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Zingari (o rom)
di Elisa Novi Chavarria
È piuttosto singolare che un libro nato e pensato per «essere un contributo a una cultura politica di ampio respiro, non appiattita sull’emozione del momento o sugli archetipi del nemico, nomade e straniero», al dichiarato scopo di proporre nelle sedi più opportune «un ripensamento delle politiche per gli zingari», trovi poi, e sin da subito, i suoi primi e più accaniti denigratori proprio tra i rappresentanti di quelle stesse comunità rom i cui diritti avrebbe preteso tutelare. Eppure, anche questo a volte accade.
È quel che accade ora, ad esempio, intorno a una breve raccolta di saggi a cura di Marco Impagliazzo (Il caso zingari, a cura di M. Impagliazzo, Introduzione di A. Riccardi, Leonardo International, Milano 2008). Vi si propone, a un pubblico che l’agevolezza della scrittura farebbe supporre alquanto vasto, un tema su cui di recente si addensano molte attenzioni non sempre, però – verrebbe già da dire – adeguatamente soddisfatte. Prima della sua versione editoriale il testo di Impagliazzo è stato presentato alla Conferenza Europea sulla popolazione rom tenutasi a Roma, presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione dell’Interno il 23 gennaio 2008, consultabile anche via internet sul sito della Comunità di Sant’Egidio di cui l’Autore è Presidente (http://www.santegidio.org/it/eventi/convegni/20080122_zingari_impagliazzo). È appunto rispetto ad essa che si sono levati già i primi malumori. Sul blog dell’associazione Sugar Drom è apparsa una lunga dichiarazione che, a nome dei gruppi rom e sinti presenti in Italia, ne ha sottolineato le forti implicazioni razziste, a cominciare dall’uso stesso del termine “zingari” che – si sostiene – è una definizione coniata dalla cultura “non zingara” ed entrata poi nel linguaggio comune al pari del termine “nomadi”: un eteronimo, dunque, la cui utilizzazione sarebbe di per sé una evidente forma di discriminazione razziale (http://sucardrom.blogspot.com/2008/01/il-razzismo-nascosto-nelle-p...).
Evidentemente “il caso zingari” – espressione che usiamo ora per intitolare più in generale qualche idea nata dalla lettura del libro – continua a destare “scalpore”. Non a caso nel suo contributo Impagliazzo esordisce proprio sottolineando quanto l’antigitanismo sia in effetti fenomeno della cultura europea di lunga durata e assai risalente nel tempo. Dopo aver ricordato che i primi provvedimenti di espulsione, di cui gli zingari furono poi più volte oggetto nel corso della loro storia in molte regioni d’Europa, risalgono addirittura agli ultimi decenni del XV secolo, Impagliazzo, però, accenna soltanto alla prospettiva storica più lontana della questione, che pure dice di volere assumere, e rivolge in effetti la sua analisi esclusivamente al secolo appena trascorso. Certo, il capitolo delle deportazioni nei campi di concentramento e dello sterminio degli zingari durante la Seconda guerra mondiale è uno dei più dolorosi della storia del popolo rom, su cui soltanto da poco si è cominciato a fare luce [H. Asséo, Le sort des Tsiganes en Europe sous le régime nazi, in Les tsiganes dans l’Europe allemande, «Revue d’histoire de la Shoah», 167(1999), pp. 8-19; G. Lewy, La persecuzione nazista degli zingari, 2000, trad. it., Torino 2002]. Al processo di Norimberga non si parlò del genocidio di oltre mezzo milione di zingari e poco si sa, ancora oggi in Italia, del concentramento di zingari nei campi di internamento di Boiano e Agnone in Molise o di Pedrasdefogu in Sardegna, o delle condizioni di semi-schiavitù in cui in migliaia di loro hanno vissuto in molte aree dell’Est europeo. Una congiura del silenzio ha continuato a perseguitarli anche dopo il 1945, escludendoli di fatto dal riconoscimento del diritto di indennizzo previsto dalla Convenzione di Bonn per i perseguitati per motivi razziali. Ed è perciò da ascrivere tra i meriti del libro la pubblicazione in appendice di una serie di documenti originali, che potranno dare anche al grande pubblico almeno una qualche idea delle dimensioni del problema. Vi sono riportati, ad esempio, alcuni degli atti trasmessi dal Ministero dell’Interno ai prefetti del Regno d’Italia, tra cui il telegramma circolare che nel 1940 disponeva l’espulsione degli zingari stranieri e l’internamento di quelli di nazionalità italiana; la relazione sulle condizioni di vita degli internati nel campo di Boiano stilata dal locale ispettore di Polizia; il racconto del comandante del campo di Auschwitz degli “esperimenti” colà condotti sugli zingari, cui fu iniettato il bacillo del tifo e della devastante epidemia infantile Noma, che scavò nelle guance dei bambini buchi attraverso i quali si poteva «guardare da parte a parte, [mentre] ancora vivi imputridivano lentamente» (p. 115).
