulminea e intensa accelerazione del suo sviluppo moderno; e noi italiani del 2007 viviamo di rendita su questi tre momenti. E di qui la deduzione che, se il Mezzogiorno non denuncia un simile momento di scatto, il suo processo di sviluppo rimarrà, presumibilmente, sempre problematico.
A mio avviso, era, inoltre, sempre da considerare che il relativamente maggiore progresso del Mezzogiorno negli ultimi anni mostrasse un altro aspetto particolare, e cioè che l’economia del Centro-Nord si trovava in difficoltà, e che solo rispetto a questa difficoltà aveva valore quel relativamente maggiore miglioramento. Sarebbe stato lo stesso appena l’economia settentrionale si fosse rimessa in moto? E, a quanto pare, le cose sono andate proprio così.
Nel mio libro è, a sua volta, ripetutamene esaminata la politica speciale del Mezzogiorno, e anche a questo riguardo mi pare opportuno ripetere anche qui a chiare lettere, come nel libro, per una doverosa lealtà storica e politica, che il criterio della politica speciale, dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, assunto a criterio politico fondamentale dai governi della Repubblica Italiana dalla fine degli anni ’40 del secolo XX è una delle pagine più degne e più alte nella storia dell’Italia unita. La quantità delle risorse messe a disposizione non era ingentissima, ma il criterio era molto moderno. L’opera svolta nei primi dodici o quindici anni è stata imponente, e ha lasciato frutti duraturi e di prim’ordine. L’elettrificazione, l’acqua, la viabilità, in modo speciale quella minore, una serie di sostegni all’agricoltura e ad altri settori, interventi urbanistici e numerosi altri sono tutti interventi degli anni ’50 e primi anni ‘60 che fanno onore alla Repubblica italiana.
Poi, è vero, è sopravvenuta la crisi della politica speciale, e le cose assunsero un altro aspetto. Nel parlare di politica per il Mezzogiorno si deve fare l’operazione che in storia, ma anche in politica, è assolutamente imperativa, bisogna, cioè, periodizzare.
Il primo periodo della politica speciale non fece miracoli, ma vide in atto una politica intelligente, robusta e complessivamente ben avviata e realizzata. In un secondo periodo, negli anni ’60, si rilevò che il Mezzogiorno non partiva, non aveva lo scatto che ci si aspettava con la politica speciale, e si alzarono, perciò, le ambizioni di questa politica, passando dal criterio della formazione di infrastrutture e servizi ritenuti prerequisiti indispensabili e sufficienti per lo sviluppo al criterio dell’intervento diretto nella promozione economica. Si era pensato che il Mezzogiorno fosse arretrato anche, anzi soprattutto perché era arretrato nella sua attrezzatura civile. Un potenziamento delle infrastrutture e dei servizi avrebbe ovviato alla carenza dei prerequisiti stessi dello sviluppo e avrebbe determinato pressoché automaticamente l’avvio di quello scatto del movimento economico che era il fine principale dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno. Ciò non si era verificato, e apparve, quindi, opportuno, se non necessario, tentare la strada dell’industrializzazione diretta, poiché l’industria era ritenuta allora la forma culminante dello sviluppo economico. Per la verità, a mio avviso, l’industria lo è anche oggi. Comunque, però sia di ciò è che si pensò allora di industrializzare il Mezzogiorno con grandi impianti siderurgici, metalmeccanici, chimici, grandi impianti petroliferi.