Duole dirlo, ma i meriti del libro – se pure, dato il caso, è lecito parlare di “meriti” – finiscono qui. L’interesse che il tema suscita e le molte domande che sollecita non vi trovano più di qualche tiepida interpretazione. Degna di nota, anche se ovviamente assolutamente non originale, risulta l’assimilazione della questione della discriminazione degli zingari a quella degli ebrei, condotta da Amos Luzzatto (Ebrei e zingari, uniti nella persecuzione). Più interessante l’intervento di P. Morozzo della Rocca su La condizione giuridica degli zingari. Vi si apprende che in Italia il problema della tutela giuridica della minoranza rom non è ancora stato affrontato, neanche per quelli che potremmo definire “immigrati” di terza generazione, vale a dire ragazzi nati in Italia da genitori essi pure nati in Italia. Si apprende, inoltre, che essi, privi di iscrizione anagrafica e di un’autorizzazione stabile al soggiorno, in virtù della loro apolidìa non hanno neanche potuto giovarsi delle tre più recenti “sanatorie” che dal 1996 al 2002 hanno invece consentito a migliaia di lavoratori stranieri venuti in Italia dopo di loro di regolarizzare la propria posizione (pp. 60 sgg.). Complessivamente ci pare, però, a dir poco, riduttivo che – come fa A. Riccardi - si passi a parlare di sicurezza “reale” e sicurezza “percepita” di fronte al pericolo che le società urbane attribuiscono alla presenza di campi nomadi nelle loro periferie. Si appiattisce così il tutto sulla solita famigerata “vertigine della globalizzazione”, responsabile in genere di più o meno tutti i mali del mondo e, in questo caso, anche del montare del discrimine nei confronti degli zingari, i “diversi” per eccellenza (p. 10). Concetto, quest’ultimo a cui, senza neanche troppe remore, si richiama lo stesso Impagliazzo allorché scrive che gli zingari conservano forte il senso di una loro “accentuata alterità” (p. 21). A nostro avviso, invece, è proprio l’assunzione della prospettiva della alterità – che è cosa ben diversa da quella della ricerca della identità – a presentare i più alti rischi di fraintendimento.
Il libro non si esprime, infine, neanche su quanto sia “politicamente corretto” l’uso del termine “zingari”, su quali ne siano le origini, sul come e quando esso sia diventato sinonimo di marginali, nomadi e vagabondi; ed è appunto sull’onda anche emotiva di tanti e tali fraintendimenti che poi si spiega la già accennata alzata di scudi manifestata nei suoi riguardi da parte delle comunità rom italiane. A quanto a noi risulta – e come ricerche recenti vanno dimostrando – il termine zincarsi o cingarus è l’appellativo con cui molti gruppi e individui provenienti dall’area dei Balcani si sono autoidentificati sin dal loro primo apparire tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento in diverse aree del Mezzogiorno d’Italia. Esso in certi casi ha finito con l’identificarli come un cognome. Solo successivamente, quando, sullo sfondo di una mutata congiuntura storica, più acuta si fece la percezione della insidiosità insita nella mobilità delle persone, la parola “zingaro” venne poi perdendo molti dei suoi riferimenti alla connotazione di appartenenza a un popolo e ad una etnia per diventare, invece, sinonimo di “ozioso e vagabondo” o, peggio ancora, marginale e criminale (E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli (secoli XV-XVIII), Guida, Napoli 2007). È su un tale slittamento e sovrapposizione di senso che si è venuto configurando poi lo stereotipo negativo dello zingaro. Ma detto questo, una volta percepita cioè la dimensione storica di un tale trasferimento di significato, è giusto – come pare stia avvenendo proprio all’interno di molte comunità rom – far cadere completamente in disuso il termine zingaro per paura che ad esso automaticamente si associno secoli di stereotipi negativi? Non si rischia così facendo, oltre che una perdita di consapevolezza, anche il paradosso di introiettare la stereotipizzazione negativa anziché elaborarla in maniera attiva? Tra gli ebrei – come acutamente osserva Luzzatto – ha spesso funzionato lo stesso paradosso e non sempre questo ha costituito per loro un vantaggio (pp. 41 sgg.).
Pure, a nostro avviso, si può, invece, procedere oggi a un modo nuovo per rapportarsi alla questione che la presenza sul nostro suolo di “minoranze” sempre più numerose e di sempre nuovi flussi migratori rendono tanto più indispensabile. Valorizzarne la storia è uno di questi. Come dice lo stesso Impagliazzo conoscerli e conoscerci meglio «soprattutto in questa Europa che sta cambiando il profilo delle sue genti» (p. 44) e sempre più va arricchendosi della consapevolezza delle sue tante pluralità ci sembra perciò davvero obiettivo improcrastinabile.
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