Le conseguenze di questo nuovo criterio furono rilevanti, e ben poco positive. Accanto all’industrializzazione di alcune aree (e qualcosa oggi ne rimane, anche se non molto) ci fu una deviazione della politica di sviluppo del Mezzogiorno, che connotò fortemente il periodo tra gli inizi degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70. Furono anche anni esaltanti per il rilievo che allora ebbe il problema del Mezzogiorno. Si era abbastanza convinti che, se si fosse vinta la battaglia per il Mezzogiorno, si sarebbe anche vinta la battaglia italiana di un più alto e incisivo sviluppo di tutto il paese nel quadro europeo e mediterraneo. Furono, però, anche anni terribili. Apparve ben presto che la via presa non era la migliore, e questo anche perché nel frattempo cambiarono molte cose in Italia, in Europa, nel mondo sia sul piano economico e finanziario, sia su altri piani. Si guastò anche nella sua pratica conduzione la politica per il Mezzogiorno. Neppure nei primi quindici anni essa era stata un’arcadia. In seguito i condizionamenti politici e clientelari esercitarono un peso sempre più negativo, anche se bisogna dire che l’amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno, che fu l’originale e moderno strumento operativo escogitato per l’intervento straordinario, rimase, in linea di massima, un organismo sano. È sintomatico che nella cosiddetta “tangentopoli” degli anni ’90 non sembra essere stata implicata nessuna delle personalità di spicco della Cassa. Tuttavia, e in sostanza, la politica per il Mezzogiorno cadde preda dei gruppi politici locali, si trasformò in una politica di potere locale e nazionale e andò incontro a una sorta di degenerazione assistenziale, che tolse credibilità e legittimità alla linea dell’intervento straordinario.
Infine, la politica dell’intervento era concepita come una fornitura di risorse aggiuntive, oltre quelle ordinarie che si avevano a disposizione per le regioni meridionali già dal bilancio dello Stato. Invece, la spesa straordinaria divenne sempre più sostitutiva della spesa ordinaria, vanificando il punto fondamentale di ogni politica speciale. La politica per il Mezzogiorno perse, così, anche la sua visione strategica generale, che agli inizi era forte; e molto peggio fu da quando, a partire dal 1970, intervennero nella politica per il Mezzogiorno anche le Regioni, alle quali è stata via via riconosciuta una parte in tale politica per il Mezzogiorno.
Tutto questo ci spiega perché, già alla fine degli anni ’70, la politica dell’intervento per il Mezzogiorno era morta. Sarebbe stato allora un atto di grande saggezza porre fine alla linea dell’intervento straordinario, come da pochissime persone, già proprio alla fine degli stessi anni ’70, non si mancò di fare presente. E mi sia lecito ricordare che tra quei più che pochissimi fui anch’io col saggio Il meridionalismo 1978 o il saio dell’umiltà. Il saio dell’umiltà è, come si sa, il saio che indossano i monaci quando debbono fare penitenza e debbono umiliarsi; e questo il meridionalismo doveva fare, a mio avviso, nel 1978: umiliarsi, cioè, e pentirsi, e porre fine e rinunciare a un intervento che era diventato ormai illusorio e ingannevole, perché in gran parte sostitutivo anziché aggiuntivo nella sua consistenza finanziaria, rovinoso nella sua gestione dell’intervento, inefficace nei suoi effetti.
Tra i quali effetti è opportuno segnalare ancora un punto essenziale. L’ipotesi del meridionalismo nel primo quarantennio dell’Italia unita affermava, all’insegna del presupposto splendidamente espresso da Giustino Fortunato, che «l’Italia sarà se il Mezzogiorno sarà», e, cioè, se si sviluppa e cresce il Mezzogiorno, cresce anche tutta l’Italia. Il Mezzogiorno non si è sviluppato, mentre l’altra Italia è andata avanti dimostrando di non avvertire un fastidio notevole nel portare avanti il peso di un Mezzogiorno arretrato, e che contavano di più i benefici che alla restante Italia potevano venire dal tenere unito a sé il Mezzogiorno che non la condizione negativa rappresentata dall’arretratezza meridionale per l’Italia nel suo complesso.
Comunque, lo spegnimento della lampada meridionalistica auspicato, sia pure da pochissimi, alla fine degli anni ’70, non vi fu, e fu un male, poiché vi si giunse in modo traumatico alla fine degli anni ’80, sopprimendo la Cassa per il Mezzogiorno, senza sostituirvi immediatamente niente. In seguito si è cominciato a fare qualcosa con molta inventività, con un adeguamento degli strumenti ai modelli internazionali di politica dello sviluppo. Oggi l’espressione di ultimo grido è quello di una “politica di coesione”, che, strumenti a parte, non mi pare nulla di veramente diverso dalla politica di intervento a favore del Mezzogiorno.
Tocchiamo qui un punto di fondamentale attualità. A mio avviso, non si può dire di aver trovato, nell’esperienza degli ultimi dieci o quindici anni, una via davvero nuova per il Mezzogiorno. Non abbiamo ancora trovato strumenti realmente nuovi sol perché oggi non si parla più di sviluppo, ma di coesione, o perché non si parla più di incentivi, ma di fiscalità di vantaggio, o perché si insiste molto sui progetti anziché sui piani di cui si parlava fino a qualche tempo fa. Intanto, mentre noi perdevamo altro tempo sul fronte del nostro dualismo, è sopravvenuta una stretta nella politica di unità europea, che ha portato per il Mezzogiorno altri cambiamenti, e di non piccolo spessore. Innanzitutto, sono diventati fruibili per lo sviluppo risorse finanziarie costituite da fondi europei in aggiunta a quelli nazionali. D’altro lato, l’ingresso nella Comunità Europea di molti paesi dell’Europa orientale e balcanica ha costituito, date le meno felici condizioni di quei paesi anche rispetto ai livelli del Mezzogiorno, un nucleo vincente di concorrenti nella fruizione dei fondi europei, per cui si prevede già che in un futuro non lontano a questi fondi il Mezzogiorno non possa più accedere. Inoltre, si sono rilevati non piccoli problemi anche nella gestione dei fondi europei, della cui utilizzazione e incidenza nella condizione del Mezzogiorno e nella politica delle Regioni meridionali e nella politica nazionale (o, meglio, in ciò che resta di una tale politica) negli ultimi quindici anni si desidera ancora un bilancio attendibile e chiaro che consenta veramente di farsi un’idea al riguardo.
Peraltro, in nessun bilancio meridionale si può trascurare il fatto, ben poco discutibile, che negli ultimi quindici o venti anni è cresciuto e si è moltiplicato il peso della malavita organizzata, che ha conquistato nuovi campi di attività e nuove regioni e territori nel Mezzogiorno. Si tratta, come si sa fin troppo bene,di un handicap di prima grandezza. Né si può trascurare il fatto che in Italia (a dire le cose come stanno) nessuno vuole più parlare di Mezzogiorno. Perfino nell’avvio del nuovo Partito Democratico che è sorto, nella discussione in termini di problema del Mezzogiorno si è sentito parlare di Mezzogiorno con un particolare impegno.
Quando si dicono queste cose, si teme sempre di alimentare il vittimismo e il piagnonismo dei meridionali (anche se si dovrebbe dire che vittimisti e piagnoni sono i cattivi meridionali, quelli che hanno alimentato e alimentano l’immagine del “meridionalismo accattone” e reclamano contro lo Stato “assente”, salvo a violare continuamente la presenza dello Stato, quando c’è). Non bisogna, tuttavia, avere remore neppure per questo rischio. In fondo, quando Norberto Bobbio affermava che «il problema meridionale è il problema dei meridionali», noi reagivamo, avvertendo in quell’affermazione un che di pregiudizio etno-antropologico o di disprezzo politico. Ciò non toglie che quell’affermazione sia sostanzialmente vera.
Questi sono i motivi per cui mi pare che negli ultimi anni, abbiamo avuto un Mezzogiorno che, pur non restando immobile, è rimasto sempre dualisticamente contrapposto al resto dell’Italia, senza che per esso vi sia ancora nella società nazionale una rinnovata e apprezzabile prospettiva politica, in qualche modo equivalente a quella che vi fu tra gli anni ’40 e ’70 del secolo XX, e ciò mentre c’è una trasformazione addirittura geopolitica e istituzionale, come è quella europea. E sono, quindi i motivi per cui ritengo che, anche senza più parlare di “questione meridionale”, vi sia ancora tuttora un grave e cospicuo “problema aperto del Mezzogiorno”.



* Si pubblicano qui di seguito i testi delle relazioni di Giuseppe Galasso e Fabrizio Barca al seminario di studi «Il Mezzogiorno d'Italia da "Questione" a "Problema aperto"» tenutosi presso l'Università degli Studi di Lecce il 30 novembre 2007. ^
